Notizie Indici e quotazioni Russell 2000: zampata orso colpisce le small cap. Troppo pessimismo sui mercati? La nota di Pictet AM

Russell 2000: zampata orso colpisce le small cap. Troppo pessimismo sui mercati? La nota di Pictet AM

18 Dicembre 2018 13:33

Occhio al Russell 2000, indice di riferimento delle small cap americane: il listino è scivolato ufficialmente nel mercato orso nella sessione di ieri, accumulando perdite superiori al 20% rispetto al picco testato alla fine di agosto e capitolando al valore più basso dall’agosto 2017.

Il dietrofront dei titoli delle small cap è notevole, se si considera che all’inizio dell’anno queste azioni sono state capaci di fare meglio del mercato, in quanto relative a società orientate ai consumatori Usa e dunque immuni, in teoria alle tensioni commerciali, esplose tra gli Stati Uniti e la Cina.

I buy sono fioccati anche perchè le aziende sono state viste come quelle che avrebbero beneficiato maggiormente dei tagli alle tasse lanciati con la rivoluzione fiscale dell’amministrazione Trump.

Il quadro è poi cambiato a causa delle strette monetarie della Fed che, alzando i tassi, ha alimentato una pressione rialzista sui salari, mettendo sotto pressione le aziende americane più piccole.

Alla base degli smobilizzi – che si sono diffusi anche agli indici principali di Wall Street – è stata comunque in primis l’avversione al rischio degli investitori:

“Il sell off deriva dal sentiment risk-off – ha detto in un’intervista rilasciata alla Cnbc Tobias Levkovich, responsabile strategist dell’azionario Usa presso Citi – I titoli delle small cap sono più rischiosi di quelli delle large cap e il timore ora è che ci troviamo alla fine del ciclo (economico) degli Stati Uniti e che stiamo entrando in recessione“.

Secondo Levkovich è possibile dunque che il rally riportato quest’anno dalle small cap sia stato eccessivo.

Lo strategist ha fatto tra l’altro notare come alla fine queste aziende non siano neanche tanto immuni ai timori di una escalation della guerra commerciale, se si considera che il 72% del fatturato delle società quotate sullo S&P 500 è legato alle vendite nel Nord America, e che nel caso delle small cap scambiate sul Russell 2000 la percentuale è del 77%, non molto più alta.

“Non c’è quella differenza che sembra. Inoltre, si può vendere anche qui, ma magari una componente del  prodotto è stata importata da un mercato colpito dalle sanzioni commerciali”.

Ma l’orso non ha colpito soltanto le small cap. A essere scivolati nel mercato orso, infatti, è più la metà dei titoli scambiati sullo S&P 500.

Non solo small cap. Outlook Fed e mercati di Pictet

Intanto, in attesa dell’annuncio della Federal Reserve sui tassi, che arriverà domani al termine dei due giorni del Fomc, Andrea Delitala, Head of investment advisory di Pictet Asset Management mette in rilievo, come si evince dal titolo della sua analisi, che “i mercati temono (troppo) una recessione USA”, leggendo forse altrettanto troppo nel fenomeno dell’inversione della curva dei rendimenti dei Treasuries americani.

“Questa reazione ci appare però eccessiva per almeno due ordini di ragioni: innanzitutto, l’inversione della curva attuale è avvenuta nel tratto 2-5 anni, che ha un valore segnaletico poco significativo. Inoltre, se analizziamo gli eventi che hanno preceduto le tre peggiori recessioni degli ultimi 50 anni, osserviamo che l’inversione della curva precede di oltre un anno la recessione e per essere significativa riguarda la parte lunga, tra 10 e 30 anni. Il nostro indicatore dello stato di salute dell’economia USA, che si compone di 29 variabili, tra cui figura anche l’inversione della curva, mostra una probabilità di recessione del 5%, in aumento di un solo punto percentuale rispetto al 4% dello scorso anno (soglia critica a ca 23%)”.

Troppo pessimismo sui mercati? Per Delitala “i mercati piuttosto temono una compressione dei margini di profitto aziendale futuri, in particolare a causa di un più elevato costo del denaro e dalle pressioni salariali mentre le aspettative di un ritorno dell’inflazione, ovvero della capacità delle aziende di trasferire sui prezzi di vendita gli aumenti dei costi di produzione, sembrano rientrate”.

“D’altro canto – si legge ancora nell’analisi – il superamento della repressione finanziaria e il conseguente drenaggio della liquidità (già a regime in Usa e in attesa di iniziare in Europa e in Giappone), avrebbe frenato utili e valutazioni delle attività finanziarie. Infatti, di norma la presenza di liquidità in eccesso rispetto al funzionamento dell’economia si ripercuote in valutazioni più generose delle azioni; di converso quando la quota di liquidità in eccesso si riduce (come sta avvenendo in questa fase), le valutazioni si contraggono”.

Sulla base di questi presupposti, viene messo in evidenza che “gli utili delle società dello S&P quest’anno sono aumentati del 20% rispetto al 2017 e tuttavia l’indice delle quotazioni è allo stesso livello (anzi ora sotto) di un anno fa. Ciò significa che il rapporto Prezzo/Utili è sceso di altrettanto: un derating, o contrazione dei multipli, che spinge gli indici al ribasso”.

Quale sarà l’outlook per l’anno prossimo?

“Per il 2019, gli utili sono attesi in crescita a ritmo più che dimezzato, di ca il 9%, coerente se non altro con il venire meno del ‘doping fiscale’ del 2018 sugli utili, stimabile in circa dieci punti percentuali. Il problema principale è comunque l’ottimismo degli analisti nel medio periodo: per quanto poco affidabile, le previsioni degli analisti (IBES) per il lungo termine rimangono al di sopra del trend storico di circa 3 punti percentuali. Dal punto di vista valutativo, invece, dopo gli ultimi ribassi, il P/E basato sugli Utili attesi per i prossimi dodici mesi si attesta a 15,2 vicinissimo alla media storica di lungo periodo: 15”.

