Petrolio: hedge fund si ritirano? Taglio scommesse bullish al record storico
I prezzi del petrolio continuano il trend ribassista, a dispetto dei recuperi di breve termine, dei tagli alla produzione e del miglioramento delle stime sulla crescita della domanda.
Oggi arriva la notizia della decisione degli hedge fund di tagliare le loro scommesse bullish sia sul contratto Brent che su quello WTI di 154.871 unità, a 699.209 contratti di posizioni nette lunghe.
Si tratta del taglio più forte della storia, che ha effetti immediati sui prezzi.
Le quotazioni riducono successivamente le perdite, dopo che Reuters riporta che l’Opec sarebbe favorevole a estendere i tagli all’offerta anche al secondo semestre dell’anno, invitando tuttavia anche i paesi non Opec a fare la loro parte.
Ma alle 17 ora italiana i prezzi rimangono decisamente sotto pressione: il contratto WTI cede più dell’1% a $48,23, mentre il Brent perde lo 0,44%, a $51,53.
Un articolo di Cnbc scritto da Daniel Lacalle, direttore finanziario di Tressis Gestion, economista e gestore dei fondi, fa notare che, con il range laterale di $50-$55 recentemente bucato, il nuovo livello di supporto di lungo termine per le quotazioni del Brent si avvicina più alla fascia compresa tra $45 e $47, che non a $50 al barile.
I motivi che avallano la view ribassista per i prezzi del petrolio sono diversi:
Intanto, desta sospetti l’accordo che è stato siglato tra i paesi membri dell’Opec e i paesi non Opec per tagliare la produzione.
“Leggiamo ovunque che l’adesione all’accordo è pari al 90%, ma in realtà l’Arabia Saudita è l’unico paese membro (dell’Opec) che sta riducendo l’output a un ritmo molto superiore rispetto a quanto è stato deciso, almeno stando ai numeri dell’Opec, mentre i tagli della Russia sono pari ad appena 1/3 di quanto concordato (taglio di 118.000 barili al giorno, rispetto ai 300.000 concordati)”, sottolinea Lacalle.
Altri paesi, come Emirati Arabi Uniti, Venezuela, Algeria, si stanno attenendo alle riduzioni concordate con un’adesione che va dal 50% al 60%.
“Questa dipendenza dall’Arabia Saudita è pericolosa, visto che il paese ha già annunciato di prevedere un aumento dell’output al di sopra della soglia di 10 milioni di barili nel mese di febbraio”.
Tra l’altro, l’Iran continua a produrre petrolio a livelli record, così come l’Iraq aumenta le propria offerta ai valori più alti in anni.
I numeri parlano da soli: nel mese di febbraio, le esportazioni di petrolio dall’Iran hanno raggiunto la soglia di 3 milioni di barili al giorno, al massimo dal 1979; inoltre, stando all’Agenzia Internazionale per l’Energia, l’Iraq aumenterà la produzione a 5,4 milioni di barili al giorno entro il 2022.
Altro fattore che dimostra l’abbondanza di offerta di petrolio nel mondo è la crescita più veloce delle attese dell’output degli Stati Uniti.
Sempre stando ai dati dell’AIE, l’offerta è salita di 400.000 barili al giorno dai minimi testati, smentendo il consensus degli analisti, che avevano previsto un recupero della produzione di gas di scisto solo con il ritorno dei prezzi del Brent a $65.
Gli Usa, secondo l’outlook, dovrebbero assistere inoltre a un aumento della produzione di 1 milione di barili al giorno nel periodo compreso tra il dicembre del 2016 e il dicembre del 2017.
Così Lacalle:
“Il fatto che i prezzi del petrolio rimangano in un trend ribassista nonostante il taglio (alla produzione) più imponente della storia e nonostante l’esposizione netta lunga dei money manager che (a dispetto di quanto reso noto oggi) rimanga ai massimi in dieci mesi, ci dimostra che il mercato non è solo molto ben fornito, ma che versa in una condizione di eccesso di offerta. I rialzisti affermano che il mercato tornerà in una condizione di equilibrio in sei mesi. Avevano detto la stessa cosa sei mesi fa”.