Telecronaca di Dario Fabbri su EuroMaidan;

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Visto che non posso postarla in Arena Politica, posto qua un valido documento che chiarisce come si sono svolti i fatti che hanno reso necessario il repulisti attuale chiaramente evitabile se i soliti noti con noi al seguito, non avessimo sbeffeggiato Putin pensando che si potesse replicare il post implosione sovietica...buona lettura...:D

FOMENTA E DOMINA

Dietro la crisi ucraina c’è un preciso progetto statunitense: prendere Kiev per ridimensionare le ambizioni regionali e globali di Mosca. Storia di una rivolta pianificata e delle armi utilizzate da Obama per ribadire al mondo chi comanda davvero.
di Dario FABBRI APRILE 2014



1. L’equilibrio di potenza è la cifra della dottrina Obama. A dispetto della vulgata giornalistica che lo vuole restio a intervenire sulla scena internazionale, se non addirittura fautore di un isolazionismo mascherato, in realtà il presidente americano persegue i classici dettami della politica dell’equilibrio. Frenato dai postumi della crisi economica e dall’avversione dell’opinione pubblica per ogni avventurismo militare, Barack ha preferito accantonare l’eccezionalismo dei padri fondatori per adottare la strategia che fu per secoli della corona britannica: impedire l’emergere di una nazione in grado di dominare la propria regione di appartenenza e potenzialmente di insidiare il primato della superpotenza.
In quest’ottica la tattica più efficace, e meno dispendiosa, è acuire le tensioni tra i principali attori regionali, obbligandoli a concentrarsi sulle questioni continentali e ad abbandonare le ambizioni globali. Perfino nell’Asia-Pacifico, quadrante cruciale per le sorti del pianeta, dove Washington pratica il containment della Cina sostenendo la corsa agli armamenti di giapponesi, sudcoreani e australiani. In Europa è la Russia ad aver raggiunto una pericolosa posizione di forza. Grazie alla sua scaltrezza, unita alla compiacenza della Germania e alla distrazione degli Stati Uniti, nell’ultimo decennio Putin ha pressoché neutralizzato il cosiddetto «estero vicino» e legato al proprio benessere il Vecchio Continente dipendente dal gas siberiano. Libero di scrutare l’orizzonte, il capo del Cremlino ha potuto dedicarsi a questioni di planetaria rilevanza, provocando alla Casa Bianca più di un imbarazzo, in Siria come in Egitto, quanto con la concessione dell’asilo al fuggitivo Edward Snowden.
Matura così la necessità di scalfirne le certezze e provocare al contempo una spaccatura tra Mosca e Berlino. A metà 2013 gli analisti statunitensi individuano nell’embrionale crisi ucraina l’occasione per colpire Putin e costringere la Merkel a scegliere tra la fedeltà atlantica e la sua audace Ostpolitik. L’optimum si raggiungerebbe se l’Unione Europea cadesse nella trappola di integrare l’Ucraina – un fardello economico capace di sferrare il colpo di grazia alla già traballante architettura comunitaria – ma Obama si accontenta di sottrarre il paese all’influenza russa. Ne scaturisce uno scontro combattuto a colpi di operazioni coperte, propaganda mediatica e ritorsioni finanziarie che in poche settimane fa scendere sull’Europa un clima da guerra fredda e pone Russia e Germania sulla difensiva.
2. La scelta americana di passare al contrattacco in Ucraina è dettata da ragioni di carattere simbolico, strategico e congiunturale. Nell’immaginario russo «la nazione di confine» ricopre un ruolo eccezionale: è a Kiev che nel IX secolo nasce la Rus’, antesignana della Russia attuale, ed è con il battesimo nelle acque del fiume Dnepr che un secolo più tardi Vladimir il Grande impone il cristianesimo ai suoi sudditi. Sul piano strategico il controllo dell’Ucraina consente a Mosca di allontanare la prima linea di difesa dall’heartland nazionale, per conformazione orografica da sempre esposto alle invasioni straniere, e di mettere nel mirino l’Europa centrale. Inoltre, eredità della rivoluzione arancione del 2004, specie nelle regioni occidentali del paese Washington controlla un folto numero di organizzazioni non governative che, in caso di rivolta popolare, possono fungere da avanguardia per un’azione tesa a destabilizzare l’esecutivo ucraino.
