In questo clima estremamente delicato, i tre Paesi hanno l’occasione di prendere come punto di riferimento di crescita e sviluppo la Svezia. La quale, come commenta Sylvain Broyer, chief economist EMEA di S&P Global Ratings, “ha dimezzato il proprio debito pubblico al 37,5% del Pil nel 2007, rispetto al 69% del 1996, senza abbandonare il proprio modello sociale e senza frenare la crescita”. Non a caso, continua l’economista, negli ultimi 10 anni “la crescita media annua è stata mantenuta a oltre il 3%, non è caduta in recessione in nessun anno e ha registrato un aumento del 30% della produttività oraria del lavoro e dell’intensità del capitale”. Di conseguenza, il successo della Svezia a partire alla fine degli anni ’90 potrebbe fornire un “modello per una soluzione basata sull’applicazione di nuove normative di bilancio e sull’allocazione efficiente del risparmio privato”.
Senza un’adeguata attuazione dei cambiamenti strutturali necessari, gli investitori nazionali ed esteri potrebbero rinunciare ad investire in questi tre stati dell’eurozona, in quanto non più disposti a “trascurare i rischi associati a onerosi debiti sovrani”. Questa tendenza, prosegue S&P, farebbe scivolare tali paesi in un un ampliamento degli spread del debito “costringendo potenzialmente la Banca centrale europea a intervenire riprendendo il suo programma di acquisto di debito sovrano”.
Il valore del risparmio
Per S&P servirebbe dunque valorizzare i risparmi privata. Un’allocazione più efficiente a sostegno delle piccole e innovative realtà imprenditoriali garantirebbe una più sostenuta crescita sia della produttività che dello sviluppo tecnologico. “Le riforme economiche della Svezia” si spiega nel documento “sono nate dalla necessità in seguito allo scoppio di una bolla immobiliare”, che costrinse Stoccolma al salvataggio del sistema bancario tra il 1990 e il 1994, vivendo nel frattempo una recessione nel biennio 1991 – 1992, che portò il livello di disoccupazione al 12%. L’anno successivo, il 1993, iniziò la vera e propria risalita dell’economia svedese, grazie al sostegno della banca centrale del paese, la Riksbank, che tagliò i tassi di interesse di quasi 600 punti base fino al 1997, oltre all’adesione della Svezia al mercato unico europeo nel 1995.
Tuttavia, sottolinea S&P, “le basi per tale inversione di tendenza furono gettate con l’ambiziosa riforma delle finanze pubbliche svedesi e del suo sistema pensionistico”. In questo contesto “nel 1997 fu introdotto un tetto triennale alla spesa nominale del governo centrale, che fu completato, dal 2000, da un obiettivo di surplus di bilancio, inizialmente fissato al 2% del Pil (dal 2000 al 2007) e da allora abbassato”. Proprio tale surplus (spesso superiore all’1% del Pil) è riuscito a compensare la performance più debole registrata nei periodi difficili.
Riguardo la valorizzazione del risparmio, molto si lega alla riforma che negli anni ’90 dispose che una parte dei contributi pensionistici dovesse essere investita in fondi pensione, autorizzati a partecipare al sistema da un’authority creata ad hoc. I fondi pensione svedesi (occupando più del 30% in operazioni di private equity, otto volte più grande degli investimenti in PE nazionale da parte delle banche svedesi) hanno “contribuito a un aumento degli investimenti del settore privato pari a 4 punti del Pil svedese dal 1998” prosegue il documento, “mentre l’intensità di capitale dell’economia svedese è aumentata del 30%”.
Lo scenario italiano
La “ricetta svedese” farebbe comodo anche al nostro paese, in cui il
peso del debito pubblico sfiora i 3mila miliardi di euro: oltre 50 mila euro per ogni italiano, neonati compresi. Stando alle ultime rilevazioni della Banca d’Italia, ad agosto si è registrata una crescita di 11,9 miliardi rispetto al dato di luglio. Un aumento, sottolinea l’istituto “riconducibile a quello delle Amministrazioni centrali” cresciuto di 12,1 miliardi, mentre
“quello delle Amministrazioni locali e degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente invariato”.
In base ai
dati di dicembre della Covip (autorità di vigilanza sui fondi pensione) in Italia alla fine del 2023 le posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari sono
10,7 milioni, vale a dire il 4% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In base alle ultime novità relative al disegno di legge di bilancio 2024, si prevede l’introduzione di un piano per rafforzare la previdenza integrativa, a partire da una nuova fase di
“silenzio assenso” per destinare una quota del Tfr (trattamento di fine rapporto) dei lavoratori ai
fondi pensione. In modo tale da garantire un assegno pensionistico più sostanzioso al lavoratore e salvaguardare i patrimoni dalla morsa dell’inflazione.