De Benedetti: non rassegniamoci a un lento e insopportabile senso di declino

Pubblichiamo integralmente l’intervento tenuto oggi da Carlo De Benedetti all’Università Bocconi in occasione dell’inaugurazione della Cattedra intitolata al padre Rodolfo De Benedetti.
C’è un valore in cui credo più di altri. Quello dell’innovazione. E’ su questa capacità dell’uomo, un po’ magica, tra l’istinto e il genio, che prosperano le civiltà. Ed è un’attitudine, come ci ha insegnato Schumpeter, che è propria soprattutto dell’imprenditore.
Perciò oggi siamo qui. Perciò ho l’orgoglio, e un po’ di emozione, di inaugurare, nella più prestigiosa università italiana, una cattedra sull’imprenditorialità intitolata a mio padre Rodolfo.
“Noi industriali non calcoliamo. Al contrario impariamo a considerare le nostre idee veramente coronate dal successo come qualcosa che se la ride dei calcoli, un po’ come il successo dell’artista”, fa dire Robert Musil ad Arnheim, il grande borghese novecentesco che occupa le pagine dell’Uomo senza qualità. E il paragone con l’artista torna in Schumpeter: l’imprenditore è colui che mette in atto l’azione creatrice, che aggiunge qualcosa alla realtà, che pone i dati – cito dalla Teoria dello sviluppo economico – in nuovi contesti come fa il grande artista creatore con gli elementi artistici che ha a disposizione”.
L’imprenditore, dunque, come creatore, come agente di trasformazione della realtà, come grande innovatore. Per Bagehot è “il generale dell’esercito” che “fissa il piano delle operazioni”, per Sombart è “la forza motrice dell’economia”, nel “senso della creatività e della produttività”, senza di lui “nulla si muove”.
Miti otto-novecenteschi, qualcuno potrebbe dire. Miti della società borghese in ascesa. Sapori di casa Buddenbrook, cancellati e resi irriconoscibili dallo Stato burocratico, dall’impresa pubblica, dall’affermarsi in tempi più recenti di un capitalismo da grande impero asiatico.
E invece no. Guardate alla straordinaria eco che ha avuto in questi giorni la morte di Steve Jobs. In poche ore i media ne hanno fatto l’eroe dei nostri tempi. E chi è Jobs se non la riedizione in maglione e scarpe da ginnastica di quei grandi borghesi innovatori che trasformavano la realtà con la tecnologia delle macchine?
La rivoluzione informatica di fine Novecento ha riportato in auge quei miti lontani. Ha riconsacrato l’immagine dell’imprenditore innovatore, della forza creativa di chi impone con un pizzico di follia una propria idea al mondo.
E non è solo California.
In Brasile, in India, in Messico, nella stessa Russia ho conosciuto uomini di impresa in grado di trasformare la realtà di quei Paesi con il proprio talento imprenditoriale come e più di quei primi imprenditori del nostro mondo occidentale. Oggi come ieri, l’innovazione imprenditoriale, e la capacità di taluni individui di metterla in atto, è il più forte elemento di trasformazione delle nostre realtà.
Ma l’imprenditore – questo è un punto cruciale sul quale voglio soffermarmi – non è un John Wayne che galoppa solitario e spavaldo nella prateria, confidando solo nel proprio istinto e nella propria colt. C’è qualcosa di meno titanico e forse un po’ più serio nel suo agire.
Mi fa piacere citare a questo proposito un antesignano italiano di Schumpeter: il Melchiorre Gioja del “Nuovo prospetto delle scienze economiche”.
Sentitelo: “L’intreprenditore deve conoscere i dettagli e l’unione delle operazioni, le forze dell’uomo e delle macchine, i metodi più spediti e le materie più economiche, i tempi più favorevoli e più contrari ai lavori, il corso ordinario della sua impresa e i casi eventuali, i danni che possano essere cagionati dalla malizia e dall’inerzia, la precauzione per prevenirli e gli ostacoli che si oppongono”.
La visione eroica va qui davvero in secondo piano. C’è invece la serietà, la costanza nell’applicazione, lo studio della realtà.
