Notizie Notizie Mondo Nouriel Roubini: fine della luna di miele tra Trump e i mercati. Dollaro e tassi destinati a salire sempre di più

Nouriel Roubini: fine della luna di miele tra Trump e i mercati. Dollaro e tassi destinati a salire sempre di più

7 Febbraio 2018 13:52

\Tra Trump e i mercati, la luna di miele sta per finire. Lo scrive nero su bianco Nouriel Roubini, in un articolo pubblicato su Project Syndicate, in cui il noto economista professore alla New York University ripercorre le vicende che hanno fatto la storia dei mercati, da quando Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti.

Oltre alla Trumpeconomics, di cui Roubini mette in evidenza soprattutto i punti deboli, nell’articolo si fa riferimento alla situazione corrente degli asset finanziari, alle prese con il ritorno dello “spettro dell’inflazione”.

Non manca l’avvertimento sul rischio crescente che si verifichino guerre commerciali, sulla scia della politicadell’amministrazione Usa, improntata al protezionismo. Per non parlare delle scelte di politica estera del presidente, e dei suoi messaggi, che innervosiscono spesso il mondo intero.

Diversi sono i punti cruciali dell’attuale scacchiera finanziaria ma anche geopolitica che Roubini illustra.

Innanzitutto, viene ricordato che, “quando Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti, i mercati azionari hanno segnato rally impressionanti. Inizialmente, gli investitori si sono mostrati euforici per le promesse di Trump di stimoli fiscali, deregulation del settore energetico, sanità, servizi finanziari, e di tagli consistenti alle tasse imposte alle aziende, alle famiglie, alle proprietà, ai guadagni in conto capitale”.

Guardando a come hanno reagito i mercati a tali promesse, Roubini afferma: “non meraviglia il fatto che la Corporate America e gli investitori siano contenti”  (dopo la riforma fiscale di Trump).

D’altronde, spiega, “l’adozione tradizionale da parte dei Repubblicani di misure economiche che provengono dal fronte dell’offerta e che hanno un effetto a cascata favorirà in gran parte i più ricchi e le aziende, ma non farà quasi niente per creare posti di lavoro e alzare il reddito degli operai. Tanto che, stando al panel nonpartisan Tax Policy Center – ricorda il professore – quasi la metà dei benefici che arriveranno con i tagli alle tasse proposti da Trump, andrà a favore dell’1% dei più ricchi“.

E, “tuttavia, proprio gli spiriti animali del settore corporate potrebbero ben presto lasciare il posto alle paure ancestrali” (dei mercati). Il “rally del mercato si sta già smorzando, e la luna di miele di Trump con gli investitori potrebbe star già arrivando alla sua fine”.

Per Roubini le ragioni sono diverse:

“Per iniziare, l’anticipazione di stimoli fiscali avrà potuto anche sostenere i corsi azionari, ma si è anche tradotta in tassi di interesse di lungo termine più elevati, fattore che di per sé provoca danni alle spese in conto capitale e ai settori sensibili ai tassi, come quello del mercato immobiliare. Allo stesso tempo, il rafforzamento del dollaro tende a distruggere i posti di lavoro nella fascia dei blue-collar”.

Dunque, il presidente americano potrà avere anche “salvato” 1000 posti di lavoro in Indiana, facendo il bullo e convincendo l’azienda manifatturiera Carrier. Ma, nel corso del tempo, l’apprezzamento del dollaro potrebbe distruggere quasi 400.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero”.

Inoltre, “il pacchetto di stimoli fiscali potrebbe finire con l’essere molto più imponente di quanto i mercati stiano prezzando. Così come dimostrato dagli ex presidenti americani Ronald Reagan e George W. Bush, raramente i repubblicani riescono a resistere alla tentazione di tagliare le tasse sulle aziende, sui redditi e altre tasse, anche quando non trovano nessun altro modo per finanziare la perdita delle entrate e quando non hanno alcuna intenzione di tagliare le spese. Se ciò si verificherà ancora sotto Trump, i deficit fiscali faranno salire ancora di più il dollaro e i tassi di interesse, danneggiando l’economia nel lungo termine”.