Infine nel 2010 è stato eletto presidente Viktor Janukovyč, despota corrotto e maldestro che gioca su più tavoli nel tentativo di lucrare sulle scelte di politica estera e sul cui conto l’amministrazione Usa possiede informazioni esclusive. Nello specifico, a curare i suoi interessi americani è la società di lobbying di John Podesta[SUP]1[/SUP], attuale consigliere straordinario di Obama. E dal 2005 fino all’improvvida fuga dello scorso febbraio, il principale consulente politico di Janukovyč è stato lo statunitense Paul Manafort[SUP]2[/SUP], titolare di un’azienda di consulenza elettorale che gestisce assieme a Rick Davis, già spin doctor di John McCain, a sua volta destinato nella commedia ucraina al ruolo di novello Charlie Wilson.
L’antefatto risale all’estate del 2013. Il progetto obamiano di minare dall’interno la tenuta della Federazione Russa è naufragato: troppo risicate le risorse a disposizione della Cia e troppo complicato eludere il sofisticatissimo servizio di intelligence del Cremlino (Fsb). Snervato dalle continue intimidazioni, per la prima volta l’ambasciatore Michael McFaul comunica ai superiori l’intenzione di lasciare Mosca per far rientro in patria. Al contrario Putin, rincuorato dal consolidamento del fronte domestico, da alcune settimane è tornato a viaggiare all’estero. A fine luglio vola a Kiev per ribadire che non permetterà all’Ucraina di uscire dall’orbita russa e ai primi di settembre si serve dell’accordo relativo allo smaltimento delle armi chimiche per impedire il rovesciamento di al-Asad.
È in quei giorni che la Casa Bianca medita la svolta. Presto Janukovyč dovrà decidere se aderire all’Unione doganale oppure firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea e Barack è sicuro di poter beneficiare di un eventuale stallo.
Con una scelta assai rilevante, il 18 settembre nomina assistente segretario di Stato per gli Affari eurasiatici Victoria Nuland, diplomatico di professione influenzata dal pensiero neoconservatore, la cui carriera è segnata da frequenti avventure oltrecortina. Nei primi anni Ottanta trascorre otto mesi su un peschereccio sovietico al largo dell’Oceano Pacifico, sul quale sviluppa una passione per la storia e la lingua russa, oltre che per la vodka Stoličnaja. Nell’agosto del 1991 si mischia tra la folla moscovita durante le ore più concitate del golpe organizzato per deporre Gorbačëv e negli anni Novanta, nelle vesti di capo di gabinetto del vicesegretario di Stato Strobe Talbott, sovrintende all’allargamento della Nato verso est.
A lei Obama affida il compito di coordinare il lavoro delle numerose ong operanti in Ucraina, quinta colonna in grado di intercettare e indirizzare gli umori della popolazione filoccidentale. Anche le ong tedesche sono molto attive – in particolare la fondazione Konrad Adenauer che formando Vitalij Klyčko ha creato in laboratorio il suo candidato di riferimento – ma gli americani non si fidano di Berlino e preferiscono muoversi autonomamente. Come rivelato lo scorso dicembre dalla stessa Nuland, dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno speso oltre 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica»[SUP]3[/SUP] e secondo quanto riferito alla commissione Esteri del Senato dal vicesegretario di Stato per i Diritti umani, Tom Melia, di questi quasi un miliardo[SUP]4[/SUP] è finito nelle casse delle organizzazioni non governative. Soltanto nel 2012 il National Endowment for Democracy, l’ente collegato al Dipartimento di Stato incaricato di promuovere la democrazia a livello globale, ha finanziato in Ucraina ben 65 progetti[SUP]5[/SUP].
Tra le ong maggiormente presenti nell’ex paese sovietico figurano: Open Society Foundations del magnate George Soros, che nel 2012 ha speso da queste parti oltre 10 milioni di dollari[SUP]6[/SUP]; Freedom House, qui collegata all’Institute for Mass Information; il National Democratic Institute for International Affairs; la Millennium Challenge Corporation; l’International Center for Journalists, parzialmente sovvenzionato da Bill Gates e curatore del progetto YanukovichLeaks.
