Storia della crisi generata dai mutui subprime

Lou Cypher

Stairway To Heaven
Registrato
9/8/06
Messaggi
23.976
Punti reazioni
2.527
Con parole semplici, alla portata dei neofiti, il bravo Davide Toffa ci racconta la storia di una delle crisi finanziarie più subdole che rimarranno nella Storia dell’economia moderna.

Un ringraziamento a Vikying che con intelligenza ha riportato il link.

P.S.
Qualcuno nel Fol, confonde l'utilità di scambiarsi importanti articoli e notizie che necessariamente devono essere fotocopiati, con impellente desiderio di chattare con gli altri partecipanti del forum.
Senza l'uso frequente del copiaincolla, non verremo a conoscenza di articoli ed editoriali a cura dei più importanti opinionisti e critici a livello internazionale (The Wall Street Journal, Financial Times, il più modesto Sole24Ore, ecc. ecc.).
Nessuna censura o critica pertanto a chi vuol semplicemente chattare, ma non critichiamo più del dovuto chi si dà da fare per rendere un servizio alla comunità del forum.


Crisi dei mutui Subprime USA
Andiamo con ordine. Ci siamo lasciati, prima della pausa estiva, con un movimento laterale del nostro indice e future S&P MIB, che si protraeva fin dal mese di aprile in prossimità dei massimi intorno ai 44.000 punti. Il nostro indice aveva segnalato prima degli altri ciò che poi si sarebbe verificato durante l’estate, poiché proprio in quei mesi stava sottoperformando gli indici delle principali borse mondiali. Questo evento da solo ha confermato il ruolo di indice guida che il nostro S&P MIB ha assunto da qualche anno a questa parte, in quanto molto spesso anticipa ciò che poi puntualmente si verifica sulle altre piazze finanziarie.

