Notizie Valute e materie prime Un pallido oro nero

Un pallido oro nero

12 Gennaio 2007 10:38

Da tempo non lo vedevamo così debole. Precisamente dall’inizio di giugno 2005 quando un barile di petrolio veniva scambiato, a New York, nei dintorni di area 53 dollari. La stessa zona di prezzo nei pressi della quale l’oro nero è scivolato negli ultimi giorni con un minimo a 52,94 dollari. Tuttavia, mentre un anno e sette mesi orsono il barile di greggio si preparava a vivere un’estate rovente che lo avrebbe portato a sfiorare i 71 dollari, le condizioni in cui ci si trova oggi appaiono differenti. Non c’è nessuna estate rovente alle porte ma piuttosto un mite inverno che ha fatto seguito a un’estate povera di uragani e al quale viene imputata parte della debolezza che non permette al barile di abbandonare i bassifondi sui quali sembra essersi arenato. Inoltre, a differenza di quanto accadeva nel 2005, le quotazioni attuali fanno seguito a una discesa iniziata dai massimi di luglio e che è valsa un ribasso supriore ai 32 punti percentuali.


Parimenti sono cambiate le domande che analisti di mercato, esperti di settore, investitori e semplici automobilisti si pongono. Non più dove il petrolio potrebbe fermare la sua corsa ma se l’attuale fase correttiva sia destinata a durare e quanto e ad approfondirsi ulteriormente. La prima questione non è stata in ogni caso dimenticata ma temporaneamente messa nel cassetto.
Il problema di fondo, cioè l’inadeguatezza dell’offerta a tenere il passo della crescita della domanda, non sembra risolvibile nel breve periodo a prescindere da dove si voglia collocare il cosiddetto “picco” globale della produzione di petrolio. Lo sanno bene i governi delle varie nazioni che cercano di correre ai ripari svluppando energie alternative il cui contributo percentuale al consumo globale di energia appare però ancora molto limitato e lo sarà altrettanto nel prossimo futuro. La correzione del petrolio è dunque destinata a finire, questo è chiaro, e il periodo più gettonato per rivedere l’oro nero prendere quota è la “driving season” statunitense, ossia la stagione primavera-estate, se non altro tenendo conto di quanto avvenuto negli anni passati. Nel frattempo la discesa potrebbe estendersi ancora un po’ con qualche reazione al rialzo dettata da motivazioni per la gran parte di natura tecnica.
Osservando le condizioni di mercato attuali è però difficilmente ipotizzabile che il petrolio torni a costare meno di 50 dollari al barile. A fare da sbarramento alla direttrice ribassista ci sono infatti alcuni elementi di cui non si può non tenere conto. L’Opec in primo luogo. L’Organizzazione dei Paesi produttori ha cercato di correre ai ripari per arginare la discesa dei prezzi già nell’ottobre dello scorso anno, annunciando un taglio produttivo pari a 1,2 milioni di barili al giorno a partire dal novembre. Decisione che non ha sortito effetti più che temporanei anche per la scarsa adesione registrata in sede di implementazione.


Il cartello sa però di non poter pemettersi di lasciare il pallino del gioco completamente in mano a speculazione e capricci climatici e di perdere credibilità riguardo la sua capacità di influire sul prezzo dell’oro nero. Per tale motivo il taglio produttivo (500.000 barili al giorno) previsto per febbraio e anticipato all’immediato avrà maggiori possibilità di fronteggiare il calo dei prezzi. Esiste un altro elemento che giocherà contro ulteriori forti indebolimenti. Le scorte di petrolio Usa in diminuzione ormai da qualche settimana, fattore finora ignorato dal mercato ma che arriverà a presentare il proprio conto, magari nel momento in cui la speculazione deciderà di tornare in forze ad acquistare. Momento propizio, ancora una volta, sarà l’avvicinarsi della stagione estiva e allora torneranno a farsi sentire gli innumerevoli minishock petroliferi che negli ultimi anni hanno contribuito ciascuno con la sua spinta a portare i prezzi verso livelli record, dalle tensioni internazionali all’attesa degli uragani estivi.