“Capisco che tu non abbia mai occupato una posizione tale da mettere in pratica la politica estera, ma ogni volta che hai dato un’opinione, era sbagliata”. Così Obama si è rivolto a Romney nell’ultimo dibattito tv che li ha visti contrapposti ieri sera in Florida sui temi della politica estera, della sicurezza e dell’economia. Secondo i primi sondaggi (Cbs), è stato l’attuale presidente ad aggiudicarsi la partita, con l’inquilino della Casa Bianca al 53% delle preferenze e l’aspirante presidente non oltre il 23%. Un 24% di telespettatori invece ha optato per un pareggio. La sfida ora si sposta al 6 novembre, quando alle urne saranno gli indecisi a fare la differenza.
Romney “novellino” in politica estera. Contro un Romney che stavolta non ha commesso gaffes, Obama ieri ha saputo prevalere trasmettendo sicurezza e fiducia, mentre Romney non è stato in grado di proporre idee originali in maniera convincente, non ha forse passato il test dell’aspirante “comandante in capo“, ma di certo non ha incassato senza reagire i colpi del suo avversario democratico. La strategia del presidente in carica è stata quella di far pesare allo sfidante la propria inesperienza e la propria condizione di “novellino”, soprattutto nelle varie questioni di politica estera che saranno cruciali per chiunque si siederà per i prossimi quattro anni alla scrivania dello Studio Ovale: la gestione delle ambizioni nucleari dell’Iran, il disarmo in Afghanistan, le tensioni in Libia, Pakistan e Siria. In tutto questo è cruciale il tema delle spese militari, che Obama pensa di ridurre mettendo in pericolo, secondo Romney, la sicurezza nazionale.
Il nemico numero uno? Eliminato Osama Bin Laden, ora per Romney c’è solo Vladimir Putin, col quale invece Obama punta a rilanciare i rapporti. Politiche divergenti per i due leader invece nei riguardi della Cina, con cui la rivalità è tutta economica. “Non dobbiamo essere per forza nemici”, ha detto l’ex governatore del Massachussets parlando della potenza economica cinese, con la quale, secondo la sua idea, è possibile instaurare una partnership, poiché il Celeste impero ha tutto da perdere da una guerra del commercio. Ma Obama ha le sue ragioni, non solo economiche, per attaccare la Cina: perché è necessario imporre al Paese orientale l’obbligo di giocare secondo le regole globali; e perché eliminare la concorrenza cinese fa bene all’industria interna e porta voti. Ecco il senso delle sentenze del Wto contro la Cina – che Obama ha rivendicato ieri tra le sue conquiste – nei riguardi del mercato auto e di quello dell’acciaio, che tornano a favore delle industrie del Michigan e dell’Ohio. Stati che al momento della conta dei voti si riveleranno cruciali.
Grande assente dal dibattito di ieri l’Unione europea. Romney ne ha parlato solo per assimilare la sua politica “socialista”, che a parere dello sfidante repubblicano è la causa della crisi del debito, alla visione di Obama. Quest’ultimo non ha raccolto la provocazione, limitandosi a constatare che se l’Europa soffre è per la coda della crisi del 2008, nata proprio dalla politica “sconsiderata” dei repubblicani.
Il salvataggio di General Motors. La sola cifra ineluttabile che Romeny ha potuto contrapporre al fuoco di fila di Obama è stata quella dei 23 milioni di persone che lottano negli Stati Uniti per trovare lavoro. “Impossibile in un Paese forte come deve essere l’America”, ha tuonato Romney, e in effetti qui Obama ha avuto poco da replicare. Salvo difendere a spada tratta il salvataggio di General Motors, non condiviso dal suo sfidante, ma che ha salvato l’impiego della gente di Detroit che, come ha ammonito il presidente, “non dimentica”.
Sul filo della disoccupazione. Il mercato del lavoro quindi sarà probabilmente la carta decisiva per Obama: il dato a suo favore è quello che le ultime cifre dagli “swing states“, gli stati in bilico, hanno mostrato un calo dei senza lavoro negli Stati dell’ Ohio, Florida, Wisconsin, Colorado, Iowa, Nevada e North Carolina: i più duri da convincere al voto. La disoccupazione totale negli Stati Uniti ha raggiunto il 7,8%, pienamente in linea con gli obbiettivi della Fed. Tuttavia, il dato è ancora superiore a quel 7,2% al di sopra del quale nessun presidente Usa dopo Roosevelt è mai stato rieletto. Sarà Obama a rompere la tradizione?