L’altro fattore che Roubini mette in evidenza è lo spettro dell’inflazione. “Con l’economia americana già vicina alla piena occupazione, gli stimoli fiscali di Trump stimoleranno l’inflazione più di quanto faccia la crescita. L’inflazione a sua volta costringerà la Fed ad alzare i tassi di interesse più presto e in modo più veloce rispetto a quanto farebbe, e ciò sosterrà ulteriormente i tassi di interesse di lungo termine e il valore del dollaro”.

Terzo fattore, “questo sgradito mix di politica fiscale eccessivamente accomodante e di politica monetaria restrittiva irrigidirà ancora di più le condizioni finanziarie, danneggiando i redditi degli operai  e in generale della working class e le prospettive relative all’occupazione. A quel punto, un governo già improntato al protezionismo di Trump dovrà adottare ulteriori misure protezionistiche al fine di garantirsi il sostegno dei lavoratori blue-collar, ostacolando così ancora di più la crescita economica e zavorrando i profitti societari”.

E se “Trump spingerà troppo sul protezionismo, scatenerà senza alcun dubbio guerre commerciali. I partner commerciali dell’America a quel punto non avranno altra scelta se non rispondere alle restrizioni sulle importazioni Usa, imponendo i loro propri dazi sulle esportazioni americane”. Tale situazione “ostacolerà la crescita dell’economia globale, danneggerà ovunque le economie e i mercati”.

A tal proposito, “vale la pena ricordare che fu  il Smoot-Hawley Tariff Act del 1930” a scatenare quelle guerre commerciali che esacerbarono la Grande depressione”, sottolinea Roubini.

Roubini va avanti, presentando uno scenario in cui “l’interventismo economico dell’amministrazione di Trump andrà al di là del tradizionale protezionismo”.

L’economista ricorda quanto detto dal Premio Nobel Edmund S. Phelps, che ha descritto l’interferenza di Trump nel settore corporate come un fattore che riporta alla mente la Germania nazista e l’Italia fascista. E di fatto, scrive Roubini, se l’ex presidente americano Barack Obama avesse gestito i rapporti con le aziende così come Trump sta facendo, sarebbe stato accusato di essere un comunista. Ma per qualche motivo, quando è Trump a fare qualcosa, la corporate America tende a mettere la coda tra le gambe”.

Il timore del professore della NYU è che, con il passare del tempo, Trump decida di adottare un approccio ancora “più radicale” e che, “nonostante le critiche rivolte in passato alla Fed, che è stata accusata di essere stata troppo dovish, e aver creato una “economia falsa”, il presidente possa essere tentato di nominare nuovi membri nel Fomc che siano più colombe, e meno indipendenti, al fine di erogare più credito al settore privato”.

“Se poi ciò dovesse fallire – continua Roubini – Trump potrebbe decidere di intervenire unilateralmente per indebolire il dollaro e imporre controlli sui capitali, al fine di limitare flussi in entrata che rafforzerebbero il dollaro. I mercati stanno già iniziando a diventare cauti; ed è probabile che il panico totale possa arrivare se il protezionismo, unito a una politica monetaria sconsiderata e politicizzata, finisca per tradursi in guerre di controlli sui capitali e guerre commerciali e valutarie”.

Nel breve termine, l’economista non vede tuttavia nero:

“Le aspettative sugli stimoli, le tasse più basse e la deregulation potrebbero ancora sostenere l’economia e la performance dei mercati, nel breve termine. Ma, così come emerge dai mercati finanziari che stanno vacillando, le politiche incoerenti, imprevedibili e distruttive avranno un costo che peserà, nel lungo termine, sulla crescita economica domestica e globale”.