A Wall Street riesplode ansia inflazione-tassi Fed. Per Dow Jones sessione peggiore da panico Lehman bis
La crescita dell’inflazione è tornata a spaventare Wall Street, finita nell’Inflation Day sotto l’attacco dei sell.
Il Dow Jones è crollato nei minimi intraday della sessione della vigilia di oltre 700 punti, scontando la pubblicazione dell’indice CPI di gennaio, tra i parametri più importanti per monitorare il trend delle pressioni inflazionistiche.
Il listino ha poi chiuso la sessione con un tonfo di 524.63 punti, -1,35%, a quota 38.272,75, archiviando la seduta peggiore su base percentuale dal 22 marzo del 2023, quando la crisi delle banche Usa innescata dal crac della banca regionale SVB-Silicon Valley Bank mandò al tappeto Wall Street e i principali listini azionari mondiali, accendendo la paura di un evento della stessa portata del crac di Lehman Brothers.
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Nei minimi intraday della sessione di ieri, quando è capitolato fino a -757,52 punti, o dell’1,95%, il Dow Jones ha sofferto tra l’altro la flessione più forte dal 21 febbraio del 2023, quando crollò di 697 punti, ritracciando del 2,06%.
Lo S&P 500 ha perso l’1,37% a quota 4.953,17, mentre il Nasdaq Composite ha chiuso in ribasso dell’1,8% a 15.655,60 punti.
Le vendite hanno attaccato ieri anche l’indice azionario delle small cap Russell 2000, in picchiata di quasi il 4%, in quella che è stata la sua seduta peggiore dal giugno del 2022.
A Wall Street torna trauma inflazione-Fed. Cosa è emerso dall’indice CPI
L’ondata di smobilizzi che ha attaccato ieri Wall Street si spiega con la parola chiave “inflazione”.
La borsa Usa ha pagato in particolare la pubblicazione dell’indice CPI di gennaio, salito su base mensile dello 0,3%, oltre il +0,2% atteso dal consensus degli economisti intervistati da Dow Jones.
Su base annua, il CPI ha segnato una crescita pari a +3,1%, in rallentamento rispetto al +3,4% di dicembre, ma a un ritmo decisamente più alto del rialzo pari a +2,9% atteso dal consensus.
A spaventare anche la componente core dell’inflazione.
Il CPI core – che esclude l’impatto dei prezzi dei beni energetici e dei beni alimentari – è salito a gennaio dello 0,4%, rispetto al +0,3% atteso, su base mensile, scattando del 3,9% su base annua, come a dicembre. Il consensus aveva previsto un rallentamento al tasso pari a +3,7%.
I numeri hanno riacceso il timore che la Fed di Jerome Powell aspetterà ancora un po’ di tempo prima di tornare a tagliare i tassi sui fed funds Usa.
D’altronde, dal presidente della banca centrale Usa Jerome Powell non è mancato più volte, nei mesi scorsi, e in occasione anche del primo atto della Federal Reserve del 2024, l’attenti sul rischio che le pressioni inflazionistiche potessero tornare a rialzare la testa.
Taglio tassi più lontano, scattano rendimenti Treasury e indice della paura
La paura di una Fed ancora hawkish sui tassi, e in ogni caso riluttante ad abbassarli, ha portato i rendimenti dei Treasury Usa a 10 anni a balzare nella sessione di ieri di oltre 10 punti base, salendo fino al 4,32%, al record in più di due mesi.
I tassi dei Treasury a due anni sono saliti oltre il 4,66%, a conferma del fenomeno dell’inversione della curva dei rendimenti.
L’indice della volatilità – noto anche come indice della paura CBOE Volatility Index (VIX) – è schizzato verso la fine della seduta di Wall Street a 16,50 punti, al record dal 2 novembre del 2023, rispetto ai minimi della seduta a quota 13,43, e al di sopra della media mobile in 200 giorni.
Per diverso tempo, il VIX era stato scambiato al di sopra della media mobile in 50 giorni di 13,18 punti, stando a quanto riportato dalla CNBC.
Sul forex, le aspettative di una Fed non ancora pronta a tagliare i tassi hanno fatto scattare i buy sul dollaro Usa (che tuttavia, ora, fa dietrofront).
Il risultato è che il rapporto dollaro-yen ha sfondato quota 150 per la prima volta dal 17 novembre del 2023, con lo yen che è scivolato per la settima seduta consecutiva.
Inflazione Usa, si azzerano scommesse su taglio tassi Fed a marzo
Dopo il dato di ieri, si sono azzerate le scommesse dei mercati su un taglio dei tassi da parte della Fed di Jerome Powell nella prossima riunione del Fomc, il braccio di politica monetaria della banca centrale, del mese di marzo.
I futures sui fed funds Usa prezzano un taglio dei tassi nel meeting di marzo con una probabilità pari a zero, e una sforbiciata nella riunione di maggio con una probabilità inferiore al 50%.
E non finisce qui, visto che, stando a quanto emerge dallo strumento CME FedWatch – che monitora le attese dei mercati sulle eventuali future manovre della banca centrale americana – i trader scommettono sulla decisione della Fed di lasciare i tassi fermi fino alla riunione di giugno con una probabilità pari al 24,2%, schizzata rispetto a quella del 3,2% di appena una settimana fa.
I numeri di ieri sembrano così avallare l’opinione di chi, fin dalla fine dello scorso anno, quando l’ultima riunione della Federal Reserve aveva fatto impennare le speculazioni su un imminente taglio dei tassi Usa, aveva parlato del rischio che i mercati stessero facendo i conti senza l’oste.
Tra gli attenti lanciati, molti avevano avuto come mittente diversi stessi esponenti della Fed.
