Petrolio: El-Badri, l’Opec ha fatto bene a confermare l’output, dobbiamo smettere di sovvenzionare i produttori di shale-oil
La decisione dell’Opec di confermare l’output petrolifero inizia a fare effetto. Ne è convinto Abdalla Salem El-Badri, Segretario generale dell’Organizzazione che raggruppa i Paesi esportatori di greggio, l’Opec. Il Cartello, che a fine novembre ’14 ha confermato il tetto produttivo in quota 30 milioni di barili contribuendo in maniera determinante al crollo delle quotazioni (-46% per il Wti e -42% per il Brent negli ultimi sei mesi), ha preso la decisione giusta, ha detto El-Badri, poiché se fosse stata decretata una maggiore produzione, “il mercato avrebbe registrato un disavanzo e i prezzi sarebbero cresciuti nuovamente”.
Tramite la conferma dell’output, l’Opec punta a ridurre le risorse del nemico dichiarato, lo “Shale Oil” (il greggio estratto da fonti non convenzionali). Con il Wti a 49 e il Brent a 59 dollari, “progetti nel settore dello shale oil sono stati cancellati, gli investimenti sono stati rivisti e i costi sono in fase di contrazione”, ha detto El-Badri a margine di una conferenza in Bahrain. Secondo il Segretario, il mercato petrolifero è destinato a tornare in equilibrio nella seconda metà dell’anno grazie all‘effetto combinato di un incremento della domanda e di una riduzione dell’offerta. Dopo l’incremento di meno di 1 milione di barili giornalieri registrato nel 2014, nell’anno corrente El-Badri ha detto di attendersi per l’anno corrente una crescita delle richieste di 1,2 milioni di barili.
“Se avessimo ridotto il greggio estratto nella riunione di novembre, avremmo dovuto tagliare anche a gennaio e a giugno (quando è in calendario il prossimo meeting del Cartello, ndr) alla luce della crescita dell’offerta da parte dei Paesi non-Opec”. A febbraio il greggio estratto dall’Opec si è attestato a 30,6 milioni di barili giornalieri, 163 mila in più rispetto al mese precedente (nono mese consecutivo sopra la soglia dei 30 milioni di barili). “L’Opec non deve sovvenzionare i produttori del costoso shale-oil e per questo abbiamo deciso di confermare il target produttivo”. “L’attuale mercato petrolifero rappresenta un test per produttori e investitori: quotazioni agli attuali livelli significano meno ricavi e meno elasticità per i bilanci”.
Le parole di El-Badri trovano conferma nelle notizie in arrivo dagli Stati Uniti dove diverse piccole società sono fallite o in procinto di alzare bandiera bianca. La volatilità dei titoli del settore, misurata dal Cboe Crude Oil Volatility Index, è ai massimi dal novembre del 2011. Dopo la bancarotta di Endeavour International e della texana Wbh Energy, a febbraio sono cadute anche le canadesi Southern Pacific Resource e Gasfrac. In cattive acque anche Laricina Energy e Connacher Oil & Gas. Secondo le stime elaborate da Ubs nell’attuale situazione di mercato il 15% dei junk bond energetici statunitensi rischia di non essere rimborsato nei prossimi 12 mesi (il dato potrebbe salire al 25% in caso di stretta creditizia).
Anche se non direttamente correlata con l’estrazione da fonti non convenzionali, particolarmente significativa la parabola di Petrobras, diventata una minaccia per l’intera economia brasiliana. Dopo il taglio a “spazzatura” da parte di Moody’s, causa la discesa dei prezzi e la maxi-inchiesta per corruzione, la compagnia brasiliana attualmente vale meno di 40 miliardi di dollari, un settimo rispetto al picco toccato nel 2009.
Output Usa a livelli da record
Per ora, la produzione statunitense si conferma tonica. Nell’ultima rilevazione l’output petrolifero della prima economia si è spinto ai nuovi massimi pluriennali a 9,3 milioni di barili. In scia gli stock, saliti nell’ultima settimana di 10,3 milioni a 444,4 milioni, il livello maggiore, per questo periodo dell’anno, da almeno 80 anni.