Come la guerra dei dazi influenza l’S&P500 nel breve
La variabile che in questa fase di mercato preoccupa maggiormente gli investitori è il cosiddetto trade deal, la guerra commerciale contro la Cina cominciata dal presidente americano Donald Trump nei primi mesi del 2018. Secondo il team di ricerca di Marzotto Investment House, alla base della disputa tra i due paesi ci sono molte questioni complesse che hanno un’origine decennale e che molti presidenti americani avevano già cercato di affrontare in passato senza apparenti successi. Ufficialmente, la disputa nasce dall’enorme divario commerciale che gli Stati Uniti hanno nei confronti della Cina.
Come possiamo vedere dal grafico, il deficit verso la Cina è progressivamente aumentato negli anni, con una vera e propria accelerazione intorno all’anno 2000, in concomitanza con l’apertura al mercato dell’economia cinese. Nel 2018, dopo qualche anno di stabilizzazione, lo sbilancio ha registrato un peggioramento preoccupante anche per un’economia come quella statunitense.
Sta funzionando la guerra commerciale?
La risposta è “in parte si”, perché se osserviamo la riduzione del gap del primo trimestre (a fronte tuttavia di un deficit record nel 2018), è evidente che nel brevissimo termine i numeri danno ragione al presidente Trump. Nondimeno, la Cina ha risposto svalutando la propria valuta stabilizzandola nuovamente solo quando sono cominciati colloqui bilaterali per affrontare la questione. Nel caso non si dovesse arrivare ad un accordo, la Cina indebolirebbe ulteriormente la valuta vanificando in parte le tariffe. Non dimentichiamo infine che la banca centrale cinese ha enormi riserve di dollari detenute in titoli di stato statunitensi. Nel caso questi titoli dovessero finire sul mercato, ci sarebbe un immediato aumento dei tassi di interesse statunitensi che impatterebbe negativamente sulla crescita.
Perché il mercato non vuole una guerra commerciale, ovvero dazi e tariffe su diverse categorie merceologiche?
Il mercato sa benissimo, lo insegna la storia da almeno dieci secoli, che le guerre commerciali rallentano il commercio. Se rallenta il commercio internazionale, sebbene con tempistiche e modalità differenti finiscono poi per rallentare anche i consumi e i movimenti di capitale, con la probabile conseguenza di generare effetti recessivi nelle economie maggiormente coinvolte. Inoltre, se da un lato dazi e tariffe avvantaggerebbero il PIL statunitense perchè il minore disequilibrio con la Cina sarebbe da aggiungere al PIL – la cui formula è PIL = Consumi + Investimenti + Spesa pubblica + (Export-Import) -, ci sarebbe comunque un impatto negativo per le aziende statunitensi che producono fuori in outsourcing e, per i consumatori che pagherebbero di più i beni che attualmente acquistano dalla Cina. Senza ovviamente tenere conto delle possibili ripercussioni della Cina che potrebbero essere di diversa misura.
È ragionevole quindi che l’incertezza circa l’esito dei negoziati preoccupi il mercato, soprattutto a fronte di un trend rialzista che per l’S&P500 e gli altri indici azionari dura oramai dal 2009.
Il violento calo che aveva portato nel dicembre 2018 l’S&P500 quasi a $2300 era dipeso da una FED impegnata in una politica monetaria sempre meno accomodante, ma anche dai timori della guerra commerciale con la Cina. Per converso il successivo rialzo che ha riportato l’indice ben sopra $2900 è dipeso da una FED più accomodante ma anche da un ottimismo, inizialmente cauto poi più deciso, sul raggiungimento di un accordo. Entrambe le parti sanno perfettamente che un accordo è fondamentale per mantenere le performance fino a qui realizzate nel 2019 dai rispettivi indici azionari, oltre che per mantenere anche nei prossimi trimestri un mood positivo sugli utili aziendali e i consumi.
Due rischi
Dal punto di vista dei mercati non crediamo che la guerra dei dazi sia già scontata dell’S&P500, tornato nuovamente sui massimi assoluti. Viceversa l’Europa è stata maggiormente penalizzata, come abbiamo visto con il crollo di alcuni settori sensibili tra cui l’Automotive. Un deal è a nostro avviso possibile, anzi probabile, dovesse limitarsi ad un impegno della Cina a comprare beni statunitensi, in tal caso Cina ne approfitterebbe per aumentare le riserve strategiche delle principali commodities prodotte negli Stati Uniti, accontentando nello stesso tempo la controparte. In sintesi la “vera questione” tra Stati Uniti e Cina potrebbe essere molto complessa e in questo caso difficilmente sarebbe risolta in pochi mesi. Trump tuttavia si è esposto con l’elettorato e difficilmente farà marcia indietro. I rischi sono perciò due:
- il primo è che il mercato si stanchi e prenda almeno parzialmente profitto;
- il secondo è che i timori di un allargamento della guerra commerciale possano rallentare la crescita economica, anche in questo caso il mercato venderebbe.
Infine, c’è la possibilità di un light deal. In questo caso probabilmente il mercato avrebbe qualche spunto rialzista ma poi potrebbero ricominciare i timori di un accordo solo temporaneo. Analizzando i pro e i contro della questione, forse il mercato dovrebbe davvero cominciare a domandarsi seriamente se i livelli raggiunti dagli indici statunitensi siano congrui o meno.