Flessibilità: in Italia fa male ed è fatta male (SDA Bocconi)
Non solo in Italia viene intesa male, ma risulta anche penalizzante per i lavoratori. È la flessibilità secondo l’osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi, che ha condotto un grande studio pilota sulla totalità della popolazione aziendale (decine di migliaia di posizioni) di una grande impresa italiana capillarmente diffusa sul territorio, nel periodo 2007-2010. Lo studio mostra come all’estero i contratti di lavoro flessibili non rappresentino un ostacolo per la carriera. Nel nostro Paese, invece, sostanzialmente lavoro flessibile è sinonimo di “precario”, e spesso coincide con le sole forme di telelavoro e part time, con la chiara finalità di rappresentare un basso costo per l’azienda. Non si tratta, quindi, di lavoratori da premiare con particolari benefit o valutazioni positive. All’estero, invece, questo tipo di differenze non sono rilevanti, perché il metro del lavoro non è il tempo trascorso nella sede lavorativa bensì il risultato comunque raggiunto.
Ecco perché in Italia il lavoratore flessibile risulta penalizzato: “Scegliere il part-time significa dimezzare la possibilità di ricevere, a fine anno, le più alte valutazioni (4 e 5 in una scala da 1 a 5), ridurre di sette volte la possibilità di fare una carriera davvero brillante (con due o più passaggi di livello in quattro anni) e guadagnare meno denaro con gli incentivi economici e i bonus non automatici”, sintetizza Renata Trinca Colonel, ricercatrice del team.
Dalla rilevazione, che confronta i lavoratori con inquadramento full-time e quelli part-time, risulta che la valutazione di fine anno dei lavoratori part-time è inferiore a quella dei full-time in modo statisticamente significativo. Se la differenza media, in una scala che va da 1 (parzialmente inadeguato) a 5 (eccellente), può sembrare piccola (3,62 contro 3,84), essa si traduce comunque in una possibilità dimezzata di ricevere una delle due valutazioni più alte, ottenute dal 21,5% dei lavoratori full-time e dal 10,5% dei part-time.
La penalizzazione è ancora più evidente in termini di passaggi di livello contrattuale: l’88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno nei quattro anni considerati dalla ricerca, contro il 72,7% dei full-time. I fortunati che hanno fatto due o più salti di livello sono il 5,7% dei full-time e lo 0,8% di quelli part-time (la possibilità si riduce, in altri termini, di sette volte).
Infine, pur non rendendo pubbliche le cifre, la ricerca evidenzia che anche gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello (ovvero incentivi economici e bonus non automatici) sono attribuiti di preferenza ai lavoratori full-time.