Draghi: la salvezza e il rilancio dell’economia italiana possono venire solo dagli italiani
Pubblichiamo integralmente l’intervento del governatore di Bankitalia, Mario Draghi, al Convegno internazionale per le Celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia.
Apriamo questa sera il Convegno “L’Italia nell’economia mondiale, 1861- 2011”. Dopo la mostra “La moneta dell’Italia Unita”, organizzata nella primavera scorsa al Palazzo delle Esposizioni, è questo il secondo contributo della Banca d’Italia alle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Il convegno discuterà lavori su diversi aspetti della crescita economica del nostro paese realizzati negli ultimi due anni da oltre quaranta studiosi stranieri e italiani. Il riferimento all’economia mondiale è indispensabile: le sorti di un paese di medie dimensioni privo di materie prime quale il nostro dipendono dalla sua capacità di fare interagire la propria economia con quella internazionale. Con le parole del grande storico Carlo Cipolla: “L’Italia prospera quando sa produrre cose che piacciono al mondo”.
L’unificazione italiana fu episodio importante della creazione di un’Europa degli stati nazione, eppure anche allora, nell’Europa delle nazioni, frequenti erano i richiamo alle comuni radici culturali. La consapevolezza di un destino economico comune è testimoniata dai trattati doganali, dalla libera circolazione delle persone e dei capitali, da quella specie di moneta unica che era il gold standard. Allora come oggi, si poneva la questione se gli interessi nazionali fossero meglio difesi da soli o in un “concerto europeo”, nel quale ciascuno rinunciasse a qualcosa. La prima guerra mondiale segnò la fine di questa cultura aperta, avviò la “guerra civile europea” (Keynes).
L’Italia, che in età giolittiana si era inserita nella prima globalizzazione, restò al margine anche del tenue sviluppo di un’Europa soffocata dal protezionismo. Le velleità, purtroppo ricorrenti, del poter fare da soli furono negli anni Trenta duramente smentite dai fatti, soprattutto nel nostro paese, preda della demagogia autarchica.
Le classi dirigenti postbelliche appresero questa lezione. In condizioni economiche e sociali tra le più difficili mai affrontate dal paese, impegnarono con decisione l’Italia nel processo di integrazione internazionale ed europea. La loro lungimiranza e il loro coraggio politico rappresentano, insieme alla riconquistata democrazia, uno dei pilastri su cui si è fondata la mirabile crescita economica e civile della nazione.
Restare oggi fedeli alla scelta dei nostri padri, rafforzare la nostra posizione in Europa, significa imprimere un forte impulso alla crescita, ridurre drasticamente il debito pubblico.
Gli interventi realizzati nella scorsa estate avviano la finanza pubblica italiana lungo un sentiero di maggiore sostenibilità. Ma ciò non basta. Senza aggredire alla radice il problema della crescita lo stesso risanamento della finanza pubblica è a repentaglio. Abbiamo più volte indicato gli interventi necessari in ambiti essenziali per la crescita come la giustizia civile, il sistema formativo, la concorrenza, soprattutto nel settore dei servizi e delle professioni, le infrastrutture, la spesa pubblica, il mercato del lavoro, il sistema di protezione sociale.
L’obiettivo di rilanciare la crescita è finalmente oggi largamente condiviso, ma l’adozione delle misure necessarie si è finora scontrata con difficoltà apparentemente insormontabili. Eppure, sia la storia – anche quella che emerge dalle ricerche che saranno discusse qui in questi giorni – sia gli elementi positivi che oggi pur si colgono nel paese mostrano che esso non è al di sopra delle nostre possibilità.
Nel 1950 pochi osservatori avrebbero scommesso che nel giro di un paio di decenni l’Italia sarebbe diventata una economia industriale europea. Il paese dimostrò allora una straordinaria capacità di adattare le tecnologie importate alle condizioni del paese, di utilizzare per la moderna industria l’inventiva e la flessibilità dell’artigiano e del piccolo imprenditore. Il distretto industriale e una impresa pubblica per anni fucina di manager e di innovazione attrassero in modi diversi l’attenzione del mondo. Fu l’unica volta dopo l’Unità che per un lungo periodo il Mezzogiorno crebbe più dell’intero paese: dal 1951 al 1973 il rapporto fra prodotto pro capite a prezzi correnti del Sud e prodotto nazionale pro capite salì dal 63 al 70 per cento.
Possiamo pensare che un sistema sociale, un’imprenditoria, una manodopera che furono i protagonisti della lunga fase di crescita impetuosa e poi ancora attraverso i difficilissimi anni Settanta e i cambiamenti del contesto esterno nel decennio successivo abbiano consumata tutta la loro forza?
Il paese è ancora ricco di imprese di successo, anche in comparti chiave come la robotica e la meccanica; non mancano nella società indicazioni di una vitalità tutt’altro che spenta.
Le capacità di progresso del Mezzogiorno sono testimoniate da diversi casi che indicano come si possano superare arretratezze e valorizzare i potenziali dell’area. Ne è un esempio il recupero urbano di Matera e di altri centri storici del Mezzogiorno che hanno saputo acquisire nuova vitalità ambientale e culturale. In Sicilia, Puglia, Campania non mancano esperienze positive nei comparti dell’elettronica, delle fonti rinnovabili, della meccatronica, della componentistica.
Altri segnali postivi vengono dai progressi registrati nel miglioramento delle competenze chiave degli studenti meridionali. Secondo l’indagine OCSE-PISA del 2009, nelle Regioni del Sud si registrano i miglioramenti più significativi conseguiti dal nostro paese.
Nel paese non mancano dunque vitalità e voglia di crescere, anche se non sufficienti a imprimere forza alla crescita. Perché è tanto difficile realizzare interventi in grado di invertire il trend negativo degli ultimi anni?
La storia ci può soccorrere nelle risposte.
Nella Venezia del Seicento o nell’Amsterdam del Settecento, società ancora ricche, a una lunga stagione di grande dinamismo era seguito l’affievolirsi dell’impegno a competere, a innovare. Gli sforzi prima diretti al perseguimento della crescita furono indirizzati alla difesa dei piccoli o grandi privilegi acquisiti da gruppi sociali organizzati. In un’economia che ristagna, si rafforzano sempre i meccanismi di difesa e di promozione degli interessi particolaristici. Si formano robuste coalizioni distributive, più dotate di poteri di veto che di capacità realizzativa. Il rafforzamento di tali coalizioni rende a sua volta sempre più difficile realizzare misure innovative a favore della crescita. E’ compito insostituibile della politica trovare il modo di rompere questo circolo vizioso prima che questo renda impossibili, per veti incrociati e cristallizzati, le misure necessarie per la crescita.