Notizie Notizie Mondo Altro che esodo: a un anno da guerra Ucraina, big company rimangono in Russia

Altro che esodo: a un anno da guerra Ucraina, big company rimangono in Russia

31 Gennaio 2023 11:54

A quasi un anno dalla guerra esplosa in Ucraina a causa dell’invasione lanciata dalla Russia di Vladimir Putin, e delle conseguenti promesse di diverse aziende di lasciare Mosca, la maggior parte delle grandi aziende è ancora lì.

Dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio del 2022, furono molte le aziende delle principali economie del G7 e dell’Unione Europea che annuciarono l’intenzione di cessare le operazioni commerciali in Russia. Molte di quelle promesse sono rimaste sulla carta, stando almeno a uno studio stilato dall’Università di Sr. Gallen, in Svizzera, e riportato dal sito americano CNBC

Russia invade Ucraina: grandi aziende rimangono

Il rapporto pubblicato all’inizio del mese ha documentato un totale di 2.405 filiali di proprietà di 1.404 aziende dell’UE e del G7  attive in Russia al momento della prima incursione militare in Ucraina.

Entro il mese di novembre 2022, meno del 9% di questo gruppo di aziende aveva dismesso almeno una filiale in Russia, e il team di ricerca ha notato che questi tassi di dismissione sono  a mala pena cambiati appena nel quarto trimestre del 2022.

Le uscite confermate da parte delle imprese dell’UE e del G7 che detenevano partecipazioni azionarie in Russia rappresentano il 6,5% dell’utile totale al lordo delle imposte di tutte le imprese dell’UE e del G7 con operazioni commerciali attive in Russia, l’8,6% delle immobilizzazioni materiali, l’8,6% del totale degli asset, il 10,4% dei ricavi operativi e il 15,3% del totale dei dipendenti”, scrivono i professori Simon Evenett e Niccolo Pisani.

Questi risultati significano che, in media, le imprese che escono dalla Russia tendono ad avere una redditività inferiore e una forza lavoro più imponente rispetto alle imprese che rimangono in Russia”.

Evenett e Pisani hanno confermato l’uscita dalla Russia di un numero maggiore di aziende statunitensi rispetto a quelle con sede nell’UE e in Giappone.

Dal rapporto è emerso anche che meno del 18% delle filiali statunitensi attive in Russia è stato completamente dismesso entro la fine del 2022, rispetto al 15% delle aziende giapponesi e ad appena l’8,3% delle aziende dell’UE.

Tra le aziende dell’UE e del G-7 rimaste in Russia, la ricerca ha rilevato che il 19,5% era costituito da aziende tedesche, il 12,4% da aziende americane e il 7% da multinazionali giapponesi. Evenett e Pisani non hanno avuto remore a scrivere che:

“Questi risultati mettono in discussione la volontà delle imprese occidentali di sganciarsi dalle economie che i loro governi considerano ora come rivali geopolitici”.

Anche Barclays in una nota di venerdì 20 gennaio ha fatto notare che, sebbene la maggior parte delle società da essa seguite si sia impegnata a uscire dalla Russia, in parte in risposta alle pressioni ESG degli azionisti e alla minaccia di sanzioni, poche sono riuscite a farlo.

Diverse società hanno dichiarato a Barclays che le sfide da affrontare per un completo disinvestimento sono molteplici.

Oltre alla mancanza di chiarezza sul valore degli asset, l’elenco dei potenziali acquirenti è breve e quello dei potenziali acquirenti esenti da sanzioni è ancora più breve”, hanno spiegato gli analisti di Barclays, sulla base delle motivazioni addotte dalle aziende. “Si è ipotizzato come motio anche il timore che i beni (compresa la proprietà intellettuale) delle aziende che lasciano la Russia finiscano con l’essere nazionalizzati”.

Barclays ha suggerito che, senza una fine del conflitto in vista, il divario tra impegni e risultati dovrà essere risolto e costringerà le aziende a prendere decisioni difficili.

Se l’uscita dalla Russia a una valutazione che si avvicini a un valore equo è molto difficile (se non del tutto impossibile), la scelta che si pone alle aziende è se uscire a una valutazione non equa (o addirittura per niente), o rimanere in Russia.

Inoltre gli analisti del colosso bancario britannico hanno  aggiunto che le aziende che hanno sospeso la pubblicità e ridotto l’assortimento di prodotti, ma che intendono comunque rimanere in Russia, saranno sempre più messe alla prova.

Barclays ha fatto i nomi delle aziende che operano nel settore dei consumi staples dell’Europa con la maggiore esposizione verso la Russia di Putin: Coca Cola HBC AG (CCH), Henkel (Henke), Philip Morris International (PMI), JDE Peets NV e Carlsberg A/S.

Tra queste Henkel, che ha ripetutamente dichiarato la sua intenzione di uscire dalla Russia, è stata trasparente con la comunità degli investitori sul probabile impatto, dal momento che circa il 5% delle vendite e il 10% dell’EBIT (utili prima degli interessi e delle imposte) derivano dal paese di Putin.

Sebbene sia difficile ottenere dati sull’EBIT a livello di Paese, riteniamo che, dato che la maggior parte delle aziende ha smesso di fare pubblicità in Russia, al momento il Paese sia sproporzionatamente redditizio”, ha dichiarato Barclays.

Nel complesso, delle 29 Big Company coperte da Barclays che operano nel settore dei beni di consumo 15 circa si sono impegnate a uscire dalla Russia.

Ma il colosso UK è a conoscenza solo di sei che lo hanno effettivamente fatto.

Il tema Russia è particolarmente dibattuto.

Nel caso dell’Italia, si è parlato spesso in tal senso della permanenza in Russia di UniCredit, la banca guidata dal ceo Andrea Orcel che ha pubblicato proprio oggi i conti relativi al quarto trimestre del 2022 e all’intero anno 202.

Tra le tanti questioni affrontate, ovviamente anche il fattore Russia, su cui Orcel è stato piuttosto chiaro, ribadendo l’intenzione di non fare regali a nessuno. Tanto meno alla Russia di Vladimir Putin.