Il presidente Jerome Powell in primis, nella conferenza stampa seguita all’ultima riunione del Fomc – in occasione della quale i tassi sono stati lasciati fermi al range compreso tra il 5,25% e il 5,5% – ha ribadito come non si potesse cantare ancora vittoria, a causa della necessità di avere a disposizione una quantità superiore di dati che potessero confermare la presenza di un trend al ribasso delle pressioni inflazionistiche che fosse, prima di tutto, sostenibile.
L’indice CPI Usa appena pubblicato è stato così commentato da Ben Laidler, Global markets strategist di eToro:
“Il dato riferito al mese di gennaio, che ha visto un aumento dell’inflazione Usa del 3,1% (al di sopra delle stime)”, ha fatto praticamente “vacillare il consenso favorevole di una ‘disinflazione immacolata’ guidata dalla produttività”, riaccendendo “i fari sul tema inflazione”.
“Con il mercato del lavoro statunitense sorprendentemente sano e una crescita economica forte – ha detto lo strategist – il rischio di un ritorno dell’inflazione, infatti, non solo è sottovalutato, ma è in aumento. Diversi fattori contribuiscono a questa prospettiva, tra cui l’andamento dei rendimenti obbligazionari decennali, il rinvio dei tagli ai tassi da parte della Fed e la notevole performance del dollaro statunitense, che quest’anno si sta distinguendo come la migliore tra le valute”.
In questo contesto, lo strategist di eToro ha sottolineato che, “nel breve termine, gli investitori potrebbero cogliere l’occasione per prendere profitti“.
D’altronde, ha fatto notare, “S&P 500, Nasdaq 100 e Dow Jones hanno registrato un rialzo per le ultime 14 settimane su 15 e il report odierno (ieri, per chi legge) potrebbe dare una buona scusa ai mercati per ritirarsi leggermente e smaltire parte degli eccessi che abbiamo visto di recente”.
“Potrebbe anche agire da catalizzatore e stimolare un aumento della volatilità, con l’indice VIX che si è mantenuto vicino al limite inferiore del suo intervallo di negoziazione prima di un recente aumento avvenuto nei giorni scorsi”, ha aggiunto l’esperto.
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Cosa succede e succederà a Wall Street?
La domanda che molti investitori si staranno ponendo è tuttavia la seguente: fino a che punto la disillusione dei mercati frenerà il rally di Wall Street?
In realtà, a parte la parentesi di forti sell che si sono abbattuti ieri sulla borsa Usa, molti strategist rimangono ottimisti. Come Terry Sandven, responsabile strategist dell’azionario di US Bank Wealth Management, secondo il quale il rally non si è affatto concluso.
Piuttosto, la ritirata di ieri a suo avviso “ha permesso alle valutazioni di mettersi un po’ più in linea con i fondamentali”.
Proprio questo “reset – ha aggiunto Sandven – dà agli investitori che mirano ad azioni con valutazioni ragionevoli l’opportunità, forse, di posizionarsi sul mercato”.
Non solo: fattore “importante – ha continuato lo strategist – è che con l’inflazione, i tassi di interesse e gli utili continueranno a sostenere i corsi azionari più elevati”. Di conseguenza, “noi non crediamo che questo sia l’inizio della fine”.
Dal canto suo Mark Haefele, Chief Investment Officer, UBS Global Wealth Management, nella nota “Azioni e obbligazioni in calo a causa della delusione dell’inflazione statunitense”, ha ribadito che i dati “caldi” sull’inflazione non hanno modificato “lo scenario di base di UBS che prevede un atterraggio morbido con crescita più lenta, inflazione in calo e tagli dei tassi della Fed di 100 punti base probabilmente a partire dal secondo trimestre di quest’anno”.
Occhio anche al commento di Gero Jung, Chief Economist di Mirabaud Asset Management, che lancia un attenti alle colombe dopo il dato sull’inflazione:
“Gli ultimi dati sull’inflazione statunitense sono in linea con la nostra previsione di un primo taglio dei tassi da parte della Federal Reserve a giugno, non prima. Se si considerano i dati dell’Indice dei prezzi a consumo (IPC) del mese scorso, i numeri sono sostanzialmente in linea con le aspettative di molti analisti, ma mostrano comunque un’inflazione in crescita e non in calo. Ad esempio, l’indice IPC core (al netto di generi alimentari ed energia) è salito allo 0,4% rispetto al mese precedente, con un aumento di 0,1 punti percentuali e un tasso annuale appena inferiore al 4% (3,9% a/a), ben al di sopra dell’obiettivo che la Fed si è posta per l’inflazione”.
“Nel dettaglio – ha continuato Jung – i prezzi dei beni core sono scesi, mentre – dato meno incoraggiante – i prezzi dei servizi core sono aumentati. Da notare che la solida categoria degli ‘affitti figurativi’ è stata trainata dalla forza degli affitti unifamiliari, ma anche la categoria dei prezzi degli ‘alberghi’ e dei ‘biglietti aerei’ ha registrato un’accelerazione. Tuttavia, non ci focalizzeremo troppo sull’impatto di queste ultime due categorie, poiché si tratta di segmenti volatili”.
“Continuiamo a sostenere che la Fed procederà con i primi tagli a giugno, e riteniamo che l’inflazione, pur dovendo far fronte a un percorso accidentato, sia destinata a scendere nel corso dell’anno. Ad esempio, l’ultima indagine della Fed di New York ha evidenziato come le aspettative mediane sull’inflazione siano scese. In effetti, l’inflazione attesa a tre anni si attesta ora al 2,4%, il valore più basso dall’inizio della raccolta dei dati”, ha concluso il responsabile economista di Mirabaud Asset Management.