Moody’s rilancia il miracolo cinese nel giorno dell’apertura dei lavori del G7
Nel giorno in cui si aprono i lavori del G7 a Washigton, è la Cina a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Nonostante su Pechino soffi forte il vento delle polemiche per uno yuan che il Congresso americano continua a giudicare sottovalutato per il 20-40%, America ed Europa devono fare i conti con un’amara verità: la potenza asiatica sarà il crocevia che permetterà al resto del mondo di tornare a crescere. Tom Byrne, senior vice president di Moody’s, che ha posto oggi il rating della Cina sotto esame in vista di un possibile upgrade, sostiene che “quanto avvenuto nel corso dell’ultimo anno dimostra che la risposta della Cina alla crisi del 2008 è stata efficace”.
La solida performance di crescita economica nell’ultimo anno – sottolinea Byrne – sommata alle solide prospettive di espansione nel medio termine e all’alta probabilità che Pechino sia in grado di assorbire eventuali perdite derivanti dall’esplosione del credito bancario nel corso del 2009 sono tutti fattori che giustificano la decisione di mettere il rating sotto esame per una possibile promozione da parte dell’agenzia di valutazione.
Entro i prossimi tre mesi arriverà il verdetto. Lo scenario Big one, ossia lo scoppio della bolla speculativa immobiliare cinese, non fa più paura. Fino a qualche mese fa economisti ed analisti erano allarmati dall’ipotesi di uno scoppio della bolla immobiliare cinese: secondo molti esperti se tale scenario si concretizzasse sarebbe in grado di far ripiombare l’economia mondiale in una nuova recessione, con il peso sulle spalle di una crisi non ancora risolta – quella subprime – oltre al macigno dei conti pubblici. L’analisti di Moody’s non lo prende in considerazione.
Nel 2009 le banche statali cinesi hanno immesso sul mercato del credito una potenza di fuoco: qualcosa come 9600 miliardi di yuan, cioé circa 1400 miliardi di dollari, pari a circa il 30% del Pil. Una somma, che si aggiunge a quella per 4000 miliardi di yuan stanziata nel novembre 2008 come parte del maxi-pacchetto di stimoli all’economia cinese. Numeri da brivido che non fanno paura a Byrne, che osserva come le principali banche cinesi non siano state seriamente colpite dalla crisi globale e che dunque sarebbero in grado di assorbire da sole eventuali perdite legate ad asset sofferenti.
“Per questo – ha spiegato Moody’s – le principali banche non comportano un rischio serio al bilancio dello Stato”. E in attesa che l’agenzia di valutazione decida, il cross yuan-dollaro ha toccato stamani il picco degli ultimi 15 anni, ovvero da quando, nel 1994, Pechino ha scelto di abbandonare il sistema della parità fissa. La divisa cinese, sulla scorta anche delle crescenti pressioni internazionali (soprattutto di Europa e Usa), è stata fissata dalla Banca centrale a 6,6830 rispetto al biglietto verde dopo essere stato indicato in avvio a 6,6710.
All’inizio della settimana lo yuan girava attorno a 6,6912 per un dollaro. Dal 21 giugno scorso, per disposizione dell’Istituto di emissione, la divisa cinese può oscillare in entrambi i sensi ogni giorno al massimo dello 0,5% rispetto al fixing ufficiale. Questa variazione, sospesa nel 2008 a causa della crisi finanziaria, è stata reintrodotta per le pressioni di Washington. Da giugno, comunque, la rivalutazione della yuan è stata di appena il 2,12%, mentre il Congresso Usa la giudicano sottovalutata per il 20-40%. La Cina ha escluso una rivalutazione drastica della divisa perché, ha spiegato il premier cinese Wan Jiabao, nel suo recente viaggio in Europa, questa si tradurrebbe in un’esplosione della disoccupazione e nell’instabilità sociale nel Paese. Dal Vecchio Continente e dagli Stati Uniti si è levato un coro di critiche negli ultimi giorni, che ha surriscaldato il clima attorno ai lavori che si apriranno oggi a Washigton. Un banco di prova che potrebbe mettere a dura prova la diplomazia.