Avviso ai bearish sul dollaro, Roubini: debolezza c’è, ma non dimenticate che qui parliamo di USA
De-dollarizzazione, fine del dominio del dollaro come valuta di riserva, crash del dollaro inevitabile, come ha previsto settimane fa l’ex presidente di Morgan Stanley Asia, Stephen Roach.
Il Re dollaro sta perdendo davvero la sua corona? E in ogni caso, a prescindere dalle previsioni più o meno nefaste, non sarebbe forse il caso di fare la differenza tra un outlook di breve termine e uno di più lungo termine?
Sulla questione interviene Nouriel Roubini, noto economista e professore della New York University, che proprio di recente si è messo in evidenza con un’intervista rilasciata a Bloomberg TV, affermando che “Wall Street sta ignorando il rischio di un double dip” e che “siamo già in un mondo MMT”, ovvero un mondo definito dalla Modern Monetary Theory (Teoria Monetaria Moderna).
Nelle ultime ore, in un editoriale pubblicato su Project Syndicate, il docente ha parlato espressamente di quanto sta accadendo al dollaro Usa:
“Il recente forte deprezzamento del dollaro ha alimentato i timori che (la moneta) possa perdere il suo ruolo di principale valuta di riserva globale. Dopo tutto, oltre all’allentamento monetario aggressivo della Federal Reserve – che minaccia di svalutare ancora di più la principale moneta fiat – sia i prezzi dell’oro che le aspettative sull’inflazione hanno continuato a salire”, ha sottolineato l’economista.
Nouriel Roubini ha poi citato Mark Twain:
Detto questo, “parafrasando Mark Twain, le voci su una imminente rovina del dollaro sono decisamente esagerate”. Il motivo? Il professore fa notare che “la recente debolezza è stata scatenata da fattori ciclici di più breve periodo” e che “nel lungo periodo, la situazione è più complicata”, visto che “il dollaro presenta punti di forza e di debolezza che, entrambi, potrebbero o non potrebbero minare la sua posizione globale, nel corso del tempo”.
Prima di sparare sentenze, sembra suggerire il professore, forse sarebbe meglio riconoscere questi punti di forza e di debolezza della valuta Usa:
Roubini: ecco i fattori che pesano sul dollaro Usa
Secondo Roubini, al primo posto tra i fattori negativi di breve termine c’è “la politica monetaria ultra-accomodante della Fed”. Tra l’altro, “con gli Stati Uniti che stanno monetizzando deficit sempre più alti, l’approccio della Fed appare più accomodante di quello della maggior parte delle altre banche centrali più importanti”.
Roubini ricorda che “il dollaro tende a indebolirsi durante gli episodi di risk-on, e viceversa. E’ questo il motivo per cui il suo valore ha testato il picco nella fase di panico per il COVID-19 di febbraio-marzo, per poi rallentare da aprile in poi, in concomitanza con il miglioramento del sentiment (che, a tal proposito, sta continuando a far toccare nuovi valori record a Wall Street).
“In più, l’attivazione da parte della Fed di linee di swap per lo scambio di valute con altre banche centrali ha ridotto l’illiquidità del dollaro che, all’inizio della crisi, aveva spinto verso l’alto il tasso di cambio”. La situazione da allora è cambiata anche perchè “ora, l’inondazione di dollari a livello globale sta mettendo sotto pressione la valuta Usa”.
In questo contesto, non si può non far notare che “alcuni paesi avanzati (in Europa e altrove) e emergenti (come Cina e altri in Asia) stanno facendo un lavoro decisamente migliore nel riuscire a contenere il COVID-19, rispetto a quanto stiano facendo gli Stati Uniti”. E ciò “implica che il recupero delle loro economie potrebbe dimostrarsi più resiliente (rispetto a quello dell’economia Usa)”.
Insomma, i “fallimenti che si ravvisano nel sistema sanitario Usa (nella lotta al coronavirus) e le relative vulnerabilità economiche (del paese) che ne derivano stanno contribuendo ulteriormente alla debolezza del dollaro”.
Tuttavia, “vale la pena ripetere – continua il docente della NYU – che, prima della pandemia, il dollaro si era apprezzato, dal 2011, di oltre +30% in termini nominali e reali (aggiustati tenendo conto dell’inflazione). Visto però il deficit esterno degli Stati Uniti in crescita, e visto che i tassi di interesse (Usa) non sono sufficientemente elevati per finanziare il deficit con flussi di capitali in entrata, un deprezzamento del dollaro si è reso necessario per ripristinare la competitività commerciale degli States. E il fatto che gli Usa si rivolgano al protezionismo significa che preferiscono un dollaro più debole per tornare a essere competitivi con l’estero”.
Roubini: ma il dollaro potrebbe rafforzarsi
Eppure, “il dollaro potrebbe rafforzarsi”, e non solo nel lungo termine. Così l’economista:
“Anche nel breve termine il dollaro potrebbe tornare a rafforzarsi se – così come gli ultimi dati sulla crescita globale lasciano pensare – una ripresa (dell’economia) a V finisse per stagnare e trasformarsi in una ripresa anemica ad U, per non parlare del rischio di un double dip, nel caso in cui la prima ondata di pandemia non fosse controllata e una seconda uccidesse la ripresa prima che venissero trovati vaccini efficaci”.
Riguardo “al medio-lungo periodo, molti sono i fattori che potrebbero preservare il dominio globale del dollaro”, sottolinea Roubini, che aggiunge:
“Il dollaro continuerà a beneficiare di un sistema ampio di tassi di cambio flessibili, di controlli limitati sul capitale e di mercati dei bond liquidi e profondi. Inoltre, semplicemente non esiste una chiara moneta alternativa che possa essere utilizzata come unità di conto, mezzo di pagamento e riserva stabile di valore” come il biglietto verde.
E non è finita qui. “Nonostante i calvari legati alla pandemia, il tasso annuale di crescita potenziale del Pil Usa, attorno al 2%, è più alto che nella maggior parte delle altre economie dei paesi avanzati, dove è più vicino all’1%”.
Roubini mette in evidenza i punti di forza dell’ economia americana, che “rimane dinamica e competitiva nei settori più importanti, come nella tecnologia, la biotecnologia, la farmaceutica, l’health care, i servizi finanziari avanzati”. E si tratta di tutte industrie che “continueranno ad attrarre flussi di capitali dall’estero“. Questo significa che “qualsiasi paese che voglia competere con la posizione degli Stati Uniti dovrebbe chiedersi se davvero desidera finire con una valuta forte e con elevati livelli di deficit delle partite correnti, nell’intento di soddisfare la domanda mondiale di asset sicuri (bond governativi). Uno scenario, questo, che sembra essere non proprio allettante per l’Europa, il Giappone o la Cina, dove la solidità delle esportazioni è cruciale per la crescita economica”.
Insomma, conclude Nouriel Roubini, “nelle attuali circostanze, è probabile che gli Stati Uniti mantengano il loro ‘esorbitante privilegio’ di essere emittenti di debito sicuro a lungo termine (Treasuries) che sia gli investitori pubblici che privati vogliono nei loro portafogli“.
La posizione di Roubini è dunque decisamente meno bearish di quelle view che sono state snocciolate dai vari maghi della finanza: nel mese di giugno Stephen Roach aveva paventato un tonfo del dollaro fino a -35% affermando che “il suo crash è praticamente inevitabile”. E aggiungendo di temere una stagflazione simile a quella della fine degli anni ’70, quando i prezzi salirono in modo significativo, a fronte di una crescita dell’economia a dir poco pervenuta.