Bolla verde: la corsa alle emissioni green e il fenomeno dei ‘transition bond’
Cresce senza freni il mercato dei green bond. Le obbligazioni verdi, destinate a finanziare la realizzazione di progetti economicamente sostenibili a difesa dell’ambiente attraggono sempre di più l’attenzione degli investitori internazionali, oggi decisamente più sensibili rispetto al passato ai temi ecologici e ambientali. Finora, in tutto il mondo sono stati emessi green bond per circa 600 miliardi e solo quest’anno si prevede ne verranno collocati altri 200.
Così sembra che tutto ciò che è green fa bene e per gli emittenti collocare obbligazioni verdi è quasi diventato un must se non si vuole rischiare di pagare troppo caro il denaro. La domanda di green bond, infatti, sempre più sostenuta dal clima internazionale che spinge verso la realizzazione di un modello economico nuovo, meno inquinante e de-carbonizzato favorisce gli emittenti che possono spuntare rendimenti più bassi in offerta. Al punto che anche le banche e le industrie notoriamente più inquinanti hanno capito che conviene puntare in questa direzione facendo provvista in tal senso e destinando i proventi al finanziamento di progetti green.
I transition bond, cosa sono
Si parla in questo caso di transition bond, termine di nuova coniazione del mercato finanziario, cioè obbligazioni che non si possono definire proprio verdi e che si trovano a metà strada fra i bond tradizionali e quelli green. L’esempio più noto è quello di Uniliver che nel 2014 emise un prestito obbligazionario con lo scopo di raccogliere fondi per ridurre l’impatto ambientale delle proprie attività come le emissioni, la quantità di acqua utilizzata e i rifiuti prodotti. La multinazionale olandese tentò di fare rientrare questo bond nella cornice dei green bond, ma senza successo. Si parlò quindi per la prima volta di transition bond. Dopo il caso di Uniliver ne seguirono altri, come il mega bond di Danone da 6,2 miliardi di euro emesso in diverse tranches nel 2016 con la finalità di acquisire la società WhiteWave Foods, azienda produttrice di cibo e bevande biologici di origine vegetale. Degno di nota anche quello più recente collocato dalla brasiliana Marfig Global Food, una delle aziende più inquinanti al mondo in termini di produzione di Co2, per garantire che le proprie forniture di bestiame in Amazzonia prevengano la deforestazione ed eliminino dalla filiera ogni forma di lavoro forzato.
Il difficile passaggio verso il brand green
I transition bond restano quindi a tutti gli effetti obbligazioni ordinarie che faticano ancora a diventare green, soprattutto se si analizza il ruolo e il target economico che riveste l’emittente. E quindi gli investitori istituzionali che finanziano investimenti verdi faticano a sottoscriverli. Del resto questi bond per ottenere il brand “green” devono dimostrare di andare a finanziare progetti ecologici specifici con l’obbligo di presentare una relazione periodica. Passaggi non sempre facili da rispettare col rischio di non poterne emettere altri se i progetti non vengono realizzati. Nel caso, ad esempio, del bond Hera da 500 milioni di euro emesso nel 2017, la società ha destinato i fondi per la realizzazione del progetto di eliminazione degli scarichi a mare della città di Rimini, lo sviluppo delle reti di teleriscaldamento di altre città emiliane e la costruzione di nuovi impianti di cogenerazione e centrali in grado di produrre energia dai rifiuti organici. La via appare quindi abbastanza stretta per le industrie tradizionali a più alto impatto ambientale per ottenere il riconoscimento “green”, anche se il tempo e i vari progetti di riqualificazione produttiva in Europa si stanno muovendo verso la direzione giusta anche per loro.