Allo stesso tempo l’amministrazione Usa mantiene contatti con gli oligarchi più influenti, soprattutto quelli che si oppongono all’orientamento filorusso del governo di Kiev. A settembre Bill e Hillary Clinton sono gli ospiti d’onore della conferenza organizzata annualmente a Jalta dal tycoon dell’acciaio Viktor Pinčuk per rinsaldare i legami tra Ucraina e Occidente. Nello stesso periodo emissari dell’ambasciata statunitense si incontrano con il re del cioccolato Petro Porošenko, i cui prodotti sono banditi nella Federazione Russa, e con i finanzieri Ihor Kolomojs’kyj e Kostjantin Ževago. Rimangono al fianco di Janukovyč i due uomini più ricchi della nazione, Rinat Akhmetov e Dmytro Firtaš, ma col tempo entrambi si arrenderanno al misto di lusinghe e minacce somministrato da Washington.
L’offensiva entra nel vivo a fine novembre, quando centinaia di persone iniziano a radunarsi in piazza Indipendenza a Kiev per protestare contro la decisione di Janukovyč di respingere l’offerta di Bruxelles. Le ong si adoperano per coinvolgere tutti gli strati della popolazione e tra l’11 e il 14 dicembre Nuland e i senatori John McCain e Chris Murphy giungono sul posto per manifestare la propria solidarietà al movimento di Jevromajdan. Seguendo l’esempio delle cosiddette donut dollies, le volontarie incaricate di tenere alto il morale delle truppe statunitensi impegnate nella seconda guerra mondiale, in Corea e in Vietnam, Nuland scende in piazza per regalare panini e biscotti ai manifestanti antigovernativi e ai poliziotti presenti. Al Cremlino non sfugge il valore simbolico dell’evento. «È stato un gesto umiliante: degli ucraini che mangiano da mani americane!»[SUP]7[/SUP], commenterà sdegnato l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitalij Čurkin.
In seguito Nuland si incontra con Akhmetov, al quale paventa l’intenzione di sanzionare gli interessi degli oligarchi collusi con il governo nel caso in cui la protesta fosse sedata nel sangue. McCain invece prima arringa la folla, annunciando che «l’America è dalla parte degli ucraini che vogliono il cambiamento»[SUP]8[/SUP], quindi va a cena con il fondatore della formazione ultranazionalista di Svoboda, Oleh Tjahnybok. L’inettitudine di Janukovyč, in bilico tra repressione e compromesso, favorisce il perdurare della protesta, mentre sul terreno si intensificano la presenza dell’intelligence americana e la competizione tra Stati Uniti e Germania che sostengono rispettivamente il principale esponente dell’Unione panucraina Bat’kivščyna (Patria), Arsenij Jacenjuk, e il capo del partito Udar (Colpo), Vitalij Klyčko. Obama è convinto che la Merkel non abbia intenzione di rompere con Putin, ma che piuttosto stia sfruttando gli eventi ucraini per bilanciare a suo favore l’intesa bilaterale e proporsi come leader indiscusso dell’Europa orientale.
Così ai primi di febbraio Nuland alza il telefono per recapitare un chiaro avvertimento al governo tedesco e arrogare agli Usa il ruolo di riferimento esterno della protesta. In barba a ogni precauzione tecnica, in una nazione monitorata capillarmente dallo spionaggio russo, il diplomatico utilizza una comune linea cellulare per chiamare a Kiev l’ambasciatore Geoffrey Pyatt e parlare apertamente della posizione americana. «Non credo che Klyčko debba entrare nel governo. (…) Solo l’Onu può sistemare le cose, che l’Ue si fotta»[SUP]9[/SUP], dice Nuland con ostentato candore, apostrofando con un nomignolo (Jac) Jacenjuk e servendosi dello slang per spiegare che il vicepresidente Biden è pronto a complimentarsi con Janukovyč se collaborerà con l’opposizione (he’s willing for an attaboy). Come ampiamente previsto, in poco tempo la conversazione finisce prima su YouTube e poi sull’account Twitter di Dmitrij Loskutov, un collaboratore del vice premier russo. Il Dipartimento di Stato accusa Mosca d’aver giocato sporco[SUP]10[/SUP], ma in privato si rallegra per un piano ben riuscito. Si tratta della prima operazione di false flag in una vicenda disseminata di manovre coperte.