Durante i mesi di luglio prima e agosto poi, si è quindi innescato quel movimento al ribasso che ha poi destato più di una preoccupazione, riflessa puntualmente dei titoli dei principali quotidiani, che hanno correttamente interpretato il sentimento dominante sui mercati. A tal proposito ritengo necessario aprire una parentesi, proprio nei giorni di maggior crisi mi è capitato di leggere una serie di riflessioni in proposito che accusavano i giornali di seminare il panico, senza realmente sapere ciò che stava accadendo sui mercati finanziari. È certamente vero che principali quotidiani e testate italiane si sono astenuti dal proporre analisi approfondite, salvo qualche raro caso, ritengo tuttavia che è alla ricerca di spiegazioni non superficiali non si rivolga ai quotidiani, ivi inclusi quelli dedicati all’informazione economica e finanziaria. Ritengo altresì che il compito dei quotidiani e settimanali sia quello di registrare ciò che accade nel mondo, riflettendo i sentimenti della maggior parte delle persone a fronte di tali eventi, se questo punto si pensa che ovviamente la maggioranza non è composta da specialisti in economia e finanza, così come spesso non sono specialisti coloro che sui quotidiani si occupano di queste cose, essendo più facilmente identificabili come cronisti di economia finanza. Come tali credo svolgano il loro lavoro correttamente, poiché si fanno interpreti dei sentimenti della maggioranza.
Ecco quindi che ritengo sia il compito di altre fonti di informazione, come ad esempio i blog finanziari o i siti specializzati in economia finanza, cercare di analizzare in modo più approfondito e possibilmente oggettivo quanto accaduto. Sempre durante questi mesi estivi, mi è capitato raramente di imbattermi in analisi di qualche valore proveniente da fonti di informazione nazionale, se si escludono gli innumerevoli interventi dove chi scriveva si limitava a constatare come lo avesse perfettamente previsto e segnalato ai propri lettori con largo anticipo. Per contro i blog economico finanziari stranieri hanno svolto un eccellente lavoro di analisi, cui io stesso mi sono rivolto per approfondire le mie conoscenze sul tema. Non voglio certo di fare la solita scontata critica ciò che accade entro i nostri confini, per esaltare quello che avviene al di fuori degli stessi, ma ritengo necessario sottolineare come spesso manchi del tutto un tentativo di analisi approfondita degli eventi cui assistiamo sui mercati finanziari.
Chiudendo la parentesi, nella quale mi scuso per la lunghezza, proviamo a partire proprio da quella che è stata più volte additata come la causa della crisi delle borse internazionali: i mutui subprime. Iniziamo subito col dire come il problema sia in realtà molto più ampio e si possa in realtà identificare come un problema che riguarda il credito in generale e di cui il problema dei mutui ad alto rischio rappresenta la punta dell’iceberg. Cerchiamo quindi di riassumere quanto accaduto, che ebbe inizio subito dopo l’11 settembre con il ribasso dei tassi di interesse portati dalla federal reserve ai minimi storici, addirittura al di sotto del tasso di inflazione, rendendo così l’accesso al credito estremamente facilitato poiché di fatto ci si è trovati in presenza di tassi di interesse negativi. Lo scopo di questa politica monetaria espansiva era ovviamente quello di sostenere l’economia ed evitare una crisi profonda che l’attacco alle torri gemelle avrebbe potuto aggravare.
La conseguenza di questo accesso facilitato al credito, da parte di tutti ha portato con sé gli elementi poi sfociati nella crisi di quest’estate. Anche mantenendo una prospettiva italiana alle conseguenze innescate dai bassi tassi di interesse, si può osservare il rialzo del mercato borsistico iniziato nel 2003, con gli eccessi che lo stesso prodotto, come le scalate dell’estate 2005: antonveneta, bnl ed rcs, tutte basate su capitali acquisiti in prestito dagli stessi scalatori, fino ad arrivare al recente scandalo Itallease, che non a caso è stato innescato dal rialzo dei tassi di interesse avvenuto a partire dal 2006, come conseguenza di un uso discutibile degli strumenti derivati da parte del management dell’istituto.
Per quanto riguarda ciò che è avvenuto negli Stati Uniti, la conseguenza del facilitato accesso al capitale di prestito ha portato nel caso più evidente dei mutui ad alto rischio abbinato alla bolla del mercato immobiliare alla costruzione di un castello di carta, che tutti sapevano non potesse durare.In sostanza, la catena di eventi innescata dai continui rialzi nel prezzo delle abitazioni ha portato all’accensione di mutui per l’acquisto di case, anche a scopo speculativo nel caso di seconde terze e quarte case, che spesso arrivavano al 100% del valore dell’immobile e anche oltre se si pensa a quei mutui che vedevano rimborsare dalle prime rate solo una parte del costo degli interessi, portando di fatto ad un finanziamento di importo superiore al valore dell’immobile acquisito. Negli ultimi due anni, sono sorte forme di finanziamento a tasso variabile che nei primi anni di rimborso proponevano ai sottoscrittori tassi d’interesse molto bassi, i cosiddetti teaser rate, portandoli a sottoscrivere dei mutui che si sarebbero rivelati vere e proprie bombe ad orologeria, nel momento in cui il tasso di interesse fosse stato allineato a quelli di mercato, che nel frattempo stavano aumentando, a causa della fine della politica di ribasso dei tassi di interesse praticato dalla fed.
Ecco quindi che nell’ultimo anno sono aumentati a dismisura il numero di mutui non onorati, a questo si è abbinata la fine della bolla speculativa immobiliare che ha visto negli Stati Uniti una diminuzione del prezzo delle abitazioni. Chi aveva acceso un mutuo negli ultimi due anni si ritrovava quindi con un debito superiore al valore di ciò che aveva acquistato, abbinato a tassi di interesse in aumento che si riflettevano in aumenti della rata mensile da corrispondere. A quel punto, anche vendendo la proprietà acquisita non si riusciva ad estinguere il mutuo e molte famiglie si sono ritrovate costrette a sospendere i pagamenti, con tutti problemi conseguenti per loro e per gli intermediari finanziari che avevano erogato i mutui. Se a ciò si aggiunge il fatto che i mutui subprime erano concessi a persone con una storia debitoria problematica, cui spesso non si chiedeva neanche di dimostrare la possibilità di pagare il mutuo, ad esempio dando informazioni sulla propria professione e situazione patrimoniale.
Purtroppo i problemi non finivano qui, poiché le banche concedenti i mutui al fine di non esporsi a loro volta al rischio legato al rialzo dei tassi, cedevano immediatamente i mutui ad altre istituzioni finanziarie. In sostanza, la banca erogatrice non era altro che un venditore, poiché cedendo immediatamente il debito ad altri si liberava dei rischi ad esso connessi. Da qui derivava la conseguente minor rigidità nella concessione degli stessi.
Anche coloro che acquistavano dalle banche i debiti, li rivendevano a loro volta ad altre istituzioni finanziarie con un meccanismo abbastanza complesso che vedeva il sezionamento di ogni singolo debito in più parti, che si andavano a cumulare poi in nuovi strumenti finanziari, che assumevano la forma di titoli obbligazionari, sottoposti alle società di rating per una valutazione basata sulle singole componenti degli stessi titoli e non più sull’affidabilità dei debiti originari. Ecco quindi che sul mercato venivano immessi titoli con una valutazione di affidabilità superiore a quella reale. Chi erano i destinatari di questi titoli? C’è un lungo elenco di acquirenti che basandosi sui rating delle agenzie come metro di giudizio per i titoli che stavano acquistando, si è ritrovato a possedere enormi quantitativi di obbligazioni poi investite dal problema dei mancati pagamenti dei mutui di cui sopra. Tra questi ci sono numerosi fondi pensione, investitori istituzionali fino ad arrivare ai tanto famigerati hedge fund, che meritano un ulteriore approfondimento.