Lo studio, sottolineo.
Lo spirito imprenditoriale ha sicuramente una componente di istinto e di genio, è poi anche il risultato di una fitta trama di valori e dell’educazione familiare, ma il principio che ordina tutte queste variabili è in ultima istanza rappresentato dai percorsi di istruzione e formazione. E questo è tanto più vero oggi, con un mondo della produzione sempre più globale, articolato, complesso. Un mondo dove la specializzazione e le conoscenze tecniche sono spesso l’unica strada per vincere la sfida dei mercati.
Per questo credo fortemente nell’iniziativa che oggi presentiamo.
Ci troviamo in un’istituzione che rappresenta un luogo privilegiato, una punta d’eccellenza della capacità del nostro Paese di formare una classe dirigente, fatta di professionisti estremamente preparati ad affrontare le sfide che i mercati mondiali e la congiuntura economica impongono. E questo la rende un luogo eccezionale per l’avvio di un progetto che sia in grado di consegnare all’Italia un contributo sostanziale nella formazione di una rinnovata voglia di fare impresa.
Alimentare una nuova classe di imprenditori oggi in Italia significa contribuire in modo sostanziale a quel rilancio economico di cui abbiamo bisogno. Perché lo spirito imprenditoriale è volano di crescita e di competitività.
Il nostro paese, oggi, nelle statistiche dell’Unione europea, è indicato tra quelli dove è più difficile intraprendere un’attività imprenditoriale. Siamo in fondo alle classifiche dei Paesi che attraggono gli investimenti stranieri. Viviamo in una realtà dove si fa sempre più fatica a immaginare la propria carriera professionale come “self employed”.
Non possiamo sorprenderci, allora, se cresciamo meno degli altri, se il Pil pro-capite è tornato ai livelli del ’99 ed è calato al 93% della media UE dal 99% nel 2007 e dal 106% nel 1991, se in termini di competitività abbiamo perso 33 punti in 15 anni rispetto alla Germania, se la nostra produzione industriale in questi anni è calata rispetto ai massimi del 17 per cento, contro l’1 della Germania, il 9,8 della Francia, l’8,9 del Regno Unito.
Sono tante le ragioni di questo declino. E la prima è una politica debole che non riesce a fare le grandi riforme di cui questo Paese ha bisogno. Una politica timorosa, che non sa guardare oltre il tornaconto elettorale suggerito da questo o quel sondaggio e rinvia ogni decisione per non scontentare nessuno.
Io resto convinto che, anche nella nostra vecchia Europa, i governi possano fare molto per aiutare i paesi a riprendere la via dello sviluppo.
Ad esempio con riforme come l’aumento dell’età pensionabile, lo spostamento del peso fiscale dal lavoro e dall’impresa ai patrimoni, la liberalizzazione degli ordini professionali.
Ma anche la creazione di un ambiente più favorevole all’affermarsi dello spirito imprenditoriale è un asset essenziale per lo sviluppo: abbattendo per esempio la burocrazia che oggi si impone come una vera e propria barriera all’ingresso per le nuove imprese oppure investendo appunto in formazione economica e d’impresa.
Non si tratta solo di favorire la crescita economica, si tratta di alimentare in modo sostanziale il progresso sociale e morale di una nazione e di un continente. Non è un caso se l’Unione europea ha più volte riconosciuto l’importanza che l’imprenditorialità riveste nella definizione stessa dell’Europa.
Una prova evidente di questo apporto non solo economico è quello straordinario laboratorio che è stato la Olivetti di Ivrea, in cui ho avuto l’onore di essere tra gli interpreti della visione di Adriano Olivetti. Un’utopia, secondo alcuni.
Un progetto d’impresa vincente, secondo me, ancor oggi innovativo, capace di coniugare valore sociale e produzione, capace – cito solo un dato – di far crescere in poco più di un decennio la produttività del 500% e il volume delle vendite del 1300%.
Tempi lontani. Tempi in cui l’Italia, con i suoi imprenditori, riscopriva il suo sentirs