Terre rare, un’opportunità di investimento nel 2023?
Lusso, materie prime energetiche, viaggi e intrattenimento. Sono questi i settori che hanno festeggiato più di tutti sui listini di Borsa la riapertura cinese e l’eliminazione definitiva dei severi lockdown introdotti per contenere la diffusione del Covid-19 e delle sue varianti. Ma ce n’è un altro che sta passando forse troppo in sordina e in cui la Cina rimane indiscutibilmente il principale produttore al mondo, con una quota di mercato attorno all’80%: le terre rare.
Cosa sono le terre rare
I metalli delle terre rare sono un gruppo di 17 elementi metallici pesanti fondamentali per realizzare tecnologie, civili e militari, utili anche al successo della transizione verde, ad esempio motori per veicoli elettrici, generatori di energia eolica e altri dispositivi elettronici.
Gli elementi delle terre rare sono utilizzati in magneti, batterie, laser e molti altri prodotti e processi industriali. Si trovano all’interno di vari minerali sparsi in tutto il mondo, ma la loro “rarità” deriva dall’essere difficili da estrarre: non si trovano mai in alte concentrazioni e sono generalmente mescolati tra loro o con elementi radioattivi.
Cina, leader nella produzione di terre rare
La Cina è appunto leader indiscusso nel settore, seguita da Stati Uniti (15% della produzione mondiale), Birmania (9%) e Australia (8%).
Il gigante asiatico si è concentrato sullo sviluppo di questo comparto fin dagli anni Cinquanta e gran parte della produzione cinese proviene da una singola miniera, Bayan Obo, situata nella Mongolia Centrale, che si stima rappresenti complessivamente il 32% della produzione mondiale. Nel 2022, la Cina ha ampliato per il quinto anno consecutivo la produzione di terre rare e ha fissato la quota di estrazione a 210.000 tonnellate, con un aumento del 25% rispetto alle 168.000 del 2021.
La quota di mercato cinese sale ad addirittura l’85% nella fase successiva della filiera, quella della separazione e lavorazione delle terre rare. Questo perché la maggior parte delle terre rare estratte nel mondo, ivi incluse quelle statunitensi, sono inviate in Cina per la lavorazione e poi re-importate. Infine, proseguendo lungo la catena del valore fino alla fase downstream ovvero quella della componentistica e della realizzazione delle tecnologie finali, la Repubblica Popolare Cinese risulta anche il principale produttore di magneti a base di terre rare con una quota di mercato del 90%.
Il primato cinese sulle terre rare ha diverse motivazioni. Innanzitutto, la Cina possiede circa un terzo delle riserve mondiali, che una combinazione di condizioni geologiche favorevoli e clima umido rendono più facile ed economicamente vantaggioso sfruttare. Per di più, la presenza di altri metalli nei depositi (es. ferro) e la possibilità di ricavare terre rare come sotto-prodotto ha in passato ulteriormente incentivato lo sfruttamento di tali depositi. A questi fattori si aggiungono sussidi statali diretti e indiretti e la presenza di bassi standard ambientali e sociali, che hanno favorito l’immissione sul mercato di terre rare a basso costo, rendendo sempre meno competitivi i concorrenti internazionali.
Si noti che recentemente la Cina ha razionalizzato e consolidato la produzione di terre rare attraverso una serie di ristrutturazioni e fusioni aziendali che hanno portato alla costituzione di quattro grandi player nazionali legati in linea diretta alla guida del Partito Comunista. Questa mossa, oltre a consentire un maggior controllo sulla filiera e quindi sull’output effettivo, facilitando il contrasto all’estrazione e all’export illegale di terre rare, si auspica possa favorire la diffusione di standard ambientali e sociali più sostenibili.
I Paesi che minano il dominio cinese nella disponibilità di terre rare
Il rischio che il Dragone possa utilizzare questa posizione dominante lungo la filiera come arma di ricatto o ritorsione a fini geopolitici è concreto e sta dunque costringendo i Paesi più dipendenti dalle importazioni di terre rare a trovare fonti alternative di approvvigionamento e a siglare alleanze con Paesi amici. Servono inoltre ulteriori investimenti in ricerca e sviluppo e politiche che incentivino tecniche per l’utilizzo di una minor quantità di terre rare nelle tecnologie finali o lo sviluppo in laboratorio di terre rare sintetiche.
