A spasso per Wall Street – 2^ puntata
Capelli lunghi e basette fuori ordinanza per il cuore finanziario della Grande Mela, ma perfette per quegli anni 70. Non poteva essere che lui. Steve e io eravamo stati compagni di stanza alla Columbia. Terminati gli studi lui aveva scelto una strada inusuale per uno spirito libero del suo stampo.
Da alcuni anni lavorava alla Advanced Research Projects Agency (ARPA), un’agenzia alle dirette dipendenze del Segretario alla Difesa e la sua casuale presenza in città era una buona occasione per un boccone tra vecchi amici. Steve mi raccontò che in quelle settimane tutti gli sforzi del suo team di lavoro erano rivolti alla creazione di un sistema di comunicazione in grado di funzionare anche in caso di attacco atomico (si era in piena guerra fredda) basato sulla costituzione di numerosi nodi da cui i dati spezzettati in pacchetti potevano essere trasmessi per linea diretta o in caso di bisogno attraverso il passaggio per più nodi.
Erano gli albori di internet, una realtà che sarebbe entrata nella nostra vita con una pervasività inimmaginabile. Protagonisti di questa ascesa sono stati i motori di ricerca e su tutti Google, ormai una presenza quotidiana, tanto che non si dice più cerco una cosa in internet ma su Google.
Va bene, nelle ultime settimane Google ha ripreso quota 500 avvicinandosi ai 513 dollari del massimo di sempre toccato a gennaio scorso. Percorrendo a ritroso il grafico storico del titolo del numero dei motori di ricerca si osserva però una sostanziale lateralità a partire dal novembre 2006 in una banda compresa tra i 440 e i 500 dollari. Insomma una dinamica ben diversa da quella che fino a tale data ha caratterizzato la storia borsistica di Google dal giorno del collocamento (19 agosto 2004 a 85 dollari), ma anche da quella degli indici Dow Jones e S&P500 nello stesso periodo di tempo.
Chi oggi vede quota 1000 dimentica la dura realtà del ciclo di vita di un prodotto e di una azienda e le sue quattro fasi: introduzione, crescita, maturità e declino. Google non può essere paragonata a una donna che ha superato gli anta, ma comincia forse a entrare in una fase di maturità, anche se ciò non vuol per forza dire che il titolo non potrà fare bene anche da qui in avanti.
Per forza di cose i multipli di crescita per un’azienda delle dimensioni odierne di Google non possono comunque essere strabilianti come in passato. E questo nonostante la società sia gestita molto bene, si stia espandendo in settori diversi e sia oggi il leader incontrastato della ricerca e della pubblicità online. Basta fare una semplice considerazione: è nettamente più probabile per un’azienda di piccole dimensioni o addirittura in fase di startup realizzare tassi di crescita a doppia cifra di quanto lo sia per una società già consolidata. La prima parte da utili spesso inesistenti, la seconda, nel caso specifico Google, ha chiuso l’ultimo trimestre con profitti per un miliardo di dollari. Un’altra conseguenza di questo processo è che a un minore tasso di crescita si affianca tipicamente una minore propensione da parte degli investitori a pagare multipli elevati. Fin qui il buon senso, quello che quasi tre anni fa tenne lontano dal collocamento della società di Mountain View investitori del calibro di Warren Buffett. Per chi ci ha creduto invece non è andata male: 100 dollari investiti su Google in fase di Ipo oggi sarebbero 588. Perchè però voler sfidare ancora una volta la dea bendata?