Mps verso D-Day: il matrimonio con UniCredit che non s’ha da fare e lo Stato padrone Forever (che ha già perso)
Countdown all’Mps Day, ovvero a giovedì 17 dicembre, quando l’amministratore delegato Guido Bastianini presenterà al cda il piano per garantire la sopravvivenza della banca senese. Piano che, come riferito dalla stessa banca, prevede una operazione di aumento di capitale.
Finora l’importo è stato segnalato da fonti di mercato, che hanno parlato di una operazione fino a 2,5 miliardi di euro. Il dubbio, semmai, è se la banca avrà intenzione di procedere stand-alone –LEGGI LA NOTA– dunque da sola, con il continuo appoggio del Tesoro primo azionista che, magari, potrebbe rimanere nel capitale oltre il termine stabilito – ma qui ci sarebbe da fare qualche conto con la Commissione europea -oppure se Bastianini & Co. decideranno di darla in sposa a UniCredit.
Sebbene il M5S continui a dire che “il matrimonio non s’ha da fare“, l’opzione UniCredit non è ancora scomparsa dal tavolo.
Le ipotesi che si rincorrono sono comunque parecchie, se si considera che nelle ultime ore è tornato a parlare il segretario del sindacato dei bancari FABI, Lando Maria Sileoni, riproponendo un polo a tre costituito da Mps, Carige e Popolare di Bari, opzione che vedrebbe favorevoli anche i 5 Stelle. Perché, gli chiede il quotidiano La Repubblica?
“Perchè consentirebbe ai marchi di restare separati, non avrebbe praticamente sovrapposizioni e quindi esuberi e avrebbe un costo contenuto rispetto all’ipotesi di unire UniCredit e Mps: d’altronde, quest’ultima sarebbe un’operazione che si tradurrebbe in un costo per il personale stimato in 6.000 esuberi (“su Siena e Firenze si parla del 50% di esuberi), dice Sileoni, mentre il polo con Carige e Popolare di Bari comporterebbe un “numero molto limitato di esuberi”.
La soluzione del polo a tre, inoltre, “eviterebbe uno sperpero di soldi dello Stato”, visto che “UniCredit ha già detto chiaramente che senza un adeguato sostegno pubblico non può condurre a termine l’operazione Mps”.
Per Sileoni, un intervento per Unicredit “dovrebbe essere attorno a 5-6 miliardi”, mentre nel caso di una operazione Mps-Carige-Bari il costo per lo Stato sarebbe “un quarto di quello ipotizzato per UniCredit-Mps, un miliardo e mezzo, due al massimo”.
La Nazione di Siena, d’altro canto, sottolinea come uno scenario “eclatante” potrebbe presentersi a gennaio (solo allora si dovrebbe capire chi sarà il nuovo cedo di UniCredit dopo l’annuncio dell’addio di Jean-Pierre Mustier ) se la scelta del nuovo AD ricadesse su Marco Morelli, fino a maggio amministratore delegato del Monte dei Paschi.
“Per Rocca Salimbeni potrebbe essere un bel vantaggio: chi meglio di Morelli conosce i punti di forza e le debolezze del gruppo senese e ha la capacità di far digerire migliaia di esuberi prospettando un futuro più solido al Monte?”
Sempre la Nazione riporta però le azioni dei sindacati: “ieri i segretari del gruppo Mps di Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin si sono incontrati con il presidente della Regione, Eugenio Giani“. Da quanto hanno scritto gli stessi sindacati, è stata riaffermata “l’assoluta necessità della permanenza dello Stato nel capitale sociale per permettere il totale risanamento e rilancio del Gruppo”.
Quale che sia il futuro di Mps, oggi il Fatto Economico de “Il Fatto Quotidiano” scrive l’articolo La ‘Stato spa’ cresce ancora. Vale 116 miliardi tra luci e ombre”.
Stato padrone con le mani ovunque: e con grandi perdite in Mps e TIM
Nell’articolo viene rilevato che “oggi lo Stato padrone spazia dalle banche (Mps, Mediocredito Centrale, Popolare di Bari) ai trasporti (Fs, Anas), dalle reti elettriche (Terna, Gse) a quelle di telecomunicazioni (Tim, Open Fiber), dal petrolio (Eni, Snam, Saipem) all’elettricità (Enel) e all’energia (Italgas), dall’acciaio (Ilva) alle navi (Fincantieri), dalle linee aeree (Alitalia) al traffico aereo (Enav) e alla difesa (Leonardo), dall’elettronica (Stm) ai media (Rai) e alle Poste, dalla Zecca alla finanza e alle assicurazioni (Amco, Sace, Simest)”.
E la lista non finisce certo qui, ed è destinata anche a farsi più lunga, se si considera il recente accordo tra Invitalia e ArcelorMittal con cui tornerà l’acciaio di Stato.
Investimenti in alcuni casi si sono tradotti in perdite, se si considera che lo Stato ha pagato nel 2017 5,4 miliardi per diventare azionista di maggioranza di Mps, con una quota del 68,25%, e che ora Mps in Borsa vale meno di un miliardo. Il Fatto economico ricorda che “anche l’investimento di Cdp nel 10% di Tim per bloccare i francesi di Vivendi, costato un miliardo, ora vale appena 600 milioni”.