Molti di voi sapranno che questi hedge fund non sono altro che i fondi di investimento, molto simili ai comuni fondi cui hanno accesso tutti i risparmiatori, la differenza sta nell’ammontare minimo delle somme investite negli stessi, solitamente molto elevato, e nel tipo di strategia di investimento adottata. Spesso questi fondi investono sia rialzo sia al ribasso, laddove i tradizionali fondi comuni investono solo al rialzo, fino ad arrivare a dotare complesse strategie basate su modelli matematici, si tratta dei cosiddetti quant fund o fondi quantitativi, elaborati da computer che poi operavano automaticamente sui mercati immettendo ordini di acquisto e vendita a seconda del verificarsi di determinate condizioni, le cosiddette black box. In realtà, esiste una precisa distinzione tra i fondi quantitativi e il black box trading, anche se in questa sede preferisco semplificarne l’esposizione. Un altro fattore alla base dei problemi sfociati nella crisi dei mercati finanziari, risiede nel fatto che questi hedge fund facciano massiccio ricorso al credito, grazie al cosiddetto effetto leva, arrivando ad investire cifre molto più elevate rispetto al patrimonio gestito. Per fare un esempio l’effetto leva può arrivare a trasformare ogni euro o dollaro di capitale investito in 30 euro o dollari investibili, ciò permette una moltiplicazione dei rendimenti, ma anche delle perdite eventuali. Un altro problema risiede infine nel fatto che questi fondi adottano spesso strategie molto simili, ciò può dar luogo ad effetti a catena che si innescano qualora questi fondi inizino a perdere, come avvenuto, e si trovino a dover liquidare massicce quantità di titoli per far fronte agli impegni presi nel momento in cui si è ricorsi al credito per utilizzare la leva finanziaria. La similitudine nelle strategie crea quell’effetto a cascata per il quale questi fondi hanno iniziato a perdere tutti insieme e tutti insieme hanno cercato di liberarsi di enormi quantità di titoli scaricati sul mercato, con la conseguente caduta delle quotazioni degli stessi, anche perché in mancanza di compratori, la discesa dei prezzi è stata velocissima.
Arrivati a questo punto dovrebbe essere chiaro, e mi scuso per la lunghezza dell’esposizione che ho cercato di sintetizzare e semplificare al massimo, la sequenza di eventi che ho tentato di ricostruire e che ha portato alla crisi dei mercati finanziari cui abbiamo assistito e che, lo ripeto, è tutt’altro che terminata.
Man mano che aumentavano i mutui insoluti, parallelamente alla diminuzione del prezzo degli immobili, gli investitori istituzionali citati si sono ritrovati con un enorme numero di titoli che ritenevano sicuri il cui valore continuava a scendere. Nel tentativo di liberarsi di questi titoli si sono innescati gli effetti a catena descritti sopra che hanno portato al crollo dei mercati finanziari a livello globale. A quel punto le banche centrali di tutto il mondo sono intervenute con le note immissioni di liquidità sui mercati, per cercare di tamponare la situazione derivante da quella che è una crisi del credito, non solo limitata al problema dei mutui ad alto rischio, come avrete compreso da quanto descritto sopra. L’immissione di liquidità sono state ben più alte di quelle che seguirono l’11 settembre, ma apparentemente non sono bastate a frenare la caduta dei mercati. Si è così giunti al fatidico venerdì 17 agosto 2007, dove fin dalle prime ore del mattino con il crollo delle borse asiatiche, tutti si aspettavano quello che si sarebbe rivelato come un vero e proprio venerdì nero. A dire la verità fin dal giorno prima si susseguivano voci su un possibile intervento della fed, voci che avevano dato luogo ad un repentino rialzo delle borse americane prima della chiusura. Poi poco prima dell’apertura di venerdì delle borse statunitensi ecco l’annuncio a sorpresa della fed, un ribasso del tasso ufficiale di sconto di mezzo punto percentuale o 50 punti base. Sorpresa in realtà relativa solo alla massa degli investitori, poiché il rialzo repentino prima della chiusura di giovedì 16 sui mercati americani rivela come vi fosse una parte di investitori ben informati. Da notare come proprio quel venerdì 17 agosto era anche una giornata di scadenza delle opzioni, che ha dato all’intervento della fed un impulso ancora maggiore di quello che comunque si sarebbe verificato. In estrema sintesi, Bernanke ha probabilmente approfittato del fatto che numerosissime opzioni put (che puntavano su un ribasso degli indici impensabile sino a poche settimane prima), che avrebbero probabilmente arricchito i loro possessori, poiché sarebbero state loro corrisposte delle somme molto elevate se gli indici americani fossero stati sotto un certo livello al momento della scadenza delle stesse. L’annuncio del ribasso dei tassi avvenuto poco prima dell’apertura dei mercati, ha costretto moltissimi investitori con opzioni in scadenza a correre al riparo acquistando contratti future basati sugli indici e dando così un ulteriore spinta al rialzo alle quotazioni. Anche questa è una spiegazione semplicistica di quanto accaduto, che spero risulti sufficientemente chiara a tutti.
La mossa della fed ha salvato i mercati da quel venerdì nero annunciato, che poi non si è verificato. Da quel giorno il partito un recupero di tutte le borse internazionali che oggi è ancora in atto, anche se i problemi descritti e la crisi creditizia sono ancora presenti e non hanno, a mio avviso, ancora del tutto esaurito i propri effetti che probabilmente si faranno sentire ancora nei mesi e negli anni a venire. Questo perché il comportamento delle banche centrali ha dato luogo ad un problema di moral hazard, che in sintesi porta gli investitori istituzionali e i gestori dei fondi hedge (che a gran voce avevano richiesto e sperato in un intervento della fed che li salvasse dalle ingenti perdite presenti e future) ad assumere rischi più elevati poiché confidano proprio nell’intervento delle banche centrali che eviti loro le conseguenze più gravi delle loro scelte di investimento. Se quindi per il momento la crisi è stata evitata, non è possibile sapere quali sono le conseguenze cui assisteremo in futuro sia nel breve sia nel lungo periodo, di quanto accaduto.
Il consiglio per tutti è quello di prestare un’estrema attenzione e cautela nelle proprie scelte di investimento, perché mai come nel corso di questo 2007 i mercati finanziari hanno mostrato tutta la loro fragilità. Con questo non è mia intenzione predire catastrofi o simili, poiché altrimenti io stesso deciderei di cambiare mestiere, è solo un monito a prestare una maggiore attenzione nelle proprie scelte di investimento. Mai come oggi è importante sapere in cosa si investe, che cosa si compra, poiché se anche gli investitori istituzionali, che dispongono di una quantità di informazioni sicuramente maggiore e più accurata di quella di cui dispone l’investitore comune, hanno dimostrato come sia facile sbagliare, risulta facile immaginare quale sia la situazione che si trova davanti chi debba fare delle scelte di investimento.
 
