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Bank of Japan e Fed: annunci tassi con nodo inflazione, ci siamo. Boom salari in Giappone, record in 33 anni

15 Marzo 2024 13:58

Da un lato, una Bank of Japan pronta alla svolta storica della propria politica monetaria con l’annuncio della fine dell’era dei tassi negativi. Dall’altro, la Fed di Jerome Powell, orientata a confermare, sui tassi, lo status quo, almeno per ora.

Tra i market mover più importanti della prossima settimana, si mettono in evidenza le riunioni della Banca centrale del Giappone (in calendario i prossimi 18-19 marzo) e del Fomc, il braccio di politica monetaria guidato dal presidente Jerome Powell, in calendario il 19-20 marzo.

Massima attenzione al rapporto dollaro-yen, ma anche euro-yen, dopo gli scatti al rialzo che la valuta giapponese ha riportato nel corso di questa settimana. Scatti che sono stati motivati dagli analisti e dagli strategist proprio con le aspettative di una Bank of Japan ormai destinata a staccare la spina ai mercati, inondati dal 2016 fino a oggi da una ondata di liquidità record.

Detto questo, lo yen nelle ultime ore si è indebolito, dopo lo schiaffo sferrato dall’inflazione Usa alla Federal Reserve.

Bank of Japan: countdown a fine era tassi negativi. L’assist dei salari

Mentre la Fed di Jerome Powell e la Bce di Christine Lagarde si affannano a capire il momento ideale in cui sarà possibile iniziare a tagliare i tassi, rispettivamente negli Stati Uniti e nell’area euro – le previsioni sono per primi tagli nel mese di giugno – la Bank of Japan è alle prese con l’interrogativo opposto:

quando decretare la fine di quella politica monetaria ultra espansiva ancora in essere, che dal 2016 è incentrata sui tassi negativi (-0,1%)?

Dopo le novità arrivate questa settimana in Giappone dal fronte dei salari, e dopo la sorpresa del Pil del quarto trimestre del 2023 che ha scansato la paura che la terza economia del mondo fosse scivolata in una fase di recessione tecnica, la BoJ sarebbe, secondo alcuni economisti, ormai pronta ad alzare i tassi.

Un appello a favore della normalizzazione della politica monetaria del Giappone è arrivato d’altronde dalla stessa Ocse che, lo scorso gennaio, ha invitato il governatore Kazuo Ueda e i suoi a muoversi, in diversi modi:

continuando a rendere la propria politica del controllo della curva dei rendimenti (UCC) più flessibile, aumentando il target dei tassi dei bond giapponesi a 10 anni o fissando un target di breve termine per i rendimenti. Oppure, per l’appunto, decidendosi ad alzare in modo graduale i tassi di interesse di breve termine a partire dall’inizio del 2024, a fronte di un tasso di inflazione ormai attorno al 2% e di una accelerazione della crescita dei salari.

Il Giappone è a un punto di svolta, con il tasso di inflazione che si attesterà attorno al target del 2% in modo durevole, al ritmo forse più alto dall’introduzione (del target)”, ha scritto l’Ocse in un report dedicato al Giappone dei primi giorni di gennaio di quest’anno.

Va ricordato che il governatore Kazuo Ueda della Bank of Japan ha detto più volte che l’uscita dall’era dei tassi negativi avverrebbe una volta certificata la crescita dell’inflazione al ritmo del 2% “in modo sostenibile”.

Outlook inflazione avalla grande mossa Bank of Japan

Proprio nelle ultime ore, dal consensus degli economisti intervistati da Reuters, sono arrivate le nuove stime sulla crescita dell’inflazione in Giappone che avallerebbero la grande svolta della Bank of Japan.

Secondo il consensus, nel mese di febbraio l’inflazione core del Giappone – quella che esclude i prezzi dei beni alimentari freschi ma che include i prezzi dei beni energetici – dovrebbe essere salita del 2,8% su base annua, riportando così la crescita più veloce dallo scorso ottobre, dopo il rialzo pari a +2% di gennaio.

Il nuovo dato relativo all’inflazione (CPI) dovrebbe favorire ulteriormente lo scenario di una Bank of Japan pronta a dire basta ai tassi negativi.

