Inflazione Usa sorprende ad aprile: Cpi frena al 2,3%. Le stime su tassi Fed

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Sorpresa inflazione negli Stati Uniti in frenata più delle attese ad aprile nonostante gli annunci di Donald Trump del Liberation day. Nel dettaglio, i prezzi al consumo hanno registrato un aumento dello 0,2% rispetto al mese precedente e rispetto alle previsioni degli analisti che indicavano un rialzo dello 0,3%. Si tratta di una prima fotografia dell’impatto della guerra commerciale sui prezzi negli Usa.
C’è chi però invita alla cautela, indicando che potrebbe essere “troppo presto per giudicare l’impatto inflazionistico delle nuove tariffe”.
Ma vediamo nel dettaglio il dato di oggi e le prospettive sui tassi Fed dopo la distensione commerciale tra Usa e Cina.
L’inflazione Usa: i numeri di aprile
Stando ai dati appena diffusi dal U.S. Bureau of Labor Statistics, l’indice dei prezzi al consumo ha mostrato un aumento congiunturale dello 0,2% ad aprile rispetto a marzo, sia nella componente headline sia nel dato core (rispettivamente -0,1% e +0,1% il mese scorso). Su base annua, l’inflazione è cresciuta meno delle attese al 2,3% per l’indice complessivo e al 2,8% per la versione core (ossia al netto dei prezzi alimentari ed energetici, esclusi dal calcolo dell’inflazione di fondo in quanto più volatili). Il mercato si attendeva un Cpi stabile al 2,4% su base annua.
Adesso, il mercato attende la pubblicazione dell’indice alla produzione (Ppi) per il mese di aprile in uscita giovedì 15 maggio e il Pce Core (previsto per fine maggio, il 30) per avere un quadro più completo sull’andamento dei prezzi.
Una frenata che regala un sospiro di sollievo per la Fed? La view di Goldman Sachs AM
“L’ampio ventaglio di previsioni emerse prima della pubblicazione del dato CPI di oggi evidenzia quanto sia difficile per gli operatori di mercato prezzare l’elevato livello di incertezza che grava su imprese e consumatori. Prima della diffusione del dato abbiamo monitorato attentamente i dati per ricercare i primi segnali dell’impatto dei dazi sull’inflazione, concentrandoci in particolare sulla dinamica dei prezzi dei beni rispetto al calo della domanda per alcuni servizi, come i viaggi”, sottolinea Alexandra Wilson-Elizondo, global co-head and co-chief investment officer of Multi-Asset Solutions di Goldman Sachs Asset Management.
“Il dato finale dell’inflazione CPI, pari al 2,3% su base annua, rappresenta probabilmente un sollievo per la Federal Reserve – prosegue -. Tuttavia, gli aggiustamenti di prezzo più consistenti legati ai dazi dovrebbero manifestarsi nei prossimi mesi. Per questo, continuiamo ad attenderci un atteggiamento attendista da parte della Fed nel breve periodo, con mercati guidati dalle notizie relative alle trattative e ai compromessi politici”.
Alexandra Wilson-Elizondo si sofferma nella sua analisi anche sul prezzo del petrolio. “Sebbene molti investitori siano ottimisti riguardo agli effetti positivi della sua discesa sull’inflazione, tali benefici vengono in gran parte compensati dall’indebolimento del dollaro, che rende più costose le importazioni – argomenta -. Considerando questi elementi, i movimenti di queste due asset class dal “Liberation Day” si sono effettivamente compensati dal punto di vista dell’inflazione core””.
eToro: troppo presto per giudicare l’impatto inflazionistico delle nuove tariffe
Lale Akoner, Global market analyst di eToro, invita però alla cautela. Il rapporto CPI di aprile è risultato più morbido del previsto, ma non siamo pronti a definirlo un punto di svolta. A nostro avviso, spiega l’analista, è ancora troppo presto per giudicare l’impatto inflazionistico delle nuove tariffe. Il modesto passaggio di aprile riflette probabilmente lo smaltimento delle scorte pre-dazi, più che la mancanza di potere da parte delle aziende di andare ad aumentare i prezzi al dettaglio. E avverte: “Questo cuscinetto potrebbe non durare. Nei prossimi mesi avremo un quadro più chiaro per capire se i dazi si ripercuoteranno sui prezzi al consumo o se innescheranno effetti di sostituzione, e se le tensioni commerciali finiranno per colpire la crescita più duramente dell’inflazione”.
Secondo Lale Akoner, per ora, questo quadro misto convalida l’atteggiamento cauto della Fed. Non c’è urgenza di tagliare, ma non c’è nemmeno un chiaro motivo per stringere. I mercati potrebbero rallegrarsi per la stampa più morbida, ma riteniamo che le prospettive dell’inflazione rimangano incerte.
Disgelo Cina- Usa su dazi, l’impatto su tagli tassi Fed
Oltre ai report sui prezzi, sarà importante monitorare l’andamento del mercato del lavoro e in particolare il tasso di disoccupazione.
Nelle ultime sedute gli operatori hanno sensibilmente ridotto le aspettative sui tagli dei tassi nel corso del 2025. Ora una riduzione entro luglio viene prezzata con una probabilità intorno al 40%, rispetto al 100% di una settimana fa e il primo taglio viene scontato soltanto a settembre.
A tenere banco è il disgelo tra Stati Uniti e Cina in tema dazi. E all’indomani dell’annuncio ufficiale delle due potenze, nel report dal titolo “China trade war de-escalation: Running it back” gli analisti di Barclays guardano alle prospettive dell’economia Usa e di conseguenza alle prossime mosse della Federal Reserve (Fed).
“A seguito della notizia di una significativa de-escalation del conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina, prevediamo un balzo dell’inflazione meno significativo e non ci attendiamo una recessione. Il nostro scenario di riferimento aggiornato prevede che la Fed taglierà il tasso di riferimento di soli 25 punti base quest’anno, a dicembre, seguito da tre tagli da 25 punti base l’anno prossimo“.
Utile per un confronto ricordare che il precedente scenario di riferimento di Barclays prevedeva due tagli da 25 punti base nel corso dell’anno (a luglio e settembre), partendo dal presupposto che il FOMC avrebbe adottato un approccio equilibrato che ponesse l’accento sia sull’inflazione superiore al target sia sull’indebolimento del mercato del lavoro.