Non c’è più un posto sicuro: si vende anche il dollaro

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C’è un momento in cui anche l’analista più devoto ai modelli deve smettere di fissare i grafici con l’aria da professorone, togliersi la giacca, guardare fuori dalla finestra e ammettere: “stavolta non ci sto capendo niente”. Quel momento è arrivato il 2 aprile 2025, il cosiddetto “Liberation Day”, quando Donald Trump ha riscritto il commercio globale a colpi di dazi, e i mercati hanno risposto riscrivendo le correlazioni.
Per anni ci siamo raccontati che il dollaro e l’S&P 500 si muovono in direzioni opposte.
• Un dollaro forte penalizza gli utili delle aziende USA, soprattutto quelle globali, che guadagnano meno all’estero, e questo comporta una Borsa che scende.
• Un dollaro debole, al contrario, fa respirare le aziende, in quanto favorisce i margini e fa salire Wall Street.
Ma da quel 2 aprile, la favola si è interrotta. I due fratelli-nemici hanno iniziato a cadere insieme. Letteralmente. Il dollaro (DXY) è crollato da 104 a sotto 99. L’S&P è sceso di oltre 700 punti. E la rolling correlation tra i due, storicamente negativa, è diventata positiva. Tradotto: adesso Wall Street e dollaro americano scendono insieme, mano nella mano. E non per amore.
Il punto non è che il dollaro venga venduto perché l’economia americana va bene o va male. Viene venduto perché il mondo non si fida più. I dazi hanno accelerato qualcosa di molto più profondo di una crisi commerciale: hanno incrinato un patto implicito di fiducia globale che durava da 80 anni. Dal Dopoguerra a oggi, il dollaro è stato moneta, contratto e rifugio. Oggi è diventato un rischio geopolitico.
E il segnale piu chiaro non arriva dai mercati, ma dalle banche centrali. Non stanno semplicemente riducendo l’esposizione ai Treasury: li stanno scaricando per comprare oro. La Cina lo sta facendo da mesi, in silenzio ma senza sosta: la PBoC ha aumentato le riserve auree per 17 mesi consecutivi, accumulando nel 2024–2025 più oro che in tutto il decennio precedente. Non è diversificazione. È autodifesa.
Il problema oggi non è il tasso d’interesse. Non è la duration. È il rischio che i tuoi asset vengano congelati da un tweet. O peggio, da una guerra. Dopo il precedente russo del 2022, nessun paese “non allineato” — Cina, Arabia Saudita, Brasile — può più permettersi di detenere troppi dollari, troppi Treasury, troppa esposizione a un sistema che può essere usato come arma.
E l’oro? L’oro non si blocca, non si sanziona, non si congela.
Ecco perché lo stanno comprando tutti. Ecco perché il dollaro viene venduto.
Non per ragioni macro. Ma per ragioni di sopravvivenza.
Il messaggio è chiaro: se domani ti svegli e Trump ha deciso che sei un nemico, i tuoi dollari non sono più tuoi. Possono essere bloccati, congelati, politicizzati. I Treasury? Idem. Ma l’oro no. L’oro è fisico, anonimo, liquido, e soprattutto non è “stampabile” da Washington. È per questo che il sistema multipolare sta emergendo non nei comunicati ufficiali, ma nei bilanci delle banche centrali. I dollari si riducono, l’oro cresce. E nel mezzo, i Treasury restano senza compratori.
Negli ultimi 10 anni la Cina ha tagliato la sua esposizione in Treasury USA di oltre il 40%, passando da 1.239 miliardi a 784 miliardi, come si evince dall’immagine.
Nello stesso tempo, l’S&P 500 scende. I dazi hanno messo a rischio le supply chain globali, i costi di produzione sono esplosi e i margini aziendali si stanno sgretolando. Il risultato è il più temuto dagli economisti: stagflazione. Inflazione alta da costi (non da domanda) e crescita in frenata. Un cocktail tossico.
E la Fed? Immbilizzata. Non può tagliare i tassi, perché l’inflazione post-dazi è reale e persistente. Ma non può nemmeno alzare, perché l’economia sta già rallentando. È una trappola perfetta: Powell resta fermo a guardare. Non può fare altro, in effetti. Chi può biasimarlo e soprattutto chi si metterebbe nei suoi panni, oggi. E intanto l’azionario inizia a sentire il peso della realtà. E questa volta, la realtà non è né morbida né transitoria, come abbiamo più volte sentito dai suoi speech.
Questa correlazione positiva tra Wall Street e dollaro può essere considerata come un’allerta sistemica. In America lo sanno. È il segnale che il mercato ha smesso di credere al meccanismo stesso della rotazione: non ci si sposta più da un asset all’altro (il classico flight-to-quality). Si esce. Si disinveste. Si va in cash, considerato come asset class, o in oro, forse. Ma il dollaro non è più il “bene rifugio di ultima istanza”.
Almeno per ora. È il mondo al contrario. La narrativa “America is the cleanest shirt in the dirty laundry” (tradotto l’economia e il mercato USA restano sempre preferibili rispetto agli altri paesi sviluppati e non, anche in momenti di crisi) non regge più. Perché anche quella camicia ora puzza. I fondamentali delle aziende sono buoni? Forse. Ma i multipli non hanno più senso in un contesto di dazi globali, inflazione da offerta e banche centrali paralizzate. Non è una crisi di fiducia. È una crisi di struttura. E quando la struttura si incrina, le correlazioni smettono di funzionare, come stiamo vedendo.
Il risultato? Correlazione positiva. Ma non una di quelle che ti fanno dormire tranquillo. Questa è correlazione da resa dei conti, figlia di politiche commerciali improvvisate nella forma ma chirurgiche nella strategia. Trump sta creando il caos, sì — ma non a caso. La sua è una partita in più fasi: prima spaventa, minaccia, alza i dazi, gonfia i muscoli. Poi si siederà al tavolo, uno a uno, con chi serve davvero: l’Europa, il Giappone, l’India, la Cina. E lì farà gli accordi che voleva fin dall’inizio, ma da posizione di
forza. Non come partner. Come vincitore.
Nel frattempo, però, il mercato scende. Wall Street e dollaro giù insieme perché nessuno vuole essere l’ultimo ad andarsene. Non c’è rotazione. C’è solo “vendi ora, poi si vede”.
La domanda non è se questa dinamica durerà.
La vera domanda è: quanto in basso si arriverà prima che qualcuno agisca?
Domanda bonus per gli amici: e chi agirà per primo?
- La Fed? Che potrebbe cedere sotto il peso del mercato ma rischia di perdere la faccia.
- Trump? che potrebbe spegnere il fuoco con un tweet.
- O forse saranno gli altri paesi? costretti a venire a patti con il nuovo ordine americano, non perché vogliono… ma perché in fondo non hanno scelta (primo fra tutti, la Cina, che esporta principalmente versi gli USA).
E se nessuno reagisce? Allora prepariamoci a scoprire fin dove può scendere un mercato quando tutti sanno che non c’è più nessuno a proteggere (come dovrebbe essere, tra l’altro).