Fed e tassi: Powell un anno dopo. L’alert crash
La Fed di Jerome Powell è pronta ad alzare i tassi di interesse Usa in modo meno aggressivo rispetto a quanto fatto finora.
Parola dello stesso Powell, che ieri ha parlato in occasione di un evento tenuto al Brookings Institute.
“Ha senso moderare il ritmo dei rialzi dei tassi di interesse”, ha detto Powell, proferendo la frase magica che i mercati di tutto il mondo si aspettavano di sentire: l’intensità delle strette monetarie della Federal Reserve, ha ammesso il timoniere della banca centrale americana, “potrebbe essere moderata già nella prossima riunione del Fomc (il braccio di politica monetaria della Federal Reserve)”, in calendario i prossimi 13 e 14 dicembre.
Powell ha così avallato le speculazioni dei mercati, che scommettevano e ora scommettono con più forza su una stretta monetaria inferiore, a dicembre, pari a 50 punti base, rispetto ai quattro consecutivi maxi rialzi dei tassi di 75 punti base, che hanno portato il costo del denaro degli States al record dal 2008, ovvero al range compreso tra il 3,75% e il 4%.
Attenzione, però: il fatto che l’entità delle strette rallenti non esclude la determinazione di Powell di puntare a un tasso terminale più elevato rispetto a quanto lui stesso aveva previsto in precedenza.
Il banchiere centrale ha confermato la sua view, secondo cui i tassi sui fed funds saliranno probabilmente fino al 5% se non oltre, al fine di sconfiggere la piaga dell’inflazione.
Powell ha anche ripetuto che una recessione potrebbe essere necessaria per far scendere i prezzi, e che un “soft landing” è ancora possibile.
L’interrogativo tuttavia attiene proprio a questo outlook. Ci sarà davvero un soft landing, ovvero un atterraggio morbido dell’economia?
O il risultato sarà quanto alcuni economisti temono, ovvero un’economia in ginocchio, se non un crash?
Fed, Powell sta esagerando? L’appello di Elon Musk
Ieri c’è stato qualcuno che ha lanciato un alert alla Fed, poco prima che Jerome Powell prendesse la parola. Non si tratta di un economista, né di uno strategist, ma di Elon Musk, nuovo numero uno di Twitter, oltre che ceo di Tesla e di Space X.
Musk ha agitato lo spettro di una recessione grave, altro che soft landing, lanciando alla Fed anche un appello un po’ strambo: quello di tagliare i tassi.
Forse una mossa un po’ esagerata, visto che, sebbene l’inflazione Usa abbia rallentato il passo, la Federal Reserve deve ancora avere la prova che l’indebolimento della crescita dei prezzi sia sostenibile.
Per non parlare del fatto che, a un tasso di crescita pari al 7,7% su base annua (riferimento all’inflazione Usa misurata dall’indice dei prezzi al consumo), il CPI rimane ben superiore al target del 2% sull’inflazione dell’istituzione.
Detto questo, se l’ipotesi dei tagli ai tassi viene considerata improponibile, almeno in questo momento, qualche voce contro le strette monetarie della Fed si sta alzando.
Tra queste, quella di Peter Schiff, Chief Economist & Global Strategist di Europa.com e fondatore di SchiffGold.com, che su Twitter non ha risparmiato critiche alla banca centrale americana, facendo riferimento alla debolezza di alcuni dati macro che sono stati diffusi nella sessione di ieri: non alla revisione al rialzo del Pil del terzo trimestre, e neanche al report ADP – (quest’ultimo comunque avalla una Fed meno hawkish) – ma all’indice Chicago PMI.
Il dato, ha fatto notare l’economista, nel mese di novembre è “collassato a 37,2 punti, 10 punti al di sotto delle stime del consensus”, in evidente fase di contrazione, in quanto al di sotto (di molto) della soglia di 50 punti, linea di demarcazione tra fase di contrazione e di espansione.
Schiff ha menzionato anche il deficit commerciale, che è salito a $99 miliardi, il 10% in più delle attese.
“#Powell parla ancora di un soft landing. E’ un crash“, ha scritto su Twitter l’economista.
A suo avviso gli indicatori diffusi ieri suggeriscono che il “Pil Usa del quarto trimestre sarà negativo in modo significativo”.
Fed e Tassi, Schiff: investitori non credono più in Powell
Peter Schiff ha messo poi in evidenza lo scostamento tra le stime dei mercati e quelle della Fed. “Gli investitori non credono più in Powell.
