Inflazione, Deutsche Bank striglia la Fed e paventa scenario anni ’70: così Usa e resto del mondo seduti su una bomba a orologeria
Con la complicità della Federal Reserve, gli Stati Uniti e il resto del mondo sono seduti su una bomba a orologeria: parola del capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau che, in una nota stilata anche da altri analisti della banca tedesca, ha lanciato l’avvertimento:
“Forse ci vorrà un anno in più, fino al 2023, ma l’inflazione riemergerà. E, sebbene sia ammirevole questa pazienza, dovuta al fatto che le priorità della Fed si stanno spostando verso obiettivi di natura sociale, trascurare l’inflazione fa sì che le economie globali siano sedute su una bomba a orologeria”, con “effetti che potrebbero essere devastanti, soprattutto per le fasce più vulnerabili della società”.
La nota punta il dito contro la Federal Reserve e contro la nuova politica monetaria lanciata da Jerome Powell, disposta a tollerare una inflazione più alta, pur di promuovere una ripresa dell’economia piena e inclusiva.
Uno sbaglio, secondo Deutsche Bank, visto che l’intenzione della Fed di non alzare i tassi fino a quando l’inflazione non mostrerà un rialzo sostenuto avrà conseguenze catastrofiche.
“La conseguenza di questo ritardo sarà la presenza di maggiori perturbazioni sull’attività economica e finanziaria rispetto a quanto avverrebbe se la Fed si decidesse finalmente ad agire”.
L’alert di Deutsche Bank conferma la view contrarian del team di ricerca della banca.
La maggior parte degli analisti di Wall Street è d’accordo infatti con la Fed, ritenendo dunque che le attuali pressioni inflazionistiche abbiano una natura transitoria. E’ d’accordo con la Fed per esempio Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, secondo cui esistono “forti ragioni” che avallano la posizione della banca centrale americana.
Tra queste, la probabilità che lo scadere dei benefit percepiti dai disoccupati riporti molti americani a lavorare nei prossimi mesi, fattore che di per sé dovrebbe smorzare le pressioni sui salari.
“Tutto suggerisce che i funzionari della Fed possano continuare a portare il loro piano di uscita (dagli stimoli straordinari) in modo molto graduale”, ha scritto Hatzius.
Ma Deutsche Bank non è d’accordo, soprattutto alla luce di alcuni dati:
il Congresso Usa ha approvato più di $5 trilioni di misure di stimolo, la Fed ha quasi raddoppiato il suo bilancio, attraverso gli acquisti mensili di asset, a un valore poco inferiore agli $8 trilioni. Gli stimoli continuano ad arrivare anche se l’economia americana, in base alle stime, dovrebbe essere cresciuta al ritmo del 10% nel secondo trimestre e il quadro occupazionale mostra una creazione di nuovi posti di lavoro in media di 478.000 unità al mese nel 2021.
Il timore di Deutsche Bank: un’inflazione in Usa stile anni ’70
“Mai in passato abbiamo assistito a una politica espansiva e monetaria così coordinate. E così continuerà, a fronte di un Pil che si muove al di sopra del suo potenziale. E’ per questo che stavolta la situazione è diversa per l’inflazione”, scrivono gli analisti della banca tedesca.
Ovvero?
Il team di Deutsche Bank, come indica un articolo della Cnbc, ritiene che l’inflazione made in Usa potrebbe replicare l’esperienza degli anni Settanta, decennio in cui il tasso si attestò in media a quasi il 7% e in cui diverse volte fu anche di una doppia cifra percentuale. Il balzo dei prezzi dei beni alimentari ed energetici, insieme alla fine del controllo sui prezzi, aiutò a scatenare al rialzo l’inflazione.
L’allora presidente della Federal Reserve Paul Volcker fu costretto a quel punto, al fine di affossare una inflazione fuori controllo, a ricorrere a rialzi significativi e altrettanto drammatici dei tassi che scatenarono una recessione. Uno scenario che, secondo gli analisti di Deutsche Bank, potrebbe ripetersi.
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“Ci sono già diversi casi di aumenti dei prezzi che si stanno riverberando sull’economia americana. Anche se sulla carta sono transitori, (questi aumenti) potrebbero rinfocolare le aspettative sull’inflazione, allo stesso modo in cui accadde negli anni ’70. Il rischio a quel punto è che, anche se riferiti solo a qualche mese, (questi aumenti) potrebbero essere difficili da contenere, specialmente in presenza di così tanti stimoli”.
A quel punto, i rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve potrebbero “provocare il caos in un mondo pesantemente indebitato“, con crisi finanziarie che si abbatterebbero soprattutto nelle economie dei paesi emergenti, dove la crescita non sarebbe capace di compensare costi di finanziamento più elevati.
Grande attesa in Usa per il dato market mover di questa settimana
Il tema dell’inflazione negli Stati Uniti tornerà alla ribalta tra qualche giorno, per la precisione, dopodomani giovedì 10 giugno, con la pubblicazione del tanto atteso indice dei prezzi al consumo, principale termometro dell’inflazione.
Il dato di aprile aveva rinfocolato i timori dell’inflazione, in quanto salito del 4,2%, al ritmo più veloce dal 2008, con il dato core volato al record dagli anni ’80. La conferma del surriscaldamento dei prezzi era arrivata anche con l’indice dei prezzi alla produzione, che ad aprile ha riportato un balzo record in 11 anni
La paura, sui mercati dipendenti dalla droga monetaria della Fed, è sempre la stessa: quella del tapering del Quantitative easing da parte dell’istituto guidato da Jerome Powell.
C’è da dire che lo scorso venerdì il report occupazionale Usa ha in qualche modo fatto rientrare questi timori, vista la creazione di nuovi posti di lavoro inferiore alle attese. Nel mese di maggio, per la precisione, le buste paga sono aumentate di 559.000 unità. Gli economisti intervistati da Dow Jones avevano stimato 671.000 nuovi posti di lavoro, rispetto agli appena 266.000 posti che erano stati creati ad aprile. Migliore delle attese è stato invece il tasso di disoccupazione, sceso dal 6,1% al 5,8%, rispetto al 5,9% del consensus generale.
In generale, il report sull’occupazione non è stato tale da alimentare i timori su una crescita improvvisa dell’inflazione, riuscendo a tenere a bada l’ansia da tapering.
La prova è nel trend dei tassi sui Treausuries Usa, che rimangono sotto controllo, che oggi sono anche in lieve ribasso all’1,562%, in deciso ribasso rispetto all’1,74% della metà di marzo, e nonostante le dichiarazioni del segretario al Tesoro Usa Janet Yellen che, in’intervista rilasciata a Bloomberg ha detto nel fine settimana che, se concretizzata, la proposta di spesa pubblica del presidente Joe Biden, pari a $4 trilioni, sarebbe positiva per gli Stati Uniti, anche se si traducesse in un aumento dei tassi di interesse.
“Se finissimo con l’avere un contesto di tassi di interesse lievemente più alti, si tratterebbe di un plus da un punto di vista della società e anche per la Fed”, ha detto Yellen.