Rapporto bri
Prezzi immobili al top. Allarme da fine bolla
Appello a correggere gli squilibri della crescita. Previsioni per l'Italia: deficit/pil al 3,9% nel 2005 e al 4,3% nel 2006.
Da Basilea Piero Fornara
L'economia mondiale è in crescita vigorosa - il 5% nel 2004, il 4% quest'anno - mentre l’inflazione è rimasta moderata, nonostante i sostanziali rincari delle materie prime. Ma questa performance eccezionale si accompagna al crescente timore che la situazione possa ben presto cambiare. Le conseguenze di eventuali nuovi rincari del greggio, che oggi ha superato abbondantemente i 60 dollari al barile sulla scia delle elezioni in Iran, potrebbero infatti essere più serie di quanto finora previsto. La situazione attuale mostra significative analogie con quella degli ultimi anni 60, perché proprio in quel periodo nei maggiori Paesi industriali si crearono i presupposti della grande inflazione degli anni 70, a sua volta all’origine delle crisi debitorie che nel decennio successivo hanno colpito molte economie emergenti. Da queste considerazioni parte il Rapporto 2005 della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), presentato oggi alla stampa a Basilea dal direttore generale Malcolm D. Knight, già vice governatore della Banca del Canada. che dall'aprile 2003 guida la "banca delle banche centrali".
75a Relazione annuale
Sito della Banca dei regolamenti internazionali
Che cos'è e cosa fa la Bri (scheda)
Occorre intervenire, e presto, per correggere gli squilibri della crescita. Nell'analisi della Bri compare il tema degli immobili che proprio nei giorni scorsi è stato al centro dell'attenzione della stampa anglosassone.«The Economist» ha fatto una copertina-shock sul possibile scoppio della bolla immobiliare, che il settimanale britannico dà come già avvenuta, titolando: «After the fall». Secondo lo studio della Bri, a fine 2004 le quotazioni degli
immobili “avevano raggiunto o sfiorato i massimi storici” contribuendo ad accrescere al ricchezza delle famiglie, beneficiarie anche della ripresa dei corsi azionari, ma lo sgonfiamento della bolla immobiliare pone dei rischi sui consumi e la spesa delle famiglie.
Conti pubblici italiani
La crescita dei deficit di bilancio, scrive il Rapporto della Bri, nei principali Paesi industriali ha origini diverse, ma essenzialmente di ordine strutturale. Nell’area euro l’esigenza di un risanamento dei conti pubblici viene a coincidere con una più debole attività economica: per l’Italia il dato di “consenso” elaborato dagli esperti della Bri sulla base degli ultimi dati di fonte Fmi, Ocse e delle statistiche nazionali, prevede un rapporto deficit/Pil del 3,9% quest’anno e del 4,3% per il 2006. Il governatore Antonio Fazio, a Basilea per l'assemblea della Bri, ha confermato con i giornalisti che il dato è in linea con le ultime stime della Banca d'Italia che parlano di un rapporto "intorno al 4 per cento". Sia in Italia che in altri Paesi dell’Unione, però, debbono ancora essere formalizzati gli specifici provvedimenti necessari al conseguimento degli obiettivi di riduzione del disavanzo.
Negli squilibri della crescita mondiale rientra anche il rendimento dei titoli di Stato in calo, mentre i tassi ufficiali sono in crescita e l'economia vanta dei fondamentali apparentemente robusti. "Un enigma", quello del mercato statunitense, che si è esteso anche ad altri Paesi e che secondo la Bri resta difficile da spiegare. Un’anomalia, questa, sottolneata pochi giorni fa anche dal presidente della Fed Alan Greenspan. Forse pesano le progettate riforme sui sistemi pensionistici e sulla contabilità. Un impatto significativo può anche essere scaturito dalla gestione delle riserve delle banche asiatiche, ma la Bri ammette che è difficile valutare la portata di questi fattori. Il “Financial Times” nel basso livello dei tassi Usa a lungo termine, nonostante i ripetuti rialzi di quelli a breve, vede addirittura dei rischi di deflazione da "anni 30", per l’eccessiva liquidità e la debole propensione a investire.
Nei giorni scorsi è stata soprattutto la stampa anglosassone a evidenziare gli squilibri della crescita mondiale. Il «Financial Times», ad esempio, nel basso livello dei tassi a lungo termine - giudicati un "enigma" anche dal presidente della Fed Alan Greenspan, nonostante i ripetuti rialzi di quelli a breve - vede addirittura dei rischi di deflazione da "anni 30" (eccessiva liquidità e debole propensione a investire); «The Economist» ha fatto una copertina-shock sul possibile scoppio della bolla immobiliare (che il settimanale britannico dà come già avvenuta, titolando: «After the fall»). Altri ipotizzano invece un periodo di pressioni inflazionistiche e di perturbazioni cicliche per l’impennata dei prezzi del petrolio, arrivati a quota 60 dollari al barile e con tendenza a crescere ancora di più.
Il confronto con gli anni 60 e 70
Per gli esperti della Bri «tutte le scelte di politica economica comportano una sorta di "do ut des" e di discrezionalità e quelle nell’area della stabilità macrofinanziaria non fanno eccezione». Conseguentemente il Rapporto suggerisce «un’attenzione più sistematica agli squilibri finanziari sia interni sia internazionali». Un cammino che può incontrare ostacoli, che non
dovrebbero però essere insormontabili, «perché i responsabili delle politiche hanno chiaramente imparato dai loro precedenti errori». Infatti «negli ultimi anni 60 e agli inizi degli anni 70 non vi era piena consapevolezza dei costi associati a un’inflazione elevata nei Paesi industriali, né veniva adeguatamente percepita la rapidità con cui un cambiamento nelle aspettative inflazionistiche può innescare un circolo vizioso fra salari e prezzi».