Ma c’è un fattore ancora più determinante che ha condizionato e sta tuttora condizionando le scommesse dei trader su un imminente rialzo dei tassi in Giappone, che sarebbe il primo dal 2007: la crescita dei salari e il conseguente effetto sulla dinamica dei prezzi, confermata dalle trattative che sono andate avanti nel corso di queste ultime settimane tra le aziende giapponesi e i rispettivi dipendenti.

Salari Giappone: l’annuncio dell’aumento più forte degli ultimi 33 anni

Il grande annuncio è arrivato oggi: le aziende più grandi del Giappone hanno raggiunto un accordo con i sindacati volto ad aumentare i salari al ritmo più alto degli ultimi 33 anni.

L’aumento, così come è stato annunciato dal sindacato più grande del Giappone nella giornata di oggi, 15 marzo, sarà per la precisione pari a +5,28%:

la notizia sarà stata attentamente monitorata dalla Bank of Japan che, da otto anni, ovvero dal 2016, è costretta a confermare una politica monetaria imperniata sui tassi negativi, in un Giappone conosciuto piuttosto per la minaccia della deflazione.

L’aumento dei salari dovrebbe però a questo punto tradursi in spese per consumi più solide e dunque in un’inflazione finalmente più sostenibile, giustificando di conseguenza la mossa della Bank of Japan.

Stando a quanto ha riportato Rengo, ovvero la Confederazione dei sindacati in Giappone, i dipendenti delle principali aziende giapponesi avevano chiesto un aumento dei salari pari a +5,85%, superiore alla soglia del 5% per la prima volta in ben 30 anni.

Pur non della stessa entità, quell’incremento pari a +5,28% accordato dalla Corporate Japan getta le basi di una Bank of Japan pronta ad agire.

D’altronde, Rengo – che rappresenta qualcosa come 7 milioni di lavoratori giapponesi – aveva previsto un aumento del salario di base di oltre il 3%, decisamente inferiore rispetto a quello che è stato deciso oggi.

Gli analisti avevano stimato un aumento superiore al +4%, anche in questo caso più contenuto rispetto a quello annunciato oggi, dopo il +3,6% riconosciuto nel 2023, che già aveva rappresentato il record degli ultimi 30 anni.

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Per ora i mercati scommettono su un rialzo dei tassi da parte della Bank of Japan già la prossima settimana con una probabilità del 50%.

Gli analisti di Mitsubishi UFJ Financial Group sono più hawkish, scommettendo sul primo rialzo dei tassi dal 2007 dalla BoJ di 25 punti base già con la riunione, ormai alle porte, di marzo.

Gli stessi stimano un’altra mossa di 25 punti base al massimo entro il meeting di ottobre, che dovrebbe portare i tassi a salire allo 0,25%.

Riflessi sulla borsa di Tokyo.  Attenti allo yen

In attesa dell’annuncio della Bank of Japan, con il commento “L’ultimo samurai” , Massimo De Palma, Head of Multi Asset Team di GAM (Italia) SGR, si riferisce in particolare all’outlook della borsa di Tokyo, reduce da un rally sfrenato che ha portato l’indice Nikkei 225 a volare anche oltre la soglia di 40.000 punti per la prima volta nella storia, e che ora si è tuttavia sgonfiato.

De Palma ha ricordato che la “BOJ ha affermato che, prima di ridurre gli stimoli ha bisogno di ulteriori prove, come gli incrementi delle retribuzioni che sostengano i consumi e un’inflazione stabile”.

“I dati di febbraio sembrano andare in quella direzione e la notizia della firma di una serie di aumenti salariali, tra cui quello della Toyota, fa crescere la convinzione che il Paese possa uscire dai tassi negativi già nella riunione della prossima settimana”, ha sottolineato l’esperto, mettendo in evidenza che, con “l’uscita dalla deflazione le aziende sono state in grado di aumentare i listini in modo adeguato, tale da migliorare i loro risultati finanziari”.

Nello specifico “la loro capacità è stata quella di trasferire l’aumento dei prezzi sui consumatori finali, in alcuni casi riuscendo addirittura ad aumentare i margini”.

