Legge di bilancio, Savona lancia il New Deal italiano: ‘Faremo come Roosevelt’
Un New Deal italiano, firmato dal governo M5S-Lega: di questo parla il ministro per gli Affari europei Paolo Savona, rispondendo alle domande dei gruppi parlamentari alla Camera che precedono la votazione del NaDef.
La nota di aggiornamento al Def passa alla Camera e al Senato, così come passa la risoluzione di maggioranza che autorizza il rinvio del pareggio di bilancio a dopo il 2021: dopo dunque, quel triennio 2019-2021 coperto dalla legge di bilancio che l’esecutivo sta per varare.
L’economista Savona lo dice chiaro e tondo: “Cominciamo a costruire un New Deal. Siamo coscienti che dobbiamo fare quelle riforme che Roosevelt avviò”.
Il ministro cita i punti del programma, in particolare quelli che attengono agli investimenti, aggiungendo:
“Io sono convinto che il governo ce la farà e ci sono gli impegni”.
Vale la pena ricordare i punti cardine del New Deal, il programma che venne lanciato dall’ex presidente americano Franklin Delano Roosevelt, effettivo dal 1933 al 1939.
Il termine New Deal viene fatto risalire al momento in cui Roosevelt proferì il discorso con cui accettò ufficialmente la nomination democratica per la presidenza. Era il 2 luglio del 1932.
Stremati dalla Grande Depressione che aveva falcidiato l’economia americana, e che il precedente presidente Herbert Hoover non era riuscito a combattere, gli americani votarono in gran massa a favore di Rooselvelt nel giorno dell’Election Day di novembre.
Opposto alla filosofia fino allora seguita dalla politica americana, quella basata sul laissez-faire, il New Deal per il ‘Forgotten Man’, ‘l’uomo dimenticato’ lanciava il concetto di un’economia regolamentata dal governo, volta a garantire un equilibrio tra i conflitti di interesse economici.
L’economia americana era in condizioni disastrose: tutto era iniziato il 29 ottobre del 1929, con il famoso ‘Black Tuesday’, il giorno passato alla storia come il crash di Wall Street, che diede poi il via alla crisi più grave degli Stati Uniti, sfociata nella Grande Depressione.
Entro il 1933, il Pil pro-capite Usa era crollato di quasi -29% e il tasso di disoccupazion e era balzato in media dal 3,2% al 25,2%.
New Deal: successo o fallimento?
Tuttora ci sono visioni molto contrastate su cosa rappresentò la formula lanciata da Roosevelt per curare le profonde ferite che la crisi aveva inferto al tessuto non solo economico-finanziario ma anche sociale degli Stati Uniti.
Con un articolo che spiega bene gli effetti del New Deal, Investopedia ricorda che nel 1933, quando Roosevelt salì al potere, il Pil oscillava a valori inferiori del 39% rispetto a quelli precedenti il crash dei mercati del 1929. Il problema è che entro il 1939, il Pil rimaneva ancora ostinatamente molto al di sotto di quei livelli, di ben -27%.
Nel 1939, il tasso di disoccupazione si attestava inoltre attorno al 19%, e sarebbe rimasto al di sopra dei livelli precedenti la Grande depressione fino al 1943.
Indicativo il giudizio che del New Deal ha dato l’economista Philip Harvey.
In un paper di qualche anno fa, Harvey ha scritto che la strategia della creazione diretta dei posti di lavoro adottata dall’amministrazione di Roosevelt in programmi del calibro del WPA (The New deal Strategy) può essere interpretata più come l’intento di far diventare realtà il diritto al lavoro, che non come una politica economica lanciata per promuovere una vera e propria ripresa dalla Grande Depressione.
Allo stesso tempo, scrive l’economista, “nell’adottare una politica garante del diritto al lavoro, i New Dealers, senza saperlo, svilupparono una strategia volta a fornire uno stimolo fiscale keynesiano che fu alla fine decisamente superiore ad altre strategie che erano state adottate contro la recessione.
