A New York WTI record da 2014. Oil Shock: ora si teme shock petrolifero con Iran e non solo
Oil shock, ovvero shock petrolifero. Le due parole tornano nei titoli della stampa internazionale. Se fino a qualche mese fa si parlava di mercato inondato di petrolio, ora il timore degli esperti si riassume in un termine ben preciso: deficit. “It’s Beginning to Look a Lot Like an Oil Shock”: titolava così un articolo di Bloomberg di qualche giorno fa, paventando anche uno scenario di “Bubbling Crude”, ovvero di petrolio in bolla. Possibile?
“Il petrolio sta diventando un problema”, scrive Bloomberg, con i prezzi del contratto WTI scambiato sul Nymex che sono “balzati di recente ai massimi in quasi quattro anni, più che raddoppiando rispetto al fondo a cui erano scesi due anni fa per effetto del crash”.
Certo, “non si può ancora parlare di prezzi alti in modo catastrofico – a un valore di $74 circa, sono ancora molto più bassi dei livelli a $100 al barile dell’inizio di questo decennio -quando l’economia si trovava in un percorso più traballante di oggi”.
“Ma il petrolio è già abbastanza costoso per molta gente, inclusa la persona più importante del mondo, ovvero il presidente Donald Trump (riferimento ai tweet infuocati contro i prezzi a suo avviso troppo elevati, inclusa la recente dichiarazione secondo cui sarebbe stato lui a convincere l’Arabia Saudita a offrire più petrolio)”
L’opinionista di Bloomberg David Fickling ha già sottolineato che la situazione sembra preludere a uno shock petrolifero, che potrebbe alla fine provocare un crash dei prezzi, dopo aver distrutto però la domanda.
Gli shock petroliferi non tendono a durare molto, ma spesso scatenano fasi di recessione.
Nella giornata di ieri, le quotazioni del contratto WTI hanno segnato un nuovo record, superando la soglia di $75 al barile per la prima volta dal novembre del 2014, per poi chiudere la sessione segnando un incremento di 20 centesimi, a $74,14. Gli analisti stanno già rivedendo al rialzo gli outlook sui prezzi. Nelle ultime ore, per esempio, Morgan Stanley ha alzato le precedenti stime sul Brent, relative al secondo semestre del 2018, di 7,50 dollari, a $85 al barile.
Le ragioni sono diverse, ma si riassumono tutte in una: la banca prevede che il mercato petrolifero verserà in una condizione di deficit.
Questo, a causa delle imminenti sanzioni che gli Usa di Donald Trump si apprestano a varare contro Teheran, e che dovrebbero tradursi in un taglio delle esportazioni iraniane di petrolio. Previsto inoltre un calo maggiore delle previsioni per le produzioni di Libia e Angola, che non riusciranno a essere compensate -secondo gli esperti – dalle offerte più generose che arriveranno dall’Arabia Saudita, dalla Russia, dagli Emirati Arabi e dal Kuwait.
Sul caso Iran Morgan Stanley scrive, stando a quanto riporta la Cnbc che, per effetto delle sanzioni previste, la produzione potrebbe scendere di 1,1 milioni di barili al giorno, in un contesto caratterizzato da una domanda elevata di petrolio.
Considerando anche i fattori Libia e Angola, gli analisti credono che l’offerta sul mercato, nel secondo semestre dell’anno, dovrebbe essere in deficit di 600.000 barili al giorno.
Il Brent al momento è scambiato attorno a $78 al barile, poco distante dal record in tre anni e mezzo testato a maggio, a $80,50. Il contratto è balzato del 5% la scorsa settimana, dopo che un funzionario senior del dipartimento di Stato Usa ha riferito alla stampa che l’amministrazione Trump sta spingendo affinché gli acquirenti di petrolio taglino tutti i loro acquisti dall’Iran, entro il prossimo 4 novembre.
Shock petrolifero sì o no? Morgan Stanley intanto rivede outlook
Sulla base di questo presupposto, Morgan Stanley ritiene ora che le esportazioni dell’oro nero dell’Iran verso l’Europa, il Giappone e la Corea del Sud – che incidono per 1 milione di barili al giorno circa nelle sue consegne, pari a 2,7 milioni di barili – “scenderanno a livelli minimi”.
“Nel corso dell’ultima settimana, i rischi al ribasso sulla futura offerta iraniana di petrolio sono aumentati in modo rapido”, ha detto Martijn Rats, strategist della divisione globale di petrolio, e responsabile della divisione di ricerca sull’azionario oil e gas in Europa per Morgan Stanley.
Intervistato da Cnbc John Kilduff, socio fondatore dell’hedge fund attivo nel mercato dell’energia Again Capital, ha rincarato la dose:
“Si inizia a sentir parlare di shock petrolifero. Sul mercato c’è poca fiducia nella capacità di riuscire a sfuggire a una ulteriore contrazione dell’offerta, in questo momento”.
Focus sulle recente dichiarazioni rilasciate da Claudio DeScalzi, numero uno dell’Eni, che ha detto di ritenere che la soglia di $70 dollari al barile rappresenti un prezzo giusto sia per il produttore che per il consumatore. E che ha avvertito, anche, che un prezzo troppo elevato “spaventa anche chi produce perché fa cadere i consumi e fa entrare in una condizione di sovracapacità”.
L’AD di Eni ha continuato, affermando che “se i prezzi salgono troppo, la domanda scenderà”.