Guerra valutaria al contrario per battere inflazione: Goldman Sachs presenta il nuovo paradigma per le banche centrali
Con l’inflazione che galoppa in tutto il mondo, le banche centrali delle economie colpite dalla fiammata dei prezzi si starebbero preparando a combattere una “guerra valutaria al contrario”, come l’ha già definita Goldman Sachs.
Le valute più forti sono infatti un ottimo strumento per ridurre i prezzi dei beni importati e ormai tutto, commodities in primis, costa di più. E se è vero che finora la Bce di Christine Lagarde e il numero uno della Fed Jerome Powell non hanno rilasciato alcun commento sulla necessità che le monete – rispettivamente euro e dollaro – si rafforzino, è pur vero che i rialzi che hanno interessato il mercato del forex non sono stati neanche ufficialmente contrastati.
“Il grande cambiamento è il non pensare più che l’apprezzamento delle valute sia indesiderabile – ha detto a Bloomberg George Cole, Head of European Rates Strategy di Goldman Sachs – E non mi sorprenderebbe se le banche centrali del G10 riconoscessero che una moneta forte potrebbe davvero essere vista con favore in questo ciclo di strette monetarie”.
Vale la pena ricordare che nel gruppo del G10 fanno parte il Belgio, la Francia, la Germania, l’Italia, l’Olanda (che, facendo parte dell’Eurozona, sono sottoposte alle decisioni della Bce), il Giappone (Bank of Japan), la Svezia (la banca centrale svedese è la Riksbank), la Svizzera (Swiss National Bank), il Regno Unito (Bank of England) e Stati Uniti (Federal Reserve).
Guerra valutaria al contrario: Goldman Sachs presenta il nuovo paradigma
In una nota ai clienti lo strategist di Goldman Sachs Cole e il collega Michael Cahill hanno fanno notare che, con la Fed pronta ad alzare i tassi in modo più aggressivo di quanto atteso in precedenza, le altre banche centrali cercheranno di tenere il passo per evitare che le rispettive valute si indeboliscano troppo nei confronti del dollaro Usa.
Questo “nuovo paradigma” , come lo definisce Goldman, di evitare che le monete si indeboliscano troppo, dovrebbe favorire l’euro, la corona svedese e il franco svizzero.
Già a dicembre Thomas Jordan, presidente della banca centrale svizzera SNB, aveva messo in evidenza come proprio la forza del franco svizzero avesse contribuito almeno a evitare che la Svizzera venisse colpita dalla fiammata dell’inflazione che ha visto invece come vittime l’Eurozona e gli Stati Uniti.
“Siamo riusciti a prevenire un aumento più forte dell’inflazione in Svizzera, consentendo un certo apprezzamento nominale (del franco), fattore che rende le importazioni più convenienti”. Anche il governatore della banca centrale della Polonia Adam Glapinski si è detto favorevole a uno zloty più forte che “sostenga le strette monetarie”, confermando il dietrofront che aveva visto l’istituzione intervenire contro i rialzi della moneta.
Proprio una guerra valutaria al contrario, insomma. Le eccezioni non mancano, anche in seno al G10: come quella del Giappone – tra l’altro proprio oggi il dato sull’inflazione ha confermato quella che è diventata una sorta di Mission Impossible – paese in cui il problema non è la troppa inflazione ma un’inflazione troppo bassa.
Tra l’altro proprio questa settimana il governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda ha rassicurato sul fatto che la debolezza dello yen non ha fatto aumentare poi di molto i costi delle importazioni.
La valuta giapponese si conferma quella che ha performato peggio tra quelle dei paesi del G10 a partire dal marzo del 2020 – ovvero dall’esplosione in tutto il mondo della pandemia Covid-19: da allora, stando ai dati di JP Morgan Chase, ha perso il 17% del suo valore – considerando gli aggiustamenti che tengono conto dell’inflazione – nei confronti delle monete dei principali partner commerciali del Giappone.
L’articolo di Bloomberg mette in ogni caso in rilievo che non in tutte le economie una valuta più forte riesce a contenere le pressioni inflazionistiche, in quanto molto dipende dai rispettivi panieri per l’inflazione e anche dalle dinamiche locali, rappresentate per esempio dal trend dei salari. Una moneta forte non avrebbe inoltre un grande impatto nel deprimere l’inflazione nel caso di quelle economie che fanno affidamento sui servizi domestici per espandere la loro crescita.
Priyanka Kishore di Oxford Economics ritiene che la questione sarà dibattuta in occasione della prossima riunione dei banchieri centrali e dei ministri delle finanze paesi del G20, che si concluderà con un comunicato previsto per la giornata di oggi.
Quando i funzionari si incontrarono l’ultima volta a ottobre, furono concordi nel definire “transitoria” l’inflazione: una definizione che è stata già da tempo sconfessata dal numero uno della Fed Jerome Powell e, in qualche modo, anche dalla presidente della Bce Christine Lagarde:
“Ci sarà probabilmente un dibattito sulle potenziali ricadute legate alla virata hawkish nei toni delle banche centrali in diverse economie, soprattutto alla luce del fatto che valute più deboli rappresentano una fonte aggiuntiva di inflazione importata“, ha detto Kishore.
Sempre più lontano si conferma quel momento – che risale di fatto a quasi 11 anni fa – in cui il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega accusò le nazioni più ricche di aver lanciato una guerra valutaria, tagliando i tassi di interesse al fine di far uscire le loro economie dalla recessione con valute più deboli che potessero sostenere le esportazioni.
Intanto, dal modello SHOK di Bloomberg Economics, emerge che un apprezzamento del dollaro pari a +10% su base trade-weighted basis (ponderato su base commerciale) che avvenisse nel secondo trimestre farebbe scendere l’inflazione Usa di 0,4 punti percentuali nei due trimestri successivi. L’effetto sarebbe lievemente maggiore nel caso dell’Eurozona, nel caso in cui l’euro salisse anch’esso del 10%.