Petrolio: per Goldman rischi esagerati da Egitto. La Borsa del Cairo riapre il 13 febbraio

E’ ancora la crisi in Egitto a scaldare il petrolio, tornato a flirtare con la soglia fatidica dei 100 dollari al barile. In mattinata i futures sul Brent con consegna marzo sono saliti di 97 cent a 100,80 dollari. I movimenti dei derivati Usa sono più moderati (+21 cent a 89,24 dollari), con gli investitori che guardano oltre la crisi politica egiziana e si concentrano più sulle alte scorte di petrolio. Da questa mattina il Brent è tornato a salire sui timori che le turbolenze all’ombra delle Piramidi possano contagiare anche altre aree del Medio Oriente e del Nord Africa, interrompendo le forniture di energia. Ad influenzare i mercati è sempre il timore che due rotte critiche per l’approvvigionamento, il Canale di Suez e l’oleodotto Sumed, attraverso i quali transita su territorio egiziano circa il 4,5% della produzione globale di greggio, possano pagare lo scotto a causa dei disordini. Sono oltre un milione i barili di greggio che transitano, infatti, ogni giorno dal Mar Rosso al Mediterraneo.
La chiusura dell’oleodotto Sumed potrebbe causare un’insufficienza di greggio, ma il mercato continua ad essere ben fornito con scorte di alto livello. Per gli analisti finanziari della banca americana Goldman Sachs c’è troppa esagerazione in giro. Gli esperti sono ottimisti sull’andamento dei prezzi del petrolio: potrebbero scendere, affermano dalla banca d’affari, sostenendo che l’impatto delle crisi in Tunisia ed Egitto è stato sopravvalutato. Il motivo? “Il Brent è suscettibile a temporanei cali del prezzo, visto che il rischio di un effetto domino delle proteste in Nord Africa appare basso”. Dando un’occhiata al mappamondo dagli Stati Uniti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, principali esportatori mondiali di greggio appaiono ricchi con governi con relativa stabilità e consenso popolari.
I ricchi stati del Ccg, si legge ancora nel documento, non dovrebbero avere i problemi dei meno ricchi paesi del Nord Africa ed in ogni caso anche se la protesta si estendesse ad uno di questi paesi, questo non comporterebe necessariamenti un’interruzione delle forniture. La storia, concludono gli esperti dell’istituto, dimostra infatti che l’energia può continuare a fluire anche in condizioni politiche avverse. La storia ha riservato sorprese tre volte: il passaggio attraverso il Canale di Suez è stato interrotto in coincidenza con i conflitti arabo-israeliani nel 1956, nel 1967 e nel 1975, costringendo le petroliere a circumnavigare l’Africa, in un percorso lungo e oneroso, per raggiungere l’Europa. Secondo altri esperti di mercato, se il caso dovesse ripetersi avrebbe tuttavia questa volta un impatto ben più limitato, essendo ormai l’epicentro della richiesta di petrolio spostato decisamente verso l’Asia.
I tracciati comunque hanno finora funzionato normalmente, a piena capacità, secondo i media ufficiali egiziani, ma l’incertezza è difficile da scacciare. Sullo sfondo restano anche i dubbi sulla possibile estensione del conflitto anche al Medio Oriente. Un’eventualità che getterebbe nel caos la produzione e l’esportazione di greggio in tutto il mondo. Un funzionario del Kuwait ha detto nel weekend che i prezzi del petrolio potrebbero superare i 110 dollari al barile se i tumulti in Egitto proseguissero, mentre il Venezuela ha dichiarato che le quotazioni potrebbero raddoppiare a 200 dollari se il canale di Suez dovesse chiudere. L’Iran, presidente di turno dell’Opec, ha affermato di non vedere l’esigenza di una riunione di emergenza del cartello, anche in caso di salita dei prezzi a 120 dollari. “C’è molta incertezza sull’Egitto. Non sappiamo cosa succederà là e la preoccupazione è quella di un contagio che destabilizzi altri paesi”, commenta Christophe Barret di Credit Agricole. “Certamente tutti sono preoccupati, il Medio Oriente è una grande fonte di energia”.
Eppure in Egitto c’è voglia di normalità. E’ di venti minuti fa la notizia che la Borsa egiziana riaprirà i battenti il prossimo 13 febbraio. Anche se le proteste in corso dal 25 gennaio per chiedere le dimissioni del presidente, al potere da 30 anni, stanno di fatto paralizzando l’economia egiziana ieri, per alcune ore, hanno già riaperto alcune banche dopo una settimana di chiusura, tra queste anche la Bank of Alexandria, controllata del gruppo italiano Intesa SanPaolo. Come osservato da Mahmoud Abdel Latif, il numero uno dell’istituto, ieri l’ammontare dei contanti depositati è stato maggiore dei prelievi. I trasferimenti di denaro fuori dal Paese sono stati minori del previsto e per la maggior parte legati a transazioni commerciali. La Bank of Alexandria è una delle più grandi banche egiziane, con una quota di mercato del 7%. È stata la prima banca posseduta dallo Stato ad essere privatizzata, nel 2006, e fa parte oggi del gruppo Intesa SanPaolo.