Intanto l’entrata in scena di gruppi paramilitari collegati ai servizi occidentali, come Pravyj Sektor (Settore di destra) e l’Assemblea nazionale ucraina Samooborona (Autodifesa), pareggia la ferocia dei berkut, i reparti antiterrorismo del ministero dell’Interno, e determina il definitivo precipitare della situazione. Il 20 febbraio cecchini non identificati sparano sulla folla, mettendo in fuga le forze di polizia e provocando la morte di decine di persone. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, all’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Catherine Ashton[SUP]11[/SUP], ad aprire il fuoco sarebbero stati elementi legati ai manifestanti con l’obiettivo di far ricadere la colpa sull’esecutivo.
Nelle stesse ore i canali televisivi Ukrajina e Inter, appartenenti rispettivamente ad Akhmetov e Firtaš, iniziano a trasmettere reportage favorevoli a Jevromajdan. È il segnale della fine. Il 21 febbraio Janukovyč sottoscrive con gli esponenti dell’opposizione un accordo che prevede elezioni anticipate, un esecutivo di solidarietà nazionale e il ripristino della costituzione in vigore nel 2004. La piazza però respinge il compromesso e profittando del caos e della complicità degli oligarchi il parlamento nomina Arsenij Jacenjuk primo ministro ad interim e vota all’unanimità la procedura di impeachment nei confronti di Janukovyč, che fugge in Russia.
3. A rivoluzione compiuta gli sforzi americani si concentrano sull’inevitabile risposta russa, potenzialmente in grado di annullare il vantaggio acquisito. Già il 21 febbraio la Casa Bianca si serve del New York Times per comunicare con il Cremlino. Dalle colonne del quotidiano «anonimi funzionari dell’amministrazione federale» invitano Putin ad accettare il fait accompli, in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali e di un improbabile accordo commerciale[SUP]12[/SUP]. A destare preoccupazione è la possibilità che la Russia – impegnata con oltre 150 mila uomini in un’esercitazione militare oltreconfine – invada l’Ucraina e comprometta la fiducia che le nazioni dell’Europa orientale ripongono nella deterrenza garantita dagli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 27 febbraio rapporti riservati della Cia, della Defense Intelligence Agency (Dia), l’organo di spionaggio estero del Pentagono, e dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (Odni) definiscono imminente «un’azione» realizzata da reggimenti «speciali»: citano i mercenari della Vnevedomstvennaja Okhrana e gli specnaz, ma ammettono di non sapere quali regioni ne saranno interessate. A differenza del resto d’Europa, la Russia sfugge al controllo dell’Nsa e nonostante i 300 mila dollari spesi dal leggendario Office of Net Assessment del Pentagono per studiare il linguaggio del corpo di Putin[SUP]13[/SUP], nessuno sa prevedere con certezza le sue mosse. Nemmeno Silvio Berlusconi, il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman o il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, contattati nel frattempo dal Dipartimento di Stato per avere impressioni su cosa stia per accadere. In piena nebbia di guerra Obama si convince che «il bullo» stia per invadere l’Ucraina orientale e la sera del 28 febbraio si presenta davanti alle telecamere per minacciarlo «di gravi ritorsioni»[SUP]14[/SUP].
Tuttavia il giorno seguente l’occupazione russa della Crimea gli permette di tirare un (parziale) respiro di sollievo. Al netto delle rimostranze ufficiali, Barack considera un sacrificio tollerabile barattare la penisola abitata in maggioranza da russi con il nuovo status quo imposto al resto del paese. Peraltro la patente violazione della sovranità ucraina pone adesso tedeschi e cinesi in una posizione di notevole imbarazzo, costringendoli a scegliere tra la volontà di preservare un’alleanza strategica e la necessità di condannare un atto che almeno formalmente lede i princìpi della loro politica estera.
Il punto è impedire a Putin di inghiottire il resto dell’Ucraina. Inizialmente la Casa Bianca pensa di inibirne le intenzioni attraverso l’imposizione di sanzioni economiche concertate con l’Unione Europea. L’illusione svanisce in seguito alle telefonate avute con i leader del Vecchio Continente e agli incontri con i rappresentanti delle associazioni industriali d’America. La Germania è pronta a censurare verbalmente l’accaduto e a raffreddare la cooperazione militare, ma non vuole scatenare la rappresaglia energetica del Cremlino e perfino il fido alleato Cameron si rifiuta di privare la City londinese degli ingenti capitali russi.
Dal canto loro le multinazionali statunitensi operanti in Russia – su tutte ExxonMobil, Boeing, Ford – vogliono impedire che, in caso di