~Qohèlet~
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FIAT, ADDIO A WALL STREET - LA SEC CHIEDE PIÙ TRASPARENZA E MARPIONNE RINGRAZIA E SALUTA – LE NUOVE REGOLE (DOPO LO SCANDALO ENRON) FANNO SCAPPARE DAL LISTINO AMERICANO MOLTE AZIENDE ESTERE – LA TRASPARENZA COSTA TROPPO. E PUÒ DAR FASTIDIO…
Morya Longo e Andrea Malan per “Il Sole 24 Ore”
«Caro Mr. Marchionne, abbiamo rivisto il bilancio che avete depositato e abbiamo una serie di commenti da fare. Crediamo che dobbiate ritoccare il documento nelle vostre future comunicazioni, alla luce dei nostri rilievi». Questa lettera della Securities and Exchange Commission (Sec), datata 18 dicembre 2006, è forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha convinto la Fiat ad abbandonare poco più di un mese fa il listino di Wall Street.
Nella missiva l'Autorità di controllo dei mercati Usa chiedeva al Lingotto delucidazioni su 26 diversi punti del bilancio 2005 alla luce dei nuovi principi contabili: dalla valorizzazione dei debiti a lungo termine al trattamento delle cartolarizzazioni, fino alle plusvalenze sul divorzio da General Motors. Lettere simili sono state spedite, tra il 2006 e il 2007 a oltre 100 società non americane (tante delle quali italiane) quotate a Wall Street. Non è un caso che 43 società estere dal dicembre 2006 abbiano deciso di abbandonare la quotazione negli Stati Uniti. Fra queste ci sono colossi di ogni nazionalità: dalla British Airways alla Bayer, dalla Adecco alla Danone, fino alle italiane Benetton, Ducati e Fiat.
Il carteggio Fiat-Sec è emblematico della trasparenza, ma anche della pignoleria delle Autorità di vigilanza Usa. E, in parte, risponde alla domanda: perché così tante società scappano da Wall Street? La prima lettera della Sec indirizzata a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat Spa, è stata infatti seguita da un botta e risposta durato fino all'aprile di quest'anno. Decine di pagine che, grazie alle Autorità di vigilanza americane, sono interamente disponibili sul sito Internet della Sec. Fin dalla prima risposta, inviata il 2 febbraio scorso, la Fiat chiede di mantenere il tutto «confidenziale». Ma la Sec non ci sta: «La richiesta non è appropriata».
Su un punto, però, la Consob americana accetta di secretare la risposta della Fiat: il trattamento contabile di un'opzione put che Renault detiene sulla quota del 15% di Teksid Spa, di cui Fiat controlla il restante 85 per cento. Teksid Spa comprende le attività metallurgiche Fiat diverse dall'alluminio (venduto a Questor nel 2002 e poi in parte riacquistato proprio quest'anno). La società vide nel 1999 l'ingresso di Renault, che conferì alcuni impianti in cambio di una quota (che allora era del 35%). Fiat riconobbe ai francesi una clausola put, ovvero la possibilità di rivendere a Fiat tale quota, a certe condizioni.
Il bilancio del Lingotto riporta tali condizioni e anche il prezzo a cui la put potrebbe essere esercitata; ma non il valore assegnato alla put stessa. E quando la Sec chiede di chiarire «in maggior dettaglio come l'opzione è stata valutata», il responsabile della tesoreria Fiat, Maurizio Francescatti, e il controller Alessandro Baldi – uomo di fiducia di Marchionne – chiedono di mantenere segreta la risposta: «Una tale informazione – scrivono – sarebbe dannosa dal punto di vista concorrenziale e delle relazioni con Renault, compresa la possibilità che in relazione a tale clausola put si arrivi a una lite».
Che cosa ci sarà mai di così delicato in una put option su un'azienda relativamente di secondo piano dal valore di 75 milioni? L'unica spiegazione plausibile è che il Lingotto non voglia far sapere proprio al suo concorrente, Renault, quanto valorizza in bilancio quell'opzione. Ma neanche la Sec ha potuto farlo sapere al mercato.
L'ultima lettera della Consob americana, in cui l'Autorità afferma di avere completato l'esame sul bilancio 2005, è del 5 aprile e pochi mesi dopo il Lingotto ha deciso di abbandonare il listino di New York dopo 18 anni di quotazione. Se si chiede a Torino il motivo della scelta, la risposta è che i costi e l'impegno necessario a soddisfare tutte queste richieste superano i vantaggi che in un mondo ormai globalizzato è possibile ricavare dalla presenza sul listino di Wall Street (dove per altro resta quotata la controllata Usa Cnh). La trasparenza, insomma, costa troppo. E in qualche caso può dar fastidio.
La storia della Fiat, del resto, è comune a decine di altre società: l'introduzione della legge Sarbanes- Oxley nel 2002 (dopo il crack Enron) ha imposto nuovi obblighi informativi e reso più onerosa la presenza sulle piazze finanziarie a stelle e strisce; le possibili divergenze d'interpretazione sui nuovi principi contabili tra America ed Europa hanno poi convinto un numero sempre maggiore di colossi europei che il gioco non valeva la candela. Così dal dicembre 2006, quando è stato reso più facile il cosiddetto delisting, l'esodo è stato di massa. E il pur lodevole obiettivo della Sec di massimizzare la trasparenza si è tradotto in una perdita di business per Wall Street e di informazioni future per il mercato.
03 Ottobre 2007
Fonte: Dagospia
Morya Longo e Andrea Malan per “Il Sole 24 Ore”
«Caro Mr. Marchionne, abbiamo rivisto il bilancio che avete depositato e abbiamo una serie di commenti da fare. Crediamo che dobbiate ritoccare il documento nelle vostre future comunicazioni, alla luce dei nostri rilievi». Questa lettera della Securities and Exchange Commission (Sec), datata 18 dicembre 2006, è forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha convinto la Fiat ad abbandonare poco più di un mese fa il listino di Wall Street.
Nella missiva l'Autorità di controllo dei mercati Usa chiedeva al Lingotto delucidazioni su 26 diversi punti del bilancio 2005 alla luce dei nuovi principi contabili: dalla valorizzazione dei debiti a lungo termine al trattamento delle cartolarizzazioni, fino alle plusvalenze sul divorzio da General Motors. Lettere simili sono state spedite, tra il 2006 e il 2007 a oltre 100 società non americane (tante delle quali italiane) quotate a Wall Street. Non è un caso che 43 società estere dal dicembre 2006 abbiano deciso di abbandonare la quotazione negli Stati Uniti. Fra queste ci sono colossi di ogni nazionalità: dalla British Airways alla Bayer, dalla Adecco alla Danone, fino alle italiane Benetton, Ducati e Fiat.
Il carteggio Fiat-Sec è emblematico della trasparenza, ma anche della pignoleria delle Autorità di vigilanza Usa. E, in parte, risponde alla domanda: perché così tante società scappano da Wall Street? La prima lettera della Sec indirizzata a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat Spa, è stata infatti seguita da un botta e risposta durato fino all'aprile di quest'anno. Decine di pagine che, grazie alle Autorità di vigilanza americane, sono interamente disponibili sul sito Internet della Sec. Fin dalla prima risposta, inviata il 2 febbraio scorso, la Fiat chiede di mantenere il tutto «confidenziale». Ma la Sec non ci sta: «La richiesta non è appropriata».
Su un punto, però, la Consob americana accetta di secretare la risposta della Fiat: il trattamento contabile di un'opzione put che Renault detiene sulla quota del 15% di Teksid Spa, di cui Fiat controlla il restante 85 per cento. Teksid Spa comprende le attività metallurgiche Fiat diverse dall'alluminio (venduto a Questor nel 2002 e poi in parte riacquistato proprio quest'anno). La società vide nel 1999 l'ingresso di Renault, che conferì alcuni impianti in cambio di una quota (che allora era del 35%). Fiat riconobbe ai francesi una clausola put, ovvero la possibilità di rivendere a Fiat tale quota, a certe condizioni.
Il bilancio del Lingotto riporta tali condizioni e anche il prezzo a cui la put potrebbe essere esercitata; ma non il valore assegnato alla put stessa. E quando la Sec chiede di chiarire «in maggior dettaglio come l'opzione è stata valutata», il responsabile della tesoreria Fiat, Maurizio Francescatti, e il controller Alessandro Baldi – uomo di fiducia di Marchionne – chiedono di mantenere segreta la risposta: «Una tale informazione – scrivono – sarebbe dannosa dal punto di vista concorrenziale e delle relazioni con Renault, compresa la possibilità che in relazione a tale clausola put si arrivi a una lite».
Che cosa ci sarà mai di così delicato in una put option su un'azienda relativamente di secondo piano dal valore di 75 milioni? L'unica spiegazione plausibile è che il Lingotto non voglia far sapere proprio al suo concorrente, Renault, quanto valorizza in bilancio quell'opzione. Ma neanche la Sec ha potuto farlo sapere al mercato.
L'ultima lettera della Consob americana, in cui l'Autorità afferma di avere completato l'esame sul bilancio 2005, è del 5 aprile e pochi mesi dopo il Lingotto ha deciso di abbandonare il listino di New York dopo 18 anni di quotazione. Se si chiede a Torino il motivo della scelta, la risposta è che i costi e l'impegno necessario a soddisfare tutte queste richieste superano i vantaggi che in un mondo ormai globalizzato è possibile ricavare dalla presenza sul listino di Wall Street (dove per altro resta quotata la controllata Usa Cnh). La trasparenza, insomma, costa troppo. E in qualche caso può dar fastidio.
La storia della Fiat, del resto, è comune a decine di altre società: l'introduzione della legge Sarbanes- Oxley nel 2002 (dopo il crack Enron) ha imposto nuovi obblighi informativi e reso più onerosa la presenza sulle piazze finanziarie a stelle e strisce; le possibili divergenze d'interpretazione sui nuovi principi contabili tra America ed Europa hanno poi convinto un numero sempre maggiore di colossi europei che il gioco non valeva la candela. Così dal dicembre 2006, quando è stato reso più facile il cosiddetto delisting, l'esodo è stato di massa. E il pur lodevole obiettivo della Sec di massimizzare la trasparenza si è tradotto in una perdita di business per Wall Street e di informazioni future per il mercato.
03 Ottobre 2007
Fonte: Dagospia