Commodity: prezzi ai minimi dal 2002, è iniziata la “capitolazione”
Il “superciclo” è finito, per le materie prime è iniziata la “capitolazione”. Questa la conclusione cui è giunto Michael Hartnett, analista di Bank of America Merrill Lynch. Nell’ultima settimana i deflussi dal comparto delle materie prime hanno fatto segnare i massimi degli ultimi tre mesi e, più in generale, i disinvestimenti dai mercati emergenti in due settimane si sono attestati a 10 miliardi di dollari. Su queste basi Hartnett rileva che la “capitolazione” sta riguardando “mercati emergenti, risorse e commodity”.
Si tratta di un movimento iniziato ormai da tre anni che nelle ultime sedute ha spinto i prezzi del comparto a livelli che non si vedevano dal 2002. L’oro ha azzerato metà dei guadagni registrati negli ultimi 12 anni (tra il 1999 e il 2011 i prezzi sono passati da 250 a 1.920 dollari l’oncia) e, per quanto riguarda il petrolio, il Wti in un mese è sceso di oltre il 20% e il Brent segna un -16%. Minimi pluriennali anche per argento, platino e per diversi metalli industriali, tra cui rame e alluminio. Con il metallo rosso sceso sotto la soglia dei 5.200 dollari la tonnellata, Goldman Sachs ha detto di attendersi “4.500 dollari entro la fine del 2016, -20% sotto i prezzi a pronti e oltre il 30% al di sotto del consenso”. Secondo la banca newyorkese, per rivedere i prezzi in quota 5.500 dollari la tonnellata sarà necessario attendere il 2020.
Tre, tra gli altri, i fattori che contribuendo a spingere al ribasso il comparto delle materie prime. In prima fila c’è il dollaro, divisa in cui le commodity sono denominate. L’approssimarsi del processo di normalizzazione del costo del denaro statunitense, è probabile che il primo rialzo dei tassi venga annunciato a settembre, sta favorendo il biglietto verde e indebolendo i corsi delle commodity (più care per gli acquirenti non statunitensi).
In secondo luogo troviamo Pechino. Le ultime indicazioni in arrivo dal dragone, l’indice di fiducia dei direttori degli acquisti del manifatturiero a luglio si è confermato sotto la soglia dei 50 punti (che fa da spartiacque tra espansione e recessione dell’attività economica) scendendo è sceso ai minimi da 15 mesi, rendono sempre più difficile il raggiungimento del target di crescita del 7%. Di conseguenza, la domanda cinese, che una volta si credeva potesse crescere all’infinito, inizia a segnare il passo.
C’è poi l’eccesso di offerta. L’esplosione dei prezzi registrato tra la fine degli anni ’90 e il 2008 (+1.062% per il greggio, +500% del rame e +240% per il granoturco) ha spinto gli investimenti nel comparto favorendo il balzo dell’output di praticamente tutte le materie prime. Oggi questo eccesso di offerta tende ad amplificare i ribassi dei prezzi.
Emblematico è il caso del greggio, la cui offerta è esplosa in scia del boom dello shale oil statunitense. Chi, come l’Opec, ha puntato sul calo dei prezzi per tagliare le gambe all’industria estrattiva “non convenzionale” non ha fatto bene i conti (o per lo meno ha sottovalutato i tempi di realizzazione di un simile progetto): la scorsa settimana le compagnie statunitensi hanno rimesso in funzione 21 trivelle, un balzo che non si vedeva da oltre un anno.