Il risultato è che “adesso una parte della maggiore efficienza aziendale, dovuta anche a radicali processi di ristrutturazione, verrà indirizzata ai necessari adeguamenti salariali”.

In questo contesto, ha spiegato De Palma, “il timore maggiore del mercato è che la decisione della Banca Centrale possa determinare un forte apprezzamento dello yen, anche se alcuni membri del Board hanno ribadito che la politica monetaria rimarrà accomodante pur con la fine dai tassi negativi”.

Guardando nello specifico alla borsa di Tokyo, secondo il responsabile della divisione Multi Asset Team di GAM (Italia) SGR, “l’azionario giapponese riuscirebbe a sopportare una reazione estemporanea della valuta, ma se dovesse verificarsi un’inversione radicale e profonda, allora potrebbero esserci ripercussioni sui corsi”.

Di fatto, “yen e Nikkei tendenzialmente vanno in direzione opposta, hanno una correlazione significativamente negativa”.

Da non dimenticare tra l’altro il fatto che sul “tavolo c’è anche l’acquisto di ETF azionari, una delle molteplici strategie intraprese dalla BOJ per sconfiggere la deflazione di questi anni”.

Attualmente (la Bank of Japan) ne detiene per un controvalore circa di 70.000 miliardi di yen (475 miliardi di dollari), diventando il più grande possessore di azioni giapponesi”.

Ma la banca centrale già a partire dallo “scorso anno ha ridotto gli acquisti, intervenendo solo tre volte e sulla correzione del 2% di pochi giorni fa non ha agito, confermando la riluttanza ad aumentare l’esposizione”.

Di conseguenza, “la domanda legittima è quando inizierà a ridurre la posizione per eliminare questo elemento di distorsione di mercato e inevitabilmente impattare sui prezzi”.

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In attesa della Fed arriva la sberla dell’inflazione Usa

Detto questo, nonostante le aspettative dei mercati rimangano di una Bank of Japan pronta ad alzare i tassi – secondo qualcuno già in occasione del meeting ormai alle porte – e nonostante le scommesse sulla Fed siano invece, magari non subito, di tagli ai tassi Usa nel corso del 2024, a guadagnare non è oggi lo yen, ma il dollaro.

Il motivo?

Quel report sull’inflazione pubblicato ieri, che ha confermato come negli Stati Uniti, a dispetto della carrellata continua di strette monetarie del 2022-2023, l’inflazione scotti ancora.

L’indice dei prezzi alla produzione Usa (PPI) di febbraio ha messo infatti in evidenza infatti una crescita dei prezzi che non sarà piaciuta affatto alla Fed di Jerome Powell, così come, sicuramente, non è piaciuta a Wall Street.

L’indice è salito infatti su base annua dell’1,6%, al ritmo più sostenuto dal settembre del 2023.

Su base mensile, la crescita è stata pari a +0,6%, doppia rispetto a quanto atteso e doppia anche rispetto a gennaio.

Escludendo le componenti più volatili rappresentate dai prezzi dei beni alimentari e dei prezzi energetici, il PPI core è salito infatti dello 0,3%, più del +0,2% atteso.

L’effetto su Wall Street e sui tassi dei Treasury è stato evidente.

Va ricordato inoltre che proprio la scorsa settimana il presidente della Fed Jerome Powell, nel corso di due audizioni al Congresso Usa, ha confermato che la Banca centrale americana non è ancora pronta a tagliare i tassi di interesse, in un contesto in cui la persistenza dell’inflazione degli Stati Uniti continua a essere confermata dai dati macro.

Dopo l’indice PPI, per quano riguarda la riunione imminente della prossima settimana (19-20 marzo), le aspettative dei mercati sono così per un nulla di fatto, dunque di tassi fermi compresi tra il 5,25% e il 5,5% con una probabilità che è una certezza, praticamente, pari al 99%.

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L’inflazione più alta delle attese ha portato i mercati a prezzare anche in misura minore il taglio dei tassi previsto per la riunione di giugno: le scommesse sulla prima sforbiciata ai tassi da parte di Powell & Co, stando a quanto emerge dal trend dei futures sui fed funds, sono scese infatti dal 67% al 63% dopo la pubblicazione dell’indice PPI.