sempre interessante, bravo ;)
 
Grazie Lou

primo per il ringraziamento( che non importava)
secondo per averlo messo, perchè fa capire molto bene ciò che sta succedendo
 
Metterei anche questo x chi vuole leggere

Crisi dei subprime: cosa non funziona
23-08-07

Gli attori del mercato finanziario hanno approfittato della creazione di barcollanti strumenti di debito ma non pagheranno il grosso del costo della crisi e le perdite ricadranno sulle spalle degli investitori finali. Vanno corrette tre cose: le stime del credito, valutazioni della negoziabilità degli asset e la trasparenza nel mercato al dettaglio delle attività finanziarie


Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni. L'Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.


L'Economist ha ragione?

C'è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom.
Ci sono quattro caratteristiche dell'attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:

1) L'enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale(1). L'ammontare nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent'anni fa.

2) Lo storico basso livello dei tassi d'interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni '90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi. I due grafici seguenti (IMF, ibidem) mostrano chiaramente la situazione anormale degli ultimi anni

) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e nell'Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 per cento del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.
4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 per cento e in Europa del 35 per cento, in Nord America è del 26 per cento, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.
Questi sono gli ingredienti della magia dell'innovazione finanziaria degli ultimi decenni: in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strtumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.


Dove sta il rischio

Questi strumenti sono state comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti. Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento "arm-length" è il più efficiente per collocare le risorse. Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema "con cui una persona che non può pagare trova un'altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare".
In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che - diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based - semplicemente non sanno dove sta il rischio. Lo testimonia questa dichiarazione nel giugno 2007 nella Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali (p. 167):
" Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo.".
Onesto, ma assai preoccupante.
Chi ci perde?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati. In altre parole, la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati.

L'allocazione del finanziamento


L'efficienza allocativa del finanziamento "arm-length" merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre.
Primo, ancora una volta, è emerso un problema di rating. Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la fragmentazione delle responsabilità conduce a ciò che L'Economist ha definito come "troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone". Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.
Secondo, i titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d'investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive. La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un'illusione. Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.

Terzo, c'è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato. Ci sono due reazioni ipocrite che emergono: chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria. La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un'annata molto recente). La seconda strada è perfino più assurda (come ci si poteva aspettare subito sostenuta dal Presidente Bush) poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti. La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l'organo di vigilanza) prova che la filosofia dell'attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l'opacità.


Non solo maggior educazione finanziaria

E' arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali. Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E' bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all'ultimo anello della "magia" della creazione del credito.
 
è tutto molto interessante ma credo che sia altrettanto interessante avere la vs. opinione in merito all'impatto su mercato immobiliare domestico i sub prime sono un fenomeno americano che si è riverberato in europa per le cartolarizzazioni.

Un impatto è senz'altro quello psicologico tutti parlano male dei mutui della difficolta a pagarli e quindi meno persone accedono ai mutui.
un altro impatto è nella maggiore cautela delle banche che però per mia esperienza era già molto forte anche prima.
(qualcuno diceva le banche ti finanziano solo se riesci a convincerle che effettivamente non avresti bisogno del finanziamento stesso)
infine i sub prime hanno indotto un ribbasso dei tassi negli stati uniti e probabilmente l'europa seguirà con benefica conseguenza.
 
è tutto molto interessante ma credo che sia altrettanto interessante avere la vs. opinione in merito all'impatto su mercato immobiliare domestico i sub prime sono un fenomeno americano che si è riverberato in europa per le cartolarizzazioni.

Un impatto è senz'altro quello psicologico tutti parlano male dei mutui della difficolta a pagarli e quindi meno persone accedono ai mutui.
un altro impatto è nella maggiore cautela delle banche che però per mia esperienza era già molto forte anche prima.
(qualcuno diceva le banche ti finanziano solo se riesci a convincerle che effettivamente non avresti bisogno del finanziamento stesso)
infine i sub prime hanno indotto un ribbasso dei tassi negli stati uniti e probabilmente l'europa seguirà con benefica conseguenza.

Il mio pensiero e ormai noto...calo dei tassi pericolo x le borse e speriamo che si fermi li, un calo minimo dei prezzi immobiliari sopratutto x un calo del costo del denaro.....l' ho fatta breve
 
Il mio pensiero e ormai noto...calo dei tassi pericolo x le borse e speriamo che si fermi li, un calo minimo dei prezzi immobiliari sopratutto x un calo del costo del denaro.....l' ho fatta breve

aggiungi l'inflazione, il petrolio a 100$ e gasolio a 1,3 € ed il quadro è completo
sperem
 
aggiungi l'inflazione, il petrolio a 100$ e gasolio a 1,3 € ed il quadro è completo
sperem

Già la speranza è che ci sia un calo del petrolio x contenere l' inflazione e permettere una discesa dei tassi in breve tempo...ma chi può dirlo
 
Già la speranza è che ci sia un calo del petrolio x contenere l' inflazione e permettere una discesa dei tassi in breve tempo...ma chi può dirlo

Matematicamente IMPOSSIBILE. Più aumenta la domanda di un bene (Cina e India) e conseguentemente ne diminuisce la quantità estraibile, più ne salirà il suo prezzo.