Harvey va poi avanti sottolineando che “per una frazione della somma che il governo Usa decise di allocare per stimolare l’economia dopo la recente crisi finanziaria del 2008, la strategia del New Deal avrebbe potuto ridurre immediatamente il tasso di disoccupazione, facendolo scendere ai livelli precedenti la recessione e promuovendo contestualmente una ripresa più rapida delle assunzioni nel settore privato”.
Un paper pubblicato sul sito Thebalance.com sottolinea inoltre che i programmi del New Deal riuscirono a smorzare gli estremi dei cicli economici.
“Prima del New Deal, ovvero negli anni compresi tra il 1797 e il 1929, c’erano state 33 crisi economiche, 22 recessioni, quattro depressioni e sette casi di corse agli sportelli. Tutto questo, in 60 dei 132 anni presi in considerazione, avvenne secondo i sostenitori di Roosevelt perchè all’epoca non esistevano ancora le agenzie federali che nacquero durante l’amministrazione di Roosevelt. Agenzie preposte a evitare casi di corruzione, frode e sfruttamento. Agenzie tentacoli dello Stato pronte a stoppare gli eccessi della finanza, dell’industria e dell’economia”.
A conferma di come i cicli economici siano diventati successivamente meno frequenti, viene fatto notare che “dalla seconda guerra mondiale, ci sono stati 11 casi di recessione che hanno interessato appena 10 anni in un arco temporale complessivo di 60 anni”.
Ma non mancano certo i critici della stessa filosofia del New Deal, tra cui si è messa in evidenza negli anni soprattutto Amity Shlaes, giornalista e autrice di diversi bestseller tra cui quello con cui ha spiegato la sua contrarietà al Roosevelt-pensiero: “L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione”.
Nel suo libro Shlaes ha bocciato in toto la politica del New Deal, basata per l’appunto sul concetto di Forgotten Man (Uomo dimenticato), che Roosevelt stesso aveva citato nel suo discorso come uomo a cui la politica economica Usa avrebbe dovuto tornare a concentrarsi. Così Shlaes:
“Il vero problema dei New Dealers di sinistra non furono i rapporti con Mosca o col Partito comunista negli Stati Uniti, sempre ammesso che ne abbiano avuti. Il senatore McCarthy si sbagliava. Il vero problema fu l’ingenuità degli uomini di sinistra nel lasciarsi abbindolare dai risultati economici del collettivismo in stile sovietico o europeo, e il fatto che imposero quel collettivismo al loro stesso paese. La paura d’esser etichettati come cacciatori di rossi ha impedito per troppi anni agli storici d’analizzare l’influenza sovietica sulla politica interna americana negli anni trenta”.
Ancora Shlaes:
“Di fronte al collasso monetario e climatico, gli uomini e le donne d’America si sentirono incredibilmente impotenti. Ma il più serio guaio fu l’interventismo pubblico, la scarsa fiducia nel mercato”.
Così, nel presentare il New Deal italiano alla Camera, il ministro Savona ha risposto all’onorevole Renato Brunetta:
“Come l’onorevole Di Maio ha insistito molto sul ripetere ciò che fece Roosevelt, il mio convincimento è che l’esperimento è un poderoso sforzo di Italia unitaria e coincidenza di interessi fra la zona avanzata e quella arretrata, non certo culturalmente. Credo che Brunetta sappia che se la disputa è sui modelli econometrici non se ne esce fuori. C’è uno spazio di 50 miliardi e possiamo assorbirlo con una politica economica. Iniziamo a costruire un New Deal. Siamo coscienti delle riforme. Il programma è prudenziale. Nel programma gli investimenti si incrementano di 0,2% o,3% o,4% nel primo secondo e terzo anno. Può essere fatto. Falliremo? Ci giudicherete sul fatto politico. Io sono convinto che ce la faremo…”.