Mercati e le tensioni in Medio Oriente: verso quali settori si spostano gli investitori?

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L’attacco di Israele all’Iran di venerdì ha aperto un nuovo capitolo nel conflitto in Medio Oriente, con effetti non ancora pienamente visibili sui mercati. Nell’ultima seduta le Borse europee e Wall Street hanno chiuso tutte in negativo, mentre il prezzo di petrolio e oro sono schizzati. Nella giornata di oggi gli investitori stanno timidamente tornando a comprare, ma la scure di nuovi attacchi, oltre alle tensioni commerciali con i dazi trumpiani, aleggia ancora.
Gamma Capital Markets ha analizzato il nuovo scenario, focalizzandosi su come potrebbero muoversi i mercati e le materie prime.
Come reagiscono mercati ed investitori alla guerra
In queste ultimi giorni l’atteggiamento degli investitori è cambiato: meno entusiasmo verso la tecnologia e maggiore attenzione a settori considerati più resilienti o favoriti in uno scenario di crescenti tensioni geopolitiche. “Le MAG7 sono tornate sotto pressione, mentre si vedono rotazioni verso difesa, metalli industriali, materie prime, e in alcuni casi energy mid-cap”.
Questo non è solo un movimento di avversione al rischio e una fuga verso settori considerati più sicuri, ma anche un riposizionamento anticipato degli investitori, che si preparano a un contesto dominato sempre di più da fattori geopolitici (tensioni internazionali, guerre, rivalità tra blocchi economici). In questo contesto, alcuni settori (come difesa e materie prime) diventano strategici.
Petrolio in aumento, per JP Morgan può arrivare a 130 dollari al barile
Venerdì Israele ha attaccato diversi siti petroliferi quali il giacimento South Pars (il più grande al mondo di gas naturale, condiviso con il
Qatar), il campo petrolifero Shahran e raffinerie e depositi a Teheran. Secondo fonti ufficiali, circa 12 milioni di metri cubi di gas al giorno sono già stati
interrotti e la produzione nei principali impianti iraniani è stata parzialmente sospesa. Per avere un’idea della portata, l’Iran è responsabile di circa 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno, ovvero il 3,5% dell’intera offerta globale. “Detto in parole semplici: se togliamo improvvisamente una fetta così grande dal mercato, il mondo se ne accorge — e in fretta. È come se un grosso rubinetto si chiudesse mentre tutti stanno ancora facendo la doccia”, spiega Alessio Garzone, Portfolio manager di Gamma Capital Markets.
Secondo JP Morgan, se l’interruzione dell’offerta superasse i 2 milioni di barili al giorno, il prezzo del petrolio potrebbe schizzare fino a 120–130 dollari al barile. In soli due giorni, la banca ha più che raddoppiato la probabilità che questo scenario si realizzi: dal 7% al 17%. Al momento, il Wti guadagna lo 0,70% a 73,49 dollari al barile, mentre il Brent è scambiato a 74,61 dollari al barile, +0,51%.
Cosa può succedere in futuro dipende dal proseguo della guerra, ma soprattutto dallo stretto di Hormuz, fondamentale per il passaggio dell’oro nero. “Il rischio di un salto parabolico non è ancora scontato nei prezzi. Se lo Stretto di Hormuz – da cui passa quasi il 20% dell’offerta globale – venisse bloccato anche solo per 5 giorni, l’effetto sarebbe devastante: interruzioni logistiche, rincaro immediato dei costi industriali e un’inflazione da shock esogeno”.
E la Fed continua a non tagliare i tassi
Con il petrolio in rialzo e la volatilità in ripresa, ogni taglio dei tassi diventa più difficile da giustificare. Nonostante le pressioni di Donald Trump alla Fed, la banca centrale degli Stati Uniti non sembra intenzionata a ridurre i tassi di interesse ma tenerli ancora invariati. Secondo le ultime infiltrazioni, mercoledì prossimo la Fed lascerà i tassi invariati e lo farà ancora per qualche mese, probabilmente fino a settembre, anche se manterrà la scommessa di due tagli entro la fine dell’anno.
Con questo clima di incertezza, l’S&P 500 resta sotto pressione: l’indice è in rialzo di quasi il 3% da inizio anno, ma ha registrato un rialzo di oltre il 21% dal minimo annuale toccato l’8 aprile ed è solo dell’1,6% al di sotto del massimo storico raggiunto a febbraio. “Ancora in laterale, ma sempre più fragile – spiega Garzone – la narrazione di un soft landing con disinflazione perde forza ogni giorno”, suggerendo che l’economia potrebbe affrontare un ritorno di pressioni inflazionistiche oppure un rallentamento più brusco e turbolento.