Petrolio attende risposta Israele: tra gli scenari Brent a 150$/b

Fonte immagine: iStock
Il petrolio si avvia a chiudere la migliore settimana da oltre un anno, sostenuto dall’escalation di tensioni fra Israele e Iran e dalla minaccia di un’estensione delle ostilità in Medio Oriente. Il pericolo immediato è una perdita di forniture da Teheran, ma non si esclude uno scenario più estremo con l’interruzione dei flussi petroliferi attraverso lo stretto di Hormuz. In ogni caso, un allargamento del conflitto rischia di pesare sulla produzione di greggio e di spingere ulteriormente al rialzo le quotazioni. Ecco cosa sta succedendo e i possibili sviluppi secondi gli analisti.
Petrolio sale in attesa della risposta di Israele contro l’Iran
Il Brent viaggia a più di 78 dollari al barile, mentre il Wti ha superato i 74 dollari, dopo aver registrato ieri i maggiori rialzi giornalieri da quasi un anno (+5%). Le quotazioni del petrolio hanno guadagnato circa l’8% dall’attacco missilistico dell’Iran contro Israele, ma gran parte del movimento è avvenuta proprio ieri.
A spingere i prezzi sono state soprattutto le dichiarazioni del presidente americano Joe Biden sul possibile sostegno a un eventuale contrattacco israeliano contro le infrastrutture energetiche iraniane. In seguito, un funzionario statunitense ha affermato che la Casa Bianca sta ancora trattando con Israele e nessuna decisione è stata presa.
Fatto sta che le tensioni nel Medio Oriente, inaspritesi nell’ultimo anno, rappresentano un rischio al rialzo per il petrolio, poiché la regione rifornisce circa un terzo del greggio globale e l’Iran è il terzo produttore Opec con una media di 3,3 milioni di barili di greggio al giorno pompati negli ultimi mesi.
Nel frattempo, il cartello e i suoi alleati si apprestano a ripristinare parte dell’output, la Libia ha risolto lo stallo politico che ultimamente aveva frenato le forniture e non è chiaro se gli stimoli del governo cinese siano sufficiente ad alimentare la domanda del maggior importatore globale di petrolio.
Le possibili conseguenze di un attacco al petrolio iraniano
L’entità della risposta di Israele sarà determinante per la direzione futura dei prezzi. Una ritorsione contro le infrastrutture energetiche dell’Iran potrebbe portare a una perdita di forniture dal Paese islamico, ma rischia di sfociare in scenari più estremi.
Secondo Citigroup, un attacco alla capacità di esportazione di Teheran potrebbe togliere dal mercato 1,5 milioni di barili al giorno, o un quantitativo fra 300 e 450 mila nel caso vengano colpite solo infrastrutture minori.
Per ING, eventuali attacchi contro le attività upstream e midstream (che riguardano l’estrazione e il trasporto del greggio) porterebbero una perdita di forniture fino a 1,7 milioni di barili al giorno. Dinamica sufficiente a portare il mercato in deficit nel quarto trimestre di quest’anno e nel 2025, pur considerando il graduale smantellamento dei tagli all’offerta di 2,2 milioni di barili al giorno da parte dell’Opec+, a partire da dicembre. In questo scenario, ING prevede per il Brent un prezzo medio poco sopra i 90 dollari al barile.
Un attacco agli asset downstream (quelli legati alla raffinazione e alla commercializzazione dei prodotti petroliferi) potrebbe potenzialmente aumentare le esportazioni di greggio, anche se l’Iran faticherebbe a trovare acquirenti a causa delle sanzioni statunitensi, con un impatto finale ancora rialzista sui prezzi del petrolio.
Sotto osservazione le forniture nello Stretto di Hormuz
Ben diverso lo scenario qualora Teheran prenda di mira infrastrutture energetiche negli stati confinanti con l’Iran o rotte di approvvigionamento come lo stretto di Hormuz. Questo potrebbe provocare un’interruzione dei flussi di petrolio e GNL del Golfo Persico, dove transita circa un terzo del commercio petrolifero mondiale.
In tal caso, la società di ricerca Clearview Energy Partners stima un incremento di prezzo per il greggio fra i 13 e i 28 dollari al barile. Secondo ING, una mossa di tale portata metterebbe a rischio circa 14 milioni di barili al giorno e potrebbe spingere il petrolio verso nuovi record, superando il massimo di 147 $/bbl del 2008.
Inoltre, potrebbe aumentare il crack spread dei prodotti raffinati, con conseguenze importanti per l’Europa, che importa distillati dal Medio Oriente dopo il divieto di rifornirsi dalla Russia. Infine, aumenterebbe il rischio di interruzioni nei flussi di GNL dal Qatar, che costituisce oltre il 20% del commercio globale di GNL.
La possibile risposta dell’Opec+
Un’eventuale interruzione dei flussi, secondo ING, indurrebbe i governi di tutto il mondo ad attingere alle riserve strategiche. Questo soprattutto negli Stati Uniti, che non possono permettersi un aumento dei prezzi in vista delle elezioni e dispongono di riserve residue per oltre 380 milioni di barili, nonostante la riduzione strategica effettuata nel 2022.
Ci sarebbe poi da valutare la risposta dell’Opec. Per ING, il cartello proseguirebbe con il piano di riduzione dei tagli volontari, ma probabilmente non risponderebbe rapidamente allo shock con un ulteriore aumento delle forniture. L’Arabia Saudita ha un prezzo di breakeven oltre i 90$/bbl e gradirebbe un ritorno a questi livelli. Probabilmente, secondo gli analisti, il gruppo inizierebbe ad aumentare l’offerta solo qualora i prezzi raggiungano i 100$/bbl.
Infine, la maggior parte della capacità produttiva inutilizzata dell’Opec si trova nel Golfo Persico, per cui un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz, o una significativa interruzione dei flussi, limiterebbe la possibilità di sfruttare tale capacità.