“In questo contesto, Pictet AM stima che i ritorni prospettici dell’S&P a cinque anni si collochino in un range tra lo 0 e il 5% annuo, ovvero a un livello molto inferiore rispetto alla media storica su un orizzonte temporale di mezzo secolo, che colloca quel valore intorno all’8% annuo (in termini reali), in media, e rispetto al 12% registrato a partire dall’avvio del QE nel 2009. Ci muoviamo in un contesto nuovo: il new normal caratterizzato appunto da utili contenuti, da tassi di interesse e rendimenti obbligazionari che si collocano a un punto di equilibrio sotto il 3%, rispetto al 4,5% dei cicli precedenti, e da un’inflazione che stenta a raggiungere l’obiettivo del 2%”.

In tutto questo, cosa deciderà di fare la Federal Reserve?

Delitala ricorda che “Jerome Powell, nel corso dell’ultimo speech al Club degli economisti a NY a fine novembre ha ammorbidito la precedente posizione trasmessa erroneamente al mercato, secondo cui la Fed avrebbe aumentato i tassi, al consueto ritmo graduale di 25pb a trimestre, fino a un livello (il neutral rate) ancora lontano e forse anche oltre. Powell ha ora precisato che poiché non si conosce bene il tasso di equilibrio (che è nel range tra 2,5 e 3,5%), ora che stiamo entrando nell’intervallo che lo contiene, è opportuno rallentare il passo. Si preannuncia dunque una pausa nel 2019, probabilmente già dopo il rialzo di dicembre o, al più tardi, quello di marzo”.

“Subito dopo questa nuova presa di posizione dovish del governatore della Fed, i Fed Fund Future, che indicano il punto in cui il mercato colloca le attese sui tassi a breve, si sono posizionati al di sotto del 2,75%: che corrisponde a un unico ulteriore rialzo nel 2019, per poi attuare una nuova graduale discesa sotto la soglia del 2,5% a fine 2020. Il mercato ha già riprezzato la fine di questo ciclo, dando per certa la disponibilità di Powell e proietta un ripensamento che, se praticato assume le sembianze di un policy mistake”.

Ciò che mette in evidenza il responsabile della consulenza degli investimenti di Pictet Asset Management, è che “manca tuttavia un elemento determinante, su cui la Banca Centrale non ha ancora preso posizione: la gestione della liquidità. Attualmente il riassorbimento della stessa sta avvenendo, da ottobre, a un ritmo di 50 miliardi di dollari al mese, che equivalgono in un anno a 600 miliardi di dollari l’anno. Si tratta di un ritmo elevato, difficilmente sostenibile da parte di un’economia in rallentamento e che potrebbe provocare un credit crunch. Tuttavia, su questo tema, all’interno del FOMC (Federal Open Market Commettee, organo decisionale sulle politiche monetarie), non è emersa al momento un’opinione precisa sul livello finale del bilancio della Banca Centrale: non si comprende infatti quale sia la dose di liquidità corretta da lasciare nel sistema, che deve essere commisurata alla quantità di riserve libere che le banche desiderano detenere presso la Fed. Dunque, a maggior ragione in questo caso, la FED potrebbe adottare il criterio del rallentamento in fase di approccio procedendo con prudenza (come una nave che si avvicina al porto) verso un punto di equilibrio che non è ancora noto. Anche perché, oltre al rischio di credit crunch, c’è da considerare che un eventuale errore sul bilancio della Fed sarebbe meno facilmente reversibile di un overshooting sui Fed fund rate”.

Per Delitalia, di conseguenza, gli scenari possibili sono due:

  1. Il primo si potrebbe verificare se la Fed proseguisse con il drenaggio di liquidità al ritmo attuale con un impatto sul Pil equivalente a due/tre (ulteriori) rialzi dei tassi. Infatti, in base ad alcuni studi della Fed sul QE si può ipotizzare che 100 miliardi di drenaggio della liquidità equivalgano a un aumento dei tassi di 10 punti base. Inoltre stimiamo che un aumento di 100 punti base sui Fed Funds possa avere un impatto negativo pari all’1% sul Pil dell’anno successivo. Possiamo dunque concludere che 600 miliardi di liquidità sottratta all’economia possano frenare il Pil Usa per circa uno 0,6% nel 2019/20: con l’effetto di generare un nuovo derating, capace di erodere per intero tutta la sorpresa sugli utili. In questo contesto dovremmo probabilmente aspettarci performance azionarie a zero o negative.
  2. Il secondo scenario, decisamente più positivo, è anche a nostro avviso il più plausibile anche se non ancora ritenuto tale dal mercato. Riteniamo che lo stesso ammorbidimento che Powell ha mostrato sui tassi, potrebbe emergere anche sul bilancio. Poiché non è noto il valore del terminal balance sheet, la Fed potrebbe in questo caso almeno rallentare il passo, diminuendo il ritmo del mancato reinvestimento dei titoli in scadenza (50 miliardi/mese), ovvero del Quantitative Tightening. Riteniamo che le nubi potrebbero diradarsi entro marzo, con la Banca Centrale che potrebbe assumere una posizione ufficiale e chiara al riguardo. Nell’ipotesi che il punto di arrivo del bilancio Fed fosse fissato a 3,5 miliardi di euro, dai 4 attuali, entro fine 2019 si raggiungerebbe il traguardo, e la pressione sulle valutazioni si attenuerebbe, con la possibilità di performance azionarie pur sempre ad una cifra, ma più verosimilmente positive.