Riforma Tfr

 

La Riforma

Il primo giorno dell’anno è passato già da un po’, eppure alzi la mano il lavoratore che ha capito perfettamente la riforma del trattamento di fine rapporto (tfr), in vigore, appunto, dal primo gennaio del 2007, e, soprattutto, il lavoratore che ha preso una decisione con reale cognizione di causa. In effetti la materia è complessa e farraginosa. Ma procedendo con ordine si può cercare di fare un po’ di chiarezza. La riforma del tfr costituisce un importante passo per lo sviluppo del sistema di previdenza complementare, sistema che si affianca a quello della previdenza obbligatoria, che assicura la pensione di base. Il punto critico è che i dipendenti che abbiano varcato la soglia del mondo del lavoro dopo il 1996 percepiranno a tempo debito, a differenza dei loro predecessori, una pensione pubblica decisamente inferiore rispetto al loro ultimo stipendio. Da qui la necessità di prevedere per loro, da parte dello Stato, una sorta di pensione aggiuntiva e, appunto, complementare. Ecco perché il Governo incentiva questa scelta prevedendo alcuni specifici ed esclusivi vantaggi fiscali a patto che il lavoratore opti per una forma pensionistica complementare. Dal primo gennaio di quest’anno è entrato in vigore il decreto legislativo 5 dicembre 2005 n° 52, che ridisegna la previdenza complementare italiana, stabilendo che i lavoratori dipendenti possono scegliere di destinare il proprio tfr, finora gelosamente custodito tra le mura dell’azienda, alle forme pensionistiche complementari.

Il TFR, questo sconosciuto

Il tfr, conosciuto anche come liquidazione, è la somma che il dipendente riceve dall’azienda quando si interrompe, per raggiungimento dell’età pensionabile, per dimissioni o licenziamento, il rapporto di lavoro. È costituito grazie all’accantonamento annuale di una quota pari al 6,91% della retribuzione lorda del lavoratore. Gli importi accantonati sono rivalutati alla fine di ogni anno a un tasso determinato da una parte fissa (1,5%), più il 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo Istat, ovvero dell’inflazione. Al momento della liquidazione il tfr è tassato con l’applicazione dell’aliquota Irpef media del lavoratore nell’anno in cui è percepito.

Le forme pensionistiche complementari

Ma cosa sono le forme pensionistiche complementari? Appartengono alla categoria i fondi pensione negoziali (o chiusi), i fondi pensione aperti, i contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziali nonché i fondi pensione istituiti prima del 1992. I fondi pensione negoziali nascono da contratti o accordi collettivi che individuano i soggetti a cui il fondo si rivolge sulla base dell’appartenenza a un determinato comparto, impresa, gruppo di imprese o territorio. I fondi pensione aperti sono, invece, istituiti direttamente da banche, società di intermediazione mobiliare, compagnie di assicurazione e società di gestione del risparmio. I contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziali sono contratti la cui disciplina specifica è contenuta sia nella polizza sia in un apposito regolamento. Infine, i fondi pensione preesistenti al 1992 sono forme di previdenza complementare che tuttavia presentano alcune peculiarità rispetto ai fondi istituiti successivamente. Le forme pensionistiche complementari possono essere anche suddivise in due sub-categorie, quelle collettive e quelle individuali. Sono forme collettive i fondi pensione di natura negoziale istituiti per effetto di un contratto o accordo collettivo di lavoro anche aziendale, i fondi istituiti o promossi dalle regioni, i fondi aperti che ricevono adesioni collettive, i fondi istituiti dalle casse professionali privatizzate e i fondi preesistenti. Confluiscono, per contro, nella sotto-categoria dei fondi individuali tutte le forme attuate mediante fondi aperti sulla base di adesioni rigorosamente singole e personali o mediante contratti di assicurazione sulla vita. La scelta di aderire a una forma collettiva piuttosto che a una individuale dipende dalla volontà del singolo lavoratore.