Sarà possibile una certa volatilità causata dalla speculazione, ma il trend non potrà che rimanere al rialzo.
 
Matematicamente IMPOSSIBILE. Più aumenta la domanda di un bene (Cina e India) e conseguentemente ne diminuisce la quantità estraibile, più ne salirà il suo prezzo.

Sarà possibile una certa volatilità causata dalla speculazione, ma il trend non potrà che rimanere al rialzo.

Bhe se ci fosse odore di recessione in Usa e Europa, potrebbe anche succedere....
Poi credo anchio sarà difficile, in qualche modo qualcuno interverrà x l' ennesima volta.
 
Chi ce l'ha, l'oil, lo vende con molta attenzione al prezzo perchè una volta finito, avrà finito anche le sue risorse.

Onde per cui, quando il suo prezzo accennasse a diminuire più del previsto per cause recessive, i produttori diminuirebbero drasticamente la produzione riequilibrandone la quotazione.
 
Chi ce l'ha, l'oil, lo vende con molta attenzione al prezzo perchè una volta finito, avrà finito anche le sue risorse.

Onde per cui, quando il suo prezzo accennasse a diminuire più del previsto per cause recessive, i produttori diminuirebbero drasticamente la produzione riequilibrandone la quotazione.



Lou forse così?


La fine del petrolio?




Forse la fine del petrolio è più vicina di quanto si possa immaginare. Stando a un articolo comparso su Technology Review, la prestigiosa pubblicazione del MIT, il picco di Hubbert (il punto massimo di estrazione di petrolio) potrebbe già essere stato raggiunto anche se nessuno lo ha ancora pubblicamente ammesso.

Esistono tuttavia alcuni strani (inquietanti?) segnali: nonostante i prezzi del greggio siano raddoppiati dal 2001, le compagnie petrolifere hanno aumentato i loro budget per la ricerca di nuovi giacimenti solo di piccole quantità; le raffinerie statunitensi lavorano alla massima capacità produttiva ma nessun nuovo impianto è stato costruito dal 1976 così come si procede a togliere dal servizio le petroliere più vecchie a una velocità molto maggiore dell'ingresso in opera di nuove unità e questo nonostante lo schedule delle navi sia completamente occupato. Si aggiunga, inoltre, lo storico annuncio fatto dall'Arabia Saudita il 6 marzo 2003: "Non siamo in grado di produrre più petrolio in risposta alla crisi in Iraq".

Kenneth Deffeyes in "Beyond Oil: The View from Hubbert’s Peak" sostiene che già nel 2003 si sapeva che non vi sono altri giacimenti di petrolio inutilizzati sul pianeta; secondo alcuni geologi sono state scoperte il 94 percento delle risorse disponibili. E fino a quando potremo tirare avanti? Secondo Deffeyes le stime di Hubbert erano sostanzialmente centrate: nel 2019 la produzione globale di greggio sarà scesa del 90% rispetto ai dati odierni; tuttavia già nel 2010 le pressioni saranno così intense che il mondo economico/industriale si starà già muovendo a tappe forzate verso nuove forme di energia. Ma non sarà una transizione del tipo "rose e fiori": ci sarà un forte rischio di carestie soprattutto nei paesi meno sviluppati. La crescita nella produzione agricola è infatti fortemente collegata al largo utilizzo di fertilizzanti su base petrolchimica (e trovare il cibo per sei miliardi di persone potrebbe diventare operazione difficile...).

La situazione porterà il mondo a riscoprire tecnologie cadute da tempo in disuso: dalla produzione di combustibile a partire dal carbone (come fecero i tedeschi nella seconda guerra mondiale), all'utilizzo massiccio dell'energia nucleare; accanto a queste si spera possano diventare importanti anche le fonti alternative.
 
Lou forse così?
La fine del petrolio?

Forse la fine del petrolio è più vicina di quanto si possa immaginare. Stando a un articolo comparso su Technology Review, la prestigiosa pubblicazione del MIT, il picco di Hubbert (il punto massimo di estrazione di petrolio) potrebbe già essere stato raggiunto anche se nessuno lo ha ancora pubblicamente ammesso.

Esistono tuttavia alcuni strani (inquietanti?) segnali: nonostante i prezzi del greggio siano raddoppiati dal 2001, le compagnie petrolifere hanno aumentato i loro budget per la ricerca di nuovi giacimenti solo di piccole quantità; le raffinerie statunitensi lavorano alla massima capacità produttiva ma nessun nuovo impianto è stato costruito dal 1976 così come si procede a togliere dal servizio le petroliere più vecchie a una velocità molto maggiore dell'ingresso in opera di nuove unità e questo nonostante lo schedule delle navi sia completamente occupato. Si aggiunga, inoltre, lo storico annuncio fatto dall'Arabia Saudita il 6 marzo 2003: "Non siamo in grado di produrre più petrolio in risposta alla crisi in Iraq".

