Notizie Notizie Mondo La Libia brucia. S’infiamma il petrolio. Per Morgan Stanley è finita la tregua sulle Borse

La Libia brucia. S’infiamma il petrolio. Per Morgan Stanley è finita la tregua sulle Borse

21 Febbraio 2011 13:11

La Libia brucia. E la crisi che da Bengasi è arrivata a colpire il cuore della capitale del Paese, Tripoli, infiamma il prezzo del petrolio che stamattina è balzato ai massimi da settembre 2008 a quota 105 dollari al barile. E’ un copione già visto con le turbolenze in Egitto dei giorni scorsi che hanno portato il Brent, il greggio del Mare del Nord, punto di riferimento principale del mercato europeo, a volare per la prima volta in due anni oltre i 100 dollari al barile ancora nelle ultime sedute della settimana appena trascorsa. Ma il gioco si ancora più duro nell’ex colonia italiana. Mentre l’Egitto non è un produttore fondamentale di petrolio – ma ad influenzare i mercati è il timore che due rotte critiche per l’approvvigionamento, il Canale di Suez e l’oleodotto Sumed, attraverso i quali transita su territorio egiziano circa il 4,5% della produzione globale di greggio, possano essere interrotte – la Libia lo è: è uno dei maggiori produttori di greggio, fa parte dell’Opec, ossia del cartello dei produttori esportatori, è suo il gas diretto in particolare in Europa e in Italia. 


La Libia ha iniziato lo sfruttamento del petrolio nel 1959, lo ha nazionalizzato nel 1970, consentendo al paese di registrare nel 1977 il reddito annuo pro capite più elevato del continente africano. Una posizione mantenuta anche nel 2010 con oltre 14 mila dollari. Il paese africano è tra i primi venti produttori con il 2,1% del totale ma è l’ottavo per riserve di petrolio al mondo con 44,3 miliardi di barili. In altre parole la Libia ha le mani sul 3,3% delle riserve totali con una vita media residua di oltre 73 anni. Tripoli esporta poco più di 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno e secondo alcuni organi di stampa specializzata del Nord Africa ha intenzione di incrementare la produzione con riserve che aumenteranno da 1,3 triliardi a 2,8 triliardi di metri cubi, in grado di posizionare la Libia poco sotto la top ten dei produttori mondiali di gas naturale. La situazione da questa mattina nel Paese è fuori controllo. Le notizie che si rincorrono veloci sul web descrivono un Paese ormai in piena guerra civile. Questa mattina nella capitale libica è andata a fuoco anche la sede del Congresso generale del Popolo, cioè il parlamento. In un discorso trasmesso dalla tv Saif al-Islam Gheddafi, uno dei figli del leader Muammar, al potere da 42 anni, ha tuonato che l’esercito imporrà la sicurezza a qualunque costo.


Oltre al pericolo Maghreb sul prezzo del petrolio influisce anche il possibile effetto contagio con i dubbi sulla possibile estensione del conflitto anche al Medio Oriente e nel Golfo. Un’eventualità che getterebbe nel caos la produzione e l’esportazione di greggio in tutto il mondo con choc simili a quelli del ’73 e del ’79 anche se, sottolineano alcuni analisti, è difficile prevedere gli effetti: per esempio da un blocco in Egitto si potrebbe avrebbe questa volta un impatto più limitato, essendo ormai l’epicentro della richiesta di petrolio spostato decisamente verso l’Asia. Eppure la situazione è in divenire, e soprattutto è imprevedibile. Sarebbero almeno 300 i morti a Bengasi negli ultimi cinque giorni di scontri. Ma è un bilancio che col passare delle ore sembra essere destinato a salire. Da una Libia nel caos alcuni clan da decenni in lotta tra di loro per il potere potrebbero sfruttare la situazione. Il ritorno sulla scena politica di Abdelsalam Jallud, ex premier libico e braccio destro di Gheddafi, ha riportato l’attenzione degli esperti proprio sulle tensioni tribali nel paese nordafricano. La tribù di Gheddafi, i Qadhadfa, è la principale rivale dei Maghariba, di cui è membro Jallud, l’uomo che in molti in Occidente vorrebbero alla guida di una fase di transizione politica. I Maghariba possono al momento contare su un alleato come i Warfalla e gli Zintan che hanno sfidato apertamente il colonnello annunciando di aderire alla rivolta. I leader della tribù Warfalla sono tra i principali oppositori del governo, al punto che, secondo alcune fonti, nel 1993 organizzarono con alcuni generali dell’Aviazione un tentativo di colpo di Stato contro il colonnello poi fallito. E guarda caso in gioco ci sono i ricchi proventi dell’oro nero. 


All’agenzia internazionale per l’energia (AIE) seguono con apprensione gli sviluppi. L’organismo che controlla gli stock di sicurezza di petrolio dell’Ocse ha ammesso di essere in “stato di allerta elevato” per una possibile interruzione delle consegne dall’area Mediorientale e del Nord Africa. Secondo gli esperti Aie un giorno di stop dei rifornimenti di greggio libico è costato una decurtazione dell’offerta di circa 50 mila barili. L’agenzia controlla stock d’emergenza per 1,6 miliardi di barili, ma li userebbe solo nel caso di un grave blocco dei rifornimenti. La parola paura acquista oggi senso compiuto in Borsa. I prezzi del petrolio hanno registrato da questa mattina un significativo rialzo, più di un dollaro al barile, spinti dalla violenta repressione delle proteste in Libia e dai disordini in altri paesi arabi. Il Brent del Mare del Nord, punto di riferimento europeo e con consegna ad aprile, è stato venduto in mattinata nel mercato asiatico a 103,64 dollari al barile (159 litri), 1,12 dollari in più di venerdi. Il prezzo del petrolio degli Stati Uniti, il West Texas Intermediate (WTI) con consegna a marzo, è aumentato di 1.18 dollari, a 87,38 dollari al barile.

 

Al momento non ci sono indicazioni di rallentamenti o ostacoli alla produzione di greggio e gas. Ma a poco sembrano valse le rassicurazioni dell’Opec, pronto a aumentare la produzione nel caso le forniture dovessero subire uno stop o un rallentamento. “Se assisteremo ad una reale carenza dovremo aggiungere”, ha affermato il segretario generale dell’organizzazione, Abdalla el-Badri nei giorni scorsi, assicurando che al momento la situazione non è affatto fuori controllo. Parla fuori dai denti Gerard Minack di Morgan Stanley denunciando che il balzo dei prezzi del petrolio sopra la quota dei 100 dollari è un segnale che la tregua sulle Borse è davvero finita. Come dire con la Libia nel caos la spia rossa è accesa sotto il cielo del Nord Africa.