Cosa cambia con la riforma

La vera rivoluzione copernicana del decreto 252/2005 è che i lavoratori in servizio al primo gennaio del 2007 potranno scegliere di destinare il proprio tfr futuro a una forma pensionistica complementare oppure di mantenerlo presso il datore di lavoro. In quest’ultimo caso per i lavoratori di aziende con oltre 50 dipendenti l’intero tfr è trasferito dall’azienda al fondo per l’erogazione del tfr ai dipendenti del settore privato, gestito, per conto dello Stato, dall’Inps; le aziende con meno di 50 dipendenti, al contrario, potranno continuare a mantenere le quote di tfr al proprio interno, costituendo così la vera e propria liquidazione finale del lavoratore. La scelta di destinazione del tfr maturando a una forma pensionistica complementare deve essere espressa dal dipendente attraverso una dichiarazione scritta indirizzata al proprio datore di lavoro con l’indicazione della forma di previdenza complementare prescelta. E’ necessaria una dichiarazione scritta anche se si sceglie di mantenere il tfr presso l’azienda. Secondo la regola del cosiddetto “silenzio-assenso”, se entro il 30 giugno di quest’anno il dipendente non effettua una scelta, il datore di lavoro trasferisce il tfr futuro alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi anche territoriali, o ad altra forma collettiva individuata con un diverso accordo aziendale, se previsto. Va sottolineato che la scelta di destinare il tfr maturando a una forma pensionistica complementare, sia esplicitamente sia implicitamente, è irreversibile, mentre se si decide di mantenere il tfr in azienda si può poi sempre optare per il trasferimento a un fondo o simili.

Cosa dicono gli esperti: i pro fondi

Di questi tempi si sente spesso dire in tv o si legge sui giornali che per chi ha appena fatto il proprio ingresso sul mercato del lavoro è meglio trasferire il tfr ai fondi, mentre non vale lo stesso discorso per chi sta completando gli ultimi anni della propria vita lavorativa prima della pensione. In uno studio pubblicato sulla Voce.info, la professoressa di economia politica presso l’Università Cà Foscari di Venezia, Agar Brugiavini, tenta di effettuare una valutazione di convenienza relativa delle alternative a disposizione di chi si trova di fronte alla scelta se lasciare il futuro tfr in azienda oppure conferirlo a un fondo pensione. L’esercizio consiste in una simulazione, basata sulle regole vigenti e sulle ipotesi discusse, che permetta un confronto tra tfr e fondo pensione. Dalla simulazione si ottengono i montanti sia nel caso del tfr sia nel caso del fondo derivanti dalla medesima contribuzione (6,91% annuo del salario lordo), sulla base di alcune ipotesi. Il montante rappresenta la cifra accumulata nel tempo dal lavoratore che si rende disponibile al momento del pensionamento (e quindi è una ricchezza). Dal modello emerge il montante derivante da un fondo chiuso (a parità di contribuzione) è sempre preferibile al tfr, particolarmente per orizzonti temporali più lunghi (e dunque per i giovani che si sono appena affacciati al mercato del lavoro. “Questo risultato – si apprende dal paper di Brugiavini – è dovuto in parte ai rendimenti ipotizzati, sulla base delle informazioni desumibili, che sono più vantaggiosi del rendimento offerto dal tfr, in parte alla caratteristica che il tfr recupera solo il 75% dell’inflazione. Per i fondi aperti i risultati sono di più difficile lettura, perché se da un lato si possono raggiungere rendimenti elevati, dall’altro si hanno maggiore e maggiori costi di gestione”.

Cosa dicono gli esperti: i contro

Ma se la maggior parte degli economisti ed esperti di materie finanziarie e tributarie sembrano propendere più per l’opzione fondi, specie per i più giovani, c’è anche chi canta fuori dal coro. Uno dei cavalli di battaglia dei bastian contrario è la discutibilità del criterio in base al quale chi scelga la previdenza complementare lo faccia in maniera irreversibile e non possa quindi più cambiare idea, mentre chi decida di mantenere la liquidazione alla fine dell’età lavorativa possa sempre optare, a un certo punto, per i fondi. Inoltre, i fondi azionari, seguendo l’andamento dei mercati equity, potrebbero anche perdere gran parte del proprio valore. Va segnalato che storicamente, su lunghi periodi di tempo, i modelli economici dimostrano che mercati azionari crescono sempre, ma a volte, come è stato ad esempio dopo l’11 settembre del 2001 e l’attentato alle Torri Gemelle, fanno segnare dei veri e propri crolli verticali. Tale perdita di valore, per contro, non si può avere con il tfr, che, essendo di anno in anno aggiustato anche per tenere conto in parte dell’inflazione, difende il proprio potere d’acquisto.

 

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