Kenneth Deffeyes in "Beyond Oil: The View from Hubbert’s Peak" sostiene che già nel 2003 si sapeva che non vi sono altri giacimenti di petrolio inutilizzati sul pianeta; secondo alcuni geologi sono state scoperte il 94 percento delle risorse disponibili. E fino a quando potremo tirare avanti? Secondo Deffeyes le stime di Hubbert erano sostanzialmente centrate: nel 2019 la produzione globale di greggio sarà scesa del 90% rispetto ai dati odierni; tuttavia già nel 2010 le pressioni saranno così intense che il mondo economico/industriale si starà già muovendo a tappe forzate verso nuove forme di energia. Ma non sarà una transizione del tipo "rose e fiori": ci sarà un forte rischio di carestie soprattutto nei paesi meno sviluppati. La crescita nella produzione agricola è infatti fortemente collegata al largo utilizzo di fertilizzanti su base petrolchimica (e trovare il cibo per sei miliardi di persone potrebbe diventare operazione difficile...).

La situazione porterà il mondo a riscoprire tecnologie cadute da tempo in disuso: dalla produzione di combustibile a partire dal carbone (come fecero i tedeschi nella seconda guerra mondiale), all'utilizzo massiccio dell'energia nucleare; accanto a queste si spera possano diventare importanti anche le fonti alternative.

Beh, sì...in sintesi la situazione è questa....
Del picco di Hubbert ne avevo parlato poco tempo fa....interessa a pochi....

Ma...ma..tu hai abbondantemente copiaincollato....:D :D :D :no: :no: :no:
 
Giuro dopo non ne metto più

La prossima crisi mondiale del petrolio
Angelo Baracca

Il N. 96 di Guerre e Pace (febbraio 2003) si è occupato ampiamente del problema delle risorse e delle forniture petrolifere, in riferimento alla crisi irachena: tuttavia, a giudizio di chi scrive, l'impostazione è ancora carente, e non fornisce tutti i criteri necessari per rendersi conto della dimensione e dell'urgenza del problema (indubbiamente complesso). Il punto di vista più diffuso nell'opinione pubblica, infatti - che si è affermato nei decenni passati ad opera soprattutto delle multinazionali del settore, supportate come sempre dal servile allineamento degli organi di (dis)informazione - centra l'attenzione sul conteggio delle riserve di petrolio e di gas naturale esistenti nel mondo, quelle accertate, quelle probabili e quelle possibili (e soprattutto sulle due ultime categorie sono possibili molte mistificazioni), e conclude che esse saranno sufficienti per molti decenni. Questa sembra essere l'interpretazione anche della Monthly Review ("Usa, ambizioni imperiali", G&P, n.96, pp. 5-8) e di Middle East Report ("All'ombra della guerra", G&P, n. 96, pp. 11-13), che insistono appunto sul controllo delle riserve, la sicurezza energetica, l'egemonia petrolifera e la "presenza militare avanzata" degli Usa: la domanda di petrolio crescerà, e vanno difesi strenuamente gli interessi delle multinazionali a guida statunitense. In questo quadro, il petrolio sarebbe quindi "l'affare del futuro" (Gustavo Castro Soto, "La lotta per le risorse", G&P, n.96, pp. 29-32). Ci sembra francamente un'interpretazione per lo meno parziale, e riduttiva: per garantirsi questa egemonia nel futuro si spenderebbero 100, o forse 200 miliardi di $ per occupare l'Iraq.

In realtà si sta facendo strada da molto tempo un'impostazione molto diversa del problema, ripresa ormai anche da autorevoli organi quali Scientific American, Science, Nature, la International Energy Agency al G8 di Mosca del 1998, ma singolarmente assente su tutti gli organi di (dis)informazione nostrani: il che non stupisce. Purtroppo si registra un certo ritardo della nostra "sinistra" nel recepire un tema che potrebbe avere una rilevanza epocale nel determinare il futuro della società industrializzata ed i rapporti e le strategie mondiali: secondo questa impostazione, infatti, il problema del petrolio e del gas naturale sarebbe ben più drammatico e, letteralmente, catastrofico.

Il "picco del petrolio" è prossimo
Questo punto di vista non si basa sul conteggio delle riserve, ma sull'andamento con il tempo del ritmo di estrazione, cioè del numero di barili di petrolio (con questo termine ci riferiremo anche al gas naturale) che si possono estrarre annualmente: la "crisi del petrolio" diviene assai più drammatica e vicina. Quest'analisi risale a quasi mezzo secolo fa, quando il geologo statunitense M. K. Hubbert, ricercatore della Shell, nel 1956 predisse che il ritmo di estrazione nell'area petrolifera denominata US-48 (il territorio degli USA escluse l'Alaska e le Hawaii), che era in continua crescita, avrebbe raggiunto un massimo nel 1970 e poi avrebbe cominciato a diminuire rapidamente ed inesorabilmente. Hubbert venne deriso, ma questo picco si verificò realmente nel 1971 (fig. 1): si vede bene che l'estrazione di petrolio all'interno degli Usa sta precipitando e che tra pochi anni il paese dipenderà totalmente dalle importazioni.

L'estensione dell'analisi di Hubbert al petrolio e al gas naturale esistenti sul pianeta porta appunto alle conseguenze drammatiche che dicevamo. Tale analisi si fonda sul fatto che, quando si sfrutta un pozzo, o un giacimento, o un'area petrolifera, all'inizio il tasso di estrazione aumenta rapidamente, ma raggiunge un massimo quando la consistenza del giacimento si riduce circa alla metà, e poi incomincia a diminuire rapidamente (fig. 2): questo dipende dal fatto molto semplice che inizialmente si estrae il petrolio più superficiale e abbondante, con minore apporto di mezzi tecnici complessi e di energia, ma poi rimane via via il petrolio sempre più difficile da estrarre, la sua estrazione è più costosa, e richiede sempre più mezzi tecnici e più energia. Quest'ultimo fattore diviene alla fine cruciale, poiché si raggiunge un limite - quando il giacimento contiene ancora tra il 20 e il 40 % della sua riserva - in cui l'energia necessaria per estrarre il petrolio è maggiore dell'energia che questo contiene: a questo punto, chiaramente, non conviene più estrarre il petrolio, anche se lo si vendesse a mille dollari il barile! È necessario sottolineare che questo andamento è stato puntualmente verificato per i giacimenti di petrolio e di gas naturale conosciuti e sfruttati da un tempo sufficiente.