Primo su tutti il Giappone, che attualmente importa circa il 60% delle terre rare dalla Cina, tra cui il neodimio, utilizzato negli impianti di energia eolica, e il disprosio, presente nei motori dei veicoli elettrici. In Giappone sono stati trovati al largo dell’oceano Pacifico grandi depositi di fango contenenti terre rare a una profondità di 6.000 metri. Ma gli ingegneri marini per ora sono riusciti a pompare materiale dal fondale marino da una profondità di quasi 2.500 metri nelle acque vicino a Minami-Torishima, un piccolo atollo disabitato a quasi 1900 chilometri a sud-est di Tokyo, e stanno lavorando per estendere la profondità di estrazione che è prevista arrivare a quota 6.000 metri entro il 2024. Il compito è reso più difficile dalle forti correnti oceaniche e dai tifoni, ma il governo nipponico ha stanziato 6 miliardi di yen per finanziare il progetto.
Il Giappone non è l’unico ad avere intenzione di sfruttare il fondale marino per garantirsi l’accesso ai metalli critici per la transizione energetica. Un’azienda mineraria canadese, The Metals Company, punta a estrarre tonnellate di rocce contenenti grandi quantità di nichel, manganese, cobalto e rame dal fondo dell’oceano Pacifico. Più precisamente, il sito si trova nelle zone di frattura di Clarion e di Clipperton, un’area compresa tra il Messico centrale e le isole Hawaii. The Metals Company vorrebbe dare inizio alle estrazioni nel 2024, e conta di riportare un profitto di 31 miliardi di dollari in vent’anni. Al progetto partecipano anche la compagnia di navigazione danese Maersk, l’azienda svizzera di servizi energetici offshore Allseas e il gruppo minerario svizzero Glencore.
Infine, anche l’Unione Europea si sta muovendo per ridurre le sue importazioni di terre e metalli rari, prime su tutte il cobalto, utilizzato nella produzione di batterie, e il titanio, necessario per la fabbricazione delle celle a combustibile. Il Comitato per l’industria, la ricerca e l’energia (ITRE) del Parlamento Europeo individua nello stoccaggio a livello comunitario dei metalli rari una possibile strategia per garantire un approvvigionamento di queste risorse a tutti i Paesi UE. Oltre a questa strategia, l’ITRE suggerisce come altre pratiche da adottare:
- la ricerca di soluzioni alternative agli accordi di libero scambio per via della loro portata limitata nella differenziazione dei fornitori;
- l’ampliamento dei meccanismi di monitoraggio, in particolare l’acquisizione dei dati sull’andamento dei prezzi e sullo stato delle catene del valore;
- lo stanziamento di incentivi destinati alle imprese per il mantenimento delle scorte;
- l’impiego di professionisti del settore privato nella gestione delle operazioni di stoccaggio;
- la connessione delle politiche di immagazzinamento a misure strategiche che irrobustiscano la resilienza della capacità industriale dell’UE.
Nel frattempo, è notizia di oggi la scoperta del più grande giacimento di terre rare dell’UE in Svezia, che si stima contenga più di un milione di tonnellate di ossidi di questi metalli.
Come investire sulle terre rare
Alla luce del quadro descritto sopra e del mercato mosso dalla scoperta di nuovi giacimenti, il tema delle terre rare torna nuovamente caldo all’inizio di questo 2023. Questa corsa per rafforzare la catena di approvvigionamento di produzione e raffinazione per gli elementi delle terre rare al di fuori della Cina offre opportunità di investimento interessanti.
Gli investitori che vogliono esporsi a questo tema possono scegliere tra un paio di opzioni quando si tratta di fondi di terre rare. Il più noto e accessibile è il VanEck Rare Earth And Strategic Metals Ucits Etf, che investe in azioni di società globali attive nell’estrazione e nella raffinazione di metalli strategici (come il cobalto, il molibdeno, il titanio e il litio) e terre rare.
Oppure il Global X Disruptive Materials UCITS ETF (DMAT), che investe in aziende che producono metalli e altre materie prime essenziali per lo sviluppo di tecnologie rivoluzionarie del futuro, come batterie al litio, pannelli solari, turbine eoliche, celle a combustibile, robotica e stampanti 3D, che renderanno più ecologici ed efficienti i trasporti, l’energia e i sistemi industriali. L’universo investibile è composto dalle società coinvolte nell’esplorazione, nell’estrazione mineraria, nella produzione e/o valorizzazione di terre rare, zinco, palladio e platino, nichel, manganese, litio, grafene e grafite, rame, cobalto e fibra di carbonio.