Oggi (lui) è stato hawkish a livelli record, ma il dollaro è capitolato e l’oro e le azioni hanno segnato un rally. La determinazione di Powell a combattere l’inflazione si basa sul soft landing. Ma non solo l’economia farà crah: ci sarà anche una crisi finanziaria”.
https://twitter.com/PeterSchiff/status/1598054893407064064
Ieri, nel suo intervento al Brookings Institute, Powell ha parlato di “progressi significativi” che la Fed ha compiuto “nel rendere la politica (monetaria) sufficientemente restrittiva”, aggiungendo che “c’è ancora del lavoro da fare” e che “è probabile che ci sia il bisogno di mantenere la politica restrittiva per ancora un po’ di tempo”, al fine di combattere l’inflazione.
D’altronde, “la storia lancia un forte avvertimento sul rischio di allentare la politica monetaria in modo prematuro”, ha spiegato Powell, facendo notare che “abbiamo un lungo lavoro da fare per ripristinare la stabilità dei prezzi”.
“Ci vorranno molte altre prove perchè si possa essere tranquilli sul fatto che l’inflazione stia davvero scendendo – ha detto il timoniere della Fed – In base a ogni standard, l’inflazione rimane troppo alta”.
Dunque, proprio dovish Powell non lo è stato, come ha fatto notare anche Derek Tang, economista di LH Mayer di Washington contattata dall’agenzia Bloomberg, nel dire che “Powell ha cercato di trovare un equilibrio tra la necessità di segnalare una possibile svolta e quella di non incoraggiare troppo l’appetito sul rischio.
Il suo obiettivo principale è stato quello di rimarcare che non ci saranno tagli nel 2023″.
eToro commenta reazioni mercati a discorso Powell
Così Gabriel Debach, market analyst di eToro: “Crescono i mercati finanziari sulla scia delle parole più dovish da parte di Jerome Powell. Strano il destino, lo stesso giorno di un anno fa, era il 30 novembre 2021, lo stesso presidente della Fed portò al ribasso i mercati ritirando la parola transitoria come aggettivo sulle pressioni inflazionistiche e sostenendo come fosse opportuno valutare un ritmo maggiore sulla restrittiva politica monetaria. Decisione che, con il senno di poi, sappiamo essere stata corretta, ma forse un po’ ritardata. Il discorso di ieri da parte del presidente della Fed, al Brookings Institute, è stato accolto positivamente dai mercati, soprattutto sul tecnologico Nasdaq, poiché ha indicato che un ritmo più lento dei rialzi dei tassi potrebbe arrivare già nella riunione di dicembre. Ha inoltre indicato come ci siano segnali di speranza che l’inflazione possa diminuire, anche se la strada da percorrere per ripristinare la stabilità dei prezzi è ancora lunga”.
Debach ha spiegato che, “sebbene i mercati avessero già anticipato tale possibile percorso della Fed, le probabilità per un aumento di 50 pb nella prossima riunione di dicembre sono cresciute, passando dal 66,3% di lunedì all’attuale 79,4%. Al ribasso anche il tasso atteso a febbraio, che passa da un 5% ad un previsto 4,75%, così come il tasso terminale, che scende dal 5,25% ad un attuale 5%. Nel frattempo, i rendimenti dei Treasury sono scesi. Il rendimento a 10 anni è ora sotto il 3,70%, mentre il rendimento a 2 anni è al 4,38%. Anche il dollaro statunitense ha continuato a deprezzarsi, scendendo di quasi l’1%”.
“La combinazione di rendimenti più bassi e di un dollaro più debole – ha spiegato l’analista di eToro – ha probabilmente favorito il sentiment del mercato in generale, soprattutto del più sensibile settore tecnologico. Il rimbalzo del petrolio WTI, tornato sopra gli 80 dollari, ha sostenuto i titoli energetici, sulla scia delle speculazioni su ulteriori tagli alla produzione dell’OPEC+”.
“In Europa – ha concluso Gabriel Debach – invece è l’inflazione a tenere banco, con i prezzi dell’Eurozona che a novembre registrano il primo rallentamento dopo 17 mesi di rialzi. Lettura dell’inflazione su base annua che registra diminuzioni nella maggior parte dei paesi, 14 per la precisione, aumenti su tre (Slovenia, Slovacchia e Finlandia) mentre Francia ed Italia riportano valori stabili. Prematuro, tuttavia, brindare a tali dati. Si resta ancora alle spalle del percorso americano, ma la lettura di ieri accompagnata da una Fed meno falco ridurranno le pressioni sulle scelte