Questa analisi è stata estesa a tutte le riserve mondiali ed è stata condotta tenendo conto di tutti i fattori. Per esempio, si parla spesso dei depositi di petrolio che rimangono da scoprire: ma il ritmo delle scoperte di nuovi giacimenti petroliferi ha raggiunto il massimo nel lontano 1965, di gas naturale poco dopo, poi entrambi sono rapidamente diminuiti, ed il saldo rispetto ai consumi è diventato negativo e crescente dal 1980 per il petrolio e dal 1990 per il gas (fig. 3: si noti che è difficile ormai aspettarsi in questo senso dei "miracoli", visti i mezzi tecnici e scientifici che sono stati utilizzati a questo fine); e lo scarto tra il petrolio nuovo che viene scoperto e quello che viene consumato, che era inizialmente positivo, è divenuto stabilmente negativo ed aumenta inesorabilmente.

La prossima fine dell'"economia del petrolio"
Bene, la conclusione di questa analisi è agghiacciante. Tenendo conto di tutte le riserve mondiali, analizzando separatamente con il metodo di Hubbert tutte le aree petrolifere del pianeta, la loro natura e le loro prospettive future, la conclusione è che il ritmo di estrazione del petrolio raggiungerà un massimo attorno alla fine del presente decennio, e poi incomincerà a diminuire (fig. 4): e verso il 2050 si ridurrà all'incirca alla metà di quello attuale! Per il gas naturale l'andamento è analogo, il picco di estrazione è semplicemente spostato in avanti di 10 - 20 anni (fig. 5), ma la diminuzione successiva è inesorabile (i). Un'obiezione che viene spesso sollevata è che vi sono ingenti giacimenti di "petrolio non convenzionale" (sabbie e scisti bituminosi. idrocarburi pesanti o in acque profonde), il cui sfruttamento però non solo è problematico dal punto di vista tecnologico, ma soprattutto, ancora una volta, per la resa energetica.

Quello a cui saremmo di fronte, allora, non sono tanto (o solo) giganteschi interessi, una lotta per la supremazia petrolifera, ma la sopravvivenza stessa delle società industriali, dell'"economia del petrolio". Si tenga presente che il grado di dipendenza di queste società dal petrolio si aggira sull'80 %. Il tutto è aggravato dal fatto che, come ricordano anche gli articoli citati di G&P, si prevede inoltre un enorme incremento della domanda mondiale di questi combustibili fossili: secondo l'ultimo "Annual Energy Outlook" del Dipartimento dell'Energia nordamericano, del 61 % nei prossimi 25 anni, quando invece si estrarrà già annualmente meno petrolio rispetto ad oggi.

Queste fosche prospettive sono state occultate con ogni mezzo dalle compagnie petrolifere, ma oggi la loro evidenza incomincia a fare inevitabilmente breccia: il 25 agosto del 2002 la Shell ha ammesso in una dichiarazione al Sunday Times che "Potremmo vedere scarsità di petrolio dal 2025".

Vi è poi un'ulteriore conclusione che complica il quadro e spiega l'importanza cruciale dell'area mediorientale. Infatti il tasso di estrazione del petrolio nei paesi non-OPEC (che fino ad oggi è stata superiore alla produzione dei paesi OPEC) è già arrivata al massimo in questi anni ed incomincerà a diminuire, per venire superata dalla produzione dei paesi OPEC intorno al 2007. Ricordiamo che all'OPEC (fondato nel 1960) aderiscono attualmente i seguenti paesi: Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Venezuela (Ecuador e Gabon ne sono usciti).
In questo quadro si capisce molto meglio la caparbietà degli Usa nel volere sferrare questa guerra, costasse anche mille miliardi di $, e ridisegnare la geografia politica e l'assetto del Medio Oriente. Non vi è dubbio che gli obiettivi di questa guerra, e di tutta la strategia messa in atto da Washington dopo il crollo dell'Urss con le colossali spese militari connesse, sono molteplici: l'esigenza di supremazia ed egemonia planetaria, le istanze e il ricatto del sistema militare-industriale, il sostegno dell'economia interna, l'indebolimento e la divisione dell'Europa (ii), lo sbarramento della Cina, l'emarginazione della Russia, i giganteschi e di solito taciuti interessi legati al mercato internazionale della droga, uno dei più grossi giri d'affari a livello mondiale (iii). Il problema delle forniture energetiche comunque diviene vitale, non solo per gestire gli enormi interessi futuri, ma per la stessa sopravvivenza di questo sistema: del resto, tutti questi obiettivi, lungi dall'essere in contraddizione, si integrano tra loro. Direi addirittura che George W. Bush, dal suo punto di vista, non può fare altro! Washington ha stracciato il Protocollo di Kyoto; ha stabilito che non vuole (o non può) rallentare la propria locomotiva davanti a nulla; che non ammette problema ambientale, umanitario, globale che possa anche lontanamente ostacolarla. L'America continuerà come ora, o peggio, costi quel che costi, a dispetto di tutto e di tutti: se sarà necessario, "Muoia Sansone e tutti i Filistei".

