L’Opec+ scatena la guerra dei prezzi. Il petrolio inchioda sotto 60 dollari

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La settimana sui mercati si apre con una nuova brusca frenata del petrolio. I prezzi dell’oro nero stanno registrando una forte correzione dopo che l’Opec+ ha concordato il rialzo della produzione per il secondo mese consecutivo: il West Texas Intermediate (Wti) viaggia in area 56,08 dollari al barile, mentre il Brent si muove in calo del 3% sotto la soglia dei 60 dollari. Si apre una fase di forte incertezza con un sicuro surplus nel 2025 e una pericolosa guerra dei prezzi. Gli analisti tagliano le previsioni.
La decisione dell’Opec+
Gli otto produttori del cartello guidato dall’Arabia Saudita hanno deciso sabato di aumentare a giugno la produzione di altri 411.000 barili al giorno, a un mese dal rialzo di pari entità annunciato a sorpresa a partire da maggio. Una notizia che si inserisce in un contesto di prezzi già deboli.
Ad aprile i prezzi del petrolio hanno registrato la maggiore perdita mensile dal 2021 in scia ai dazi imposti dal presidente americano Donald Trump che hanno sollevato i timori di una recessione che rallenterà la domanda. La mossa dell’Opec+, che sta rapidamente aumentando l’offerta, potrebbe essere dunque la goccia che fa traboccare il vaso di un equilibrio delicato tra domanda e offerta. Le società di servizi per i giacimenti di greggio prevedono inoltre un calo degli investimenti in esplorazione e produzione a causa del debole contesto dei prezzi.
“Le prospettive di un mercato petrolifero in eccesso di offerta, i dazi, l’incertezza in Messico e la debolezza dell’attività in Arabia Saudita stanno collettivamente limitando i livelli di spesa internazionali per l’upstream”, ha notato ad esempio il ceo di Baker Hughes, Lorenzo Simonelli, nella conference call sui risultati del primo trimestre della compagnia tenuta lo scorso 25 aprile. Goldman prevede che i prezzi di Wti e Brent raggiungeranno nel corso dell’anno una media, rispettivamente, di 59 e 63 dollari al barile.
Il cambio di strategia
Inizialmente, l’Opec+ avrebbe dovuto ripristinare 2,2 milioni di barili al giorno di offerta in un periodo di 18 mesi, fino a settembre 2026. Tuttavia, in tre mesi, il gruppo ha deciso di ripristinare quasi 1 milione di barili al giorno di offerta. Secondo alcune fonti, spiega l’analisi di Ing, i sauditi hanno minacciato aumenti dell’offerta altrettanto consistenti nei prossimi mesi se i membri non rispetteranno i loro obiettivi. Ciò potrebbe significare che l’intera fornitura di 2,2 milioni di barili al giorno verrà reimmessa sul mercato entro l’inizio del quarto trimestre di quest’anno, con 12 mesi di anticipo rispetto al previsto. La chiave per sapere fino a che punto i sauditi si spingeranno in quella che inizia a sembrare una guerra dei prezzi è la tolleranza del Paese ai bassi prezzi del petrolio nel tempo. I sauditi hanno bisogno di circa 90 dollari al barile per pareggiare il loro bilancio, un livello ben al di sopra dei prezzi attuali. L’Arabia Saudita sarà in grado di abbassare il suo livello di pareggio fiscale pompando più petrolio. “Ovviamente, spiega Ing, questo dipende anche da quanto saranno bassi i prezzi in un contesto di aumento dell’offerta. Il divario crescente tra il loro livello di pareggio fiscale e gli attuali prezzi del petrolio significa che i sauditi dovranno tagliare la spesa e/o attingere al mercato del debito”.
Le previsioni sui prezzi e gli impatti
I prezzi del petrolio hanno reagito negativamente al recente aumento dell’offerta, con il Brent scambiato al di sotto dei 60 dollari USA/barile. Questo nonostante il mercato si aspettasse già un forte aumento dell’offerta. La principale incertezza riguardava l’entità di tale aumento. Aumenti più aggressivi dell’offerta abbassano il limite minimo per il mercato. Di conseguenza, Ing ha rivisto al ribasso le previsioni sull’ICE Brent per il resto dell’anno da 68 dollari USA/barile a 62 dollari USA/barile (2° trimestre 2025-4° trimestre 2025). Questo porta la previsione media per il 2025 a 65 dollari al barile, in calo rispetto ai precedenti 70 dollari al barile. La situazione cambierà se l’OPEC+ invertirà nuovamente la sua politica o se il calo dei prezzi del petrolio incoraggerà il presidente Trump ad adottare un approccio più aggressivo nei confronti di diversi paesi produttori di petrolio sanzionati.
La debolezza dei prezzi del petrolio provocherà una contrazione dell’attività di perforazione negli Stati Uniti. Secondo il Dallas Federal Reserve Energy Survey, i produttori di petrolio necessitano, in media, di 65 dollari al barile per perforare un nuovo pozzo in modo redditizio. Con il West Texas Intermediate (WTI) che si attesta intorno ai 55 dollari, gli incentivi a perforare sono scarsi. Inizialmente, le coperture dei produttori potrebbero proteggere alcuni produttori di petrolio. Tuttavia, una crescita dell’offerta di greggio statunitense nel 2025 e nel 2026 appare meno probabile. Il numero di impianti di perforazione petrolifera negli Stati Uniti è di 479, in calo rispetto al picco di 489 registrato all’inizio di aprile. Anche il completamento dei pozzi sembra essere in calo, come si riflette in un minor numero di frac spread. Inoltre, se l’attività di perforazione dovesse reggere, non è garantito che si traduca in produzione. I produttori potrebbero ritardare il completamento di questi pozzi nell’attuale contesto di bassi prezzi. Ciò causerebbe un aumento delle scorte di pozzi perforati, ma non completati (DUC).
Un rallentamento dell’industria petrolifera statunitense ha ripercussioni anche sull’approvvigionamento di gas naturale statunitense, dato che gran parte di questo approvvigionamento è legato alla produzione. Questo potrebbe rappresentare un problema, soprattutto considerando la maggiore domanda di gas che vedremo con l’aumento della capacità di esportazione di GNL negli Stati Uniti.