Sechin (Rosneft): brent a 60 dollari al barile. Tra Russia, Opec e Stati Uniti ecco perché l’ipotesi non è assurda
Il numero uno di Rosneft Igor Sechin ha dichiarato che la Russia potrebbe tagliare la propria produzione di petrolio di 200-300 mila barili immediatamente. Solo che non lo farà. Sempre Sechin ha infatti detto che il prezzo del Brent potrebbe crollare a 60 dollari al barile nella prima parte del prossimo anno e che questo prezzo per Mosca sarebbe ancora accettabile.
Allo stesso tavolo da gioco siede l'Opec e anche in questo caso la posizione è stata espressa con chiarezza. Ieri l'Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio ha deciso di lasciare invariata la produzione giornaliera.
Il terzo giocatore è quello che ha cambiato le regole del gioco raggiungendo l'autonomia dopo essere stato per lungo tempo forte importatore. Sono gli Stati Uniti con il loro shale oil. Quello che hanno in testa i tre produttori lo spiega Michael Hewson, chief market analyst di CMC Markets UK in un report: "La nuova realtà è che gli Stati Uniti sono diventati uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio e in tal modo hanno ridotto la capacità dell'Opec di influenzare il prezzo dell'oro nero. Allo stesso tempo la Russia è determinata a spremere ogni possibile guadagno dalla risorsa di cui è ricca, per sostenere un'economia in grande difficoltà". Non è l'unico motivo, questo, per il quale la Russia non vuole ridurre la sua produzione. "C'è in atto un tentativo di mettere in difficoltà i produttori americani di shale oil riducendone quanto più possibile i margini, obiettivo in comune con l'Opec". D'altro canto gli Stati Uniti non desiderano altro che mettere Mosca con le spalle al muro per via della questione Ucraina.
"Inoltre - aggiunge Hewson - con una domanda in calo e gli Stati Uniti quasi auto-sufficienti, l'Opec ha ancora bisogno di vendere la stessa quantità di petrolio di prima. Siamo a un punto di stallo. Nessuno dei tre contendenti vuole fare un passo in dietro e l'obiettivo di ognuno è cercare di arrecare il massimo danno possibile all'altro". Ecco perché al momento l'ipotesi avanzata dal numero uno di Rosneft non appare campata in aria.
Allo stesso tavolo da gioco siede l'Opec e anche in questo caso la posizione è stata espressa con chiarezza. Ieri l'Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio ha deciso di lasciare invariata la produzione giornaliera.
Il terzo giocatore è quello che ha cambiato le regole del gioco raggiungendo l'autonomia dopo essere stato per lungo tempo forte importatore. Sono gli Stati Uniti con il loro shale oil. Quello che hanno in testa i tre produttori lo spiega Michael Hewson, chief market analyst di CMC Markets UK in un report: "La nuova realtà è che gli Stati Uniti sono diventati uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio e in tal modo hanno ridotto la capacità dell'Opec di influenzare il prezzo dell'oro nero. Allo stesso tempo la Russia è determinata a spremere ogni possibile guadagno dalla risorsa di cui è ricca, per sostenere un'economia in grande difficoltà". Non è l'unico motivo, questo, per il quale la Russia non vuole ridurre la sua produzione. "C'è in atto un tentativo di mettere in difficoltà i produttori americani di shale oil riducendone quanto più possibile i margini, obiettivo in comune con l'Opec". D'altro canto gli Stati Uniti non desiderano altro che mettere Mosca con le spalle al muro per via della questione Ucraina.
"Inoltre - aggiunge Hewson - con una domanda in calo e gli Stati Uniti quasi auto-sufficienti, l'Opec ha ancora bisogno di vendere la stessa quantità di petrolio di prima. Siamo a un punto di stallo. Nessuno dei tre contendenti vuole fare un passo in dietro e l'obiettivo di ognuno è cercare di arrecare il massimo danno possibile all'altro". Ecco perché al momento l'ipotesi avanzata dal numero uno di Rosneft non appare campata in aria.