Ma tra poco non ci sarà petrolio per tutti, ed è vitale stabilire un'assoluta egemonia mondiale, occupare militarmente le regioni strategiche ed accaparrarsi tutto il petrolio che verrà estratto, fino all'ultima goccia. Su queste basi si inquadra tutta la politica di Washington degli anni '90: l'estensione della sua egemonia sul Caucaso e sulle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia centrale (G. R. Capisani, "Uzbekistan a stelle e strisce" G&P, n. 86, p. 17; A. Lodovisi, "Povertà senza fine, G&P, n. 95, p.9) e l'occupazione del relativo corridoio dell'Afganistan (G. Monbiot, "Sognando un oleodotto", e F. Schlosser, "Alla conquista dell'eldorado petrolifero", G&P, n. 85, pp. 25, 26), perché l'obiettivo dopo l'Iraq sia l'Iran, la sua politica in America Latina, la sua penetrazione, anche se per ora più discreta, in Africa (C. Jampaglia, "L'Africa cambia", G&P, n. 91, p. 14).

Quello che proprio non si capisce, invece, è l'Europa: possibile che i nostri governanti non capiscano che non potranno stare all'infinito all'ombra, e al servizio del potente alleato di oggi, che quando sulla zattera non ci sarà più posto per tutti verranno buttati a mare senza tanti complimenti anche loro? Come suol dirsi, ... ci sono o ci fanno?

Siamo veramente nelle mani di un gruppo di ladri, furfanti, affaristi senza scrupoli che reggono i destini del mondo e dell'umanità. Perché "un mondo diverso sia possibile" è assolutamente necessario cambiare radicalmente, e al più presto, il modello di produzione e di consumi, i concetti di benessere e di sviluppo: l'"economia del petrolio" non è più sostenibile. Molti sarebbero i problemi connessi al "picco del petrolio" che dovrebbero essere affrontati (le alternative energetiche; le emissioni di CO2, soprattutto se aumenterà il ricorso al carbone; le concomitanti crisi ambientali), ma in questa sede ci premeva soprattutto porre il problema centrale in relazione alla crisi irachena e mediorientale.
 
Beh, sì...in sintesi la situazione è questa....
Del picco di Hubbert ne avevo parlato poco tempo fa....interessa a pochi....

Ma...ma..tu hai abbondantemente copiaincollato....:D :D :D :no: :no: :no:

Azz mi hai preceduto, quindi leggiti anche questo.
Buona notte
 
Lou forse così?


La fine del petrolio?




Forse la fine del petrolio è più vicina di quanto si possa immaginare. Stando a un articolo comparso su Technology Review, la prestigiosa pubblicazione del MIT, il picco di Hubbert (il punto massimo di estrazione di petrolio) potrebbe già essere stato raggiunto anche se nessuno lo ha ancora pubblicamente ammesso.

Esistono tuttavia alcuni strani (inquietanti?) segnali: nonostante i prezzi del greggio siano raddoppiati dal 2001, le compagnie petrolifere hanno aumentato i loro budget per la ricerca di nuovi giacimenti solo di piccole quantità; le raffinerie statunitensi lavorano alla massima capacità produttiva ma nessun nuovo impianto è stato costruito dal 1976 così come si procede a togliere dal servizio le petroliere più vecchie a una velocità molto maggiore dell'ingresso in opera di nuove unità e questo nonostante lo schedule delle navi sia completamente occupato. Si aggiunga, inoltre, lo storico annuncio fatto dall'Arabia Saudita il 6 marzo 2003: "Non siamo in grado di produrre più petrolio in risposta alla crisi in Iraq".

Kenneth Deffeyes in "Beyond Oil: The View from Hubbert’s Peak" sostiene che già nel 2003 si sapeva che non vi sono altri giacimenti di petrolio inutilizzati sul pianeta; secondo alcuni geologi sono state scoperte il 94 percento delle risorse disponibili. E fino a quando potremo tirare avanti? Secondo Deffeyes le stime di Hubbert erano sostanzialmente centrate: nel 2019 la produzione globale di greggio sarà scesa del 90% rispetto ai dati odierni; tuttavia già nel 2010 le pressioni saranno così intense che il mondo economico/industriale si starà già muovendo a tappe forzate verso nuove forme di energia. Ma non sarà una transizione del tipo "rose e fiori": ci sarà un forte rischio di carestie soprattutto nei paesi meno sviluppati. La crescita nella produzione agricola è infatti fortemente collegata al largo utilizzo di fertilizzanti su base petrolchimica (e trovare il cibo per sei miliardi di persone potrebbe diventare operazione difficile...).

La situazione porterà il mondo a riscoprire tecnologie cadute da tempo in disuso: dalla produzione di combustibile a partire dal carbone (come fecero i tedeschi nella seconda guerra mondiale), all'utilizzo massiccio dell'energia nucleare; accanto a queste si spera possano diventare importanti anche le fonti alternative.

se e' cosi' di bolle della NewEnergy ce ne faremo almeno un paio...
 
ragazzi mi siete stati utilissimi davvero! Una buonissima fonte x la mia tesi che parla di crisi mutui subprime ;)
 
Indietro