Rimanere investiti nelle Big Oil per accompagnare la loro svolta ambientalista e ottenere rendimenti interessanti?
Possedere azioni legate al petrolio non è certo popolare di questi tempi, per ovvie ragioni ambientali. Né è stato particolarmente remunerativo negli ultimi anni. Lo si legge nel report a cura di Fabrizio Quirighetti, CIO e Head of Multi-Asset di DECALIA, che si chiede: se le ottime performance del settore nel 2021 fossero più di un semplice riflesso del rimbalzo post-pandemia del prezzo del greggio e l’impact investing fosse un’opzione migliore del disinvestimento?
“Le pressioni sulle grandi compagnie petrolifere provengono da molti fronti: i governi (ora compresa l’amministrazione USA) con il loro obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050, gli attivisti ambientali, i fondi pensione, il grande pubblico e persino i tribunali”. L’attacco alle Big Oil, si legge nel report, “è certamente una scelta semplice e popolare ma non necessariamente il modo migliore per salvare il nostro pianeta.
Naturalmente, l’abbandono dei combustibili fossili è vitale per il pianeta, ma è una transizione che durerà diversi anni e richiederà anche significativi cambiamenti nei modelli di consumo. Nel frattempo, la domanda di petrolio rimarrà e vi sono molti grandi produttori non quotati, spesso attivi in Paesi dove il cambiamento climatico e gli aspetti ESG hanno un peso molto minore, che la soddisferanno prontamente”.
L’impatto sulle società quotate
“Anche per quanto riguarda le società quotate, limitarsi a liquidare le loro azioni significa metterle nelle mani di altri investitori, forse meno ben intenzionati” scrive Quirighetti. “È vero, renderebbe più difficile per le grandi compagnie petrolifere ottenere nuovi finanziamenti sui mercati azionari e potrebbe anche aumentare il costo del debito”. Ma quanto valgono questi ragionamenti data la quantità di denaro che generano?
Secondo Quirighetti bisogna anche riconoscere gli sforzi fatti dalle società energetiche per limitare il loro impatto ambientale, sia diretti (eliminazione delle proprie emissioni di gas serra), che indiretti (riduzione della concentrazione di carbone nei combustibili fossili che producono). “Forse, e solo forse, le Big Oil possono essere parte della soluzione”.
Il grafico seguente, elaborato da DECALIA, mostra gli investimenti in Energie Pulite da parte di compagnie petrolifere selezionate ($mld)
Europa vs Usa nelle rinnovabili
In Europa, si legge nel report, “i produttori stanno destinando grandi somme di denaro alle fonti di energia alternativa (eolica e solare) nonché ad opportunità emergenti come la cattura del carbonio o l’idrogeno verde. Royal Dutch Shell, Total, BP ed Equinor sono oggi tutte allineate all’obiettivo zero emissioni nel 2050. Aker BP, una piccola azienda indipendente di esplorazione e produzione attiva sulla piattaforma continentale norvegese, è senza dubbio ancora più avanzata nella transizione, con un livello di emissioni pari a meno di un terzo dell’industria globale”.
Secondo Quirighetti, “Le controparti americane, Exxon Mobil e Chevron in particolare, sono indubbiamente più indietro. Pur avendo anch’esse annunciato piani per ridurre le loro emissioni di CO2, nessuna delle due ha preso l’impegno di raggiungere lo zero netto. Né hanno dichiarato di partecipare a progetti solari o eolici su larga scala. Tuttavia, vi sono altre aziende statunitensi più coinvolte nella necessaria transizione energetica, ad esempio Occidental Petroleum nel campo della cattura del carbonio”.
In definitiva, si legge nel report, “gli investitori che scelgono semplicemente di ignorare il settore petrolifero possono essere colpevoli di un grave errore di valutazione. Restando coinvolti, gli azionisti hanno più peso e potere per guidare concretamente il cambiamento. E potrebbero anche trovarlo finanziariamente premiante”.
Il grafico seguente, elaborato da DECALIA, mostra le grandi compagnie petrolifere che espandono le opzioni di energia pulita Obiettivo di Capacità Rinnovabile (in GW)