Dagli anni 60, spiega il Rapporto della Bri, il mondo è cambiato sotto tre aspetti fondamentali: primo, la globalizzazione dell’economia reale ha
accresciuto enormemente il potenziale di offerta e modificato in modo sostanziale i prezzi relativi , favorendo un ripiegamento dell’inflazione; secondo, la deregulation e il progresso tecnologico hanno prodotto un impatto profondo sui sistemi finanziari, che si basano in misura crescente sul mercato piuttosto che sull’intermediazione bancaria e sono popolati da società sempre più grandi e complesse; terzo, si è assistito a un riorientamento dei regimi monetari verso l’obiettivo prioritario di tenere bassa l’inflazione.
G3 monetario
Da questi singoli cambiamenti, e forse ancor più dalla loro interazione, discendono nuovi insegnamenti al pari di nuove incertezze, «per cui è possibile che, in futuro, le pressioni deflazionistiche ricorrano con quasi altrettanta frequenza di quelle inflazionistiche». Dall'interazione di queste trasformazioni, aggiunge il Rapporto della Bri «potrebbe crearsi un ciclo "boom and bust" nel sistema finanziario che, a sua volta, genererebbe forze frenanti, con ripercussioni in grado di indebolire in vario modo l’economia reale. E se un simile processo dovesse avere inizio in una situazione di inflazione già bassa, non si possono escludere esiti deflazionistici indesiderati».
Per quanto riguarda la politica monetaria, negli Stati Uniti il perdurare di una forte espansione economica e lo spostamento dei rischi verso possibili pressioni inflazionistiche hanno indotto la Federal Reserve a ridurre il grado di condiscendenza monetaria con una serie di incrementi graduali dei Fed Funds. Nei Paesi della zona euro, invece, la Bce ha mantenuto fermi i tassi ufficiali, in quanto una crescita economica al disotto del potenziale e l’apprezzamento dell’euro continuavano a moderare le spinte inflazionistiche. La Banca del Giappone, infine, ha tenuto il costo del denaro praticamente a quota zero, poiché fattori economici e finanziari avversi hanno avuto un impatto tale da escludere l’uscita dalla deflazione. In sintesi negli ultimi dodici-diciotto mesi l’indirizzo monetario nelle economie del G3 (sui delicati problemi valutari sta profilandosi un nuovo gruppo Usa-Eurolandia-Giappone) è pertanto rimasto accomodante.
A Basilea, prima della riunione della Bri, il governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan ha invece affermato che i tempi per l'abbandono da parte dello yuan dell'aggancio al dollaro non sono ancora maturi. Zhou ha aggiunto che l’argomento non figurava oggi all’ordine del giorno. Gli Usa e altri Paesi da tempo premono invece per una rivalutazione della moneta cinese. Anche il premier Wen Jiabao ha ribadito da Pechino che alla Cina serve ancora tempo per preparare un provvedimento del genere e che il Paese deciderà in autonomia come e quando rivalutare la propria moneta.
Euro e dollaro
Da gennaio a oggi il dollaro è però salito del 12% rispetto all'euro e del 7% rispetto allo yen. Come fa notare l'ultimo numero di «Newsweek», se fino a poche settimane fa il biglietto verde era visto inesorabilmente in declino, per i crescenti "deficit gemelli" degli Stati Uniti (commerciale e di bilancio), dopo il doppio "no" di francesi e tedeschi alla Costituzione europea e perdurando la modesta crescita dell'economia europea, è calato anche l' «appeal» dell'euro come valuta internazionale. Né lo yen giapponese, né lo yuan cinese possono subentrare però aspirare a diventire una possibile alternativa al dollaro, per l'inadeguatezza dei mercati azionari e obbligazionari dei due giganti asiatici, che ancora privilegiano politiche mercantilistiche, mantenendo basso il cambio per incrementare le esportazioni.
Questa settimana la partita sul valutario riparte dal meeting del Federal
Open Market Committee (29-30 giugno), che con buona probabilità rialzerà il costo del denaro di un altro quarto di punto, portando i Fed Funds al 3,25 per cento. Mercoledì scorso invece Banca centrale svedese ha deciso di abbassare i tassi al minimo storico dell'1,5% con una manovra di mezzo punto percentuale. La mossa ha aumentato il pressing sulla Bce, rafforzando l'attesa di un allentamento monetario, anche se lo stesso presidente dell'istituto Jean-Claude Trichet continua a escludere un taglio del costo del denaro. Tuttavia, negli ultimi giorni, sia il ministro dell'Economia tedesco, Wolfgang Clement, sia il suo omologo francese, Thierry Breton, hanno di nuovo espresso l'auspicio di un taglio dei tassi.
I sostenitori di questa linea - si legge sul «Financial Times» - affermano che «l'immobilismo della Bce sui tassi sta impedendo all'economia europea di raggiungere quei ritmi di crescita necessari a ridurre la disoccupazione e a stimolare riforme più ampie». Dall'inizio del mese anche la Bce avrebbe però ammorbidito la sua linea, perché se prima Trichet affermava che un taglio dei tassi «non è un'opzione», ora la politica ufficiale dell'Eurotower è che non ci sono predisposizioni («no bias»), né verso un taglio, né verso un incremento. «Alcuni membri del comitato di politica monetaria della Bce ritengono che un taglio dei tassi nell'eurozona sarebbe poco efficace per la crescita,- chiosa il quotidiano britannico della City - altri invece pensano che nei prossimi mesi una riduzione potrebbe essere giustificata, se non si profilerà la ripresa che ci si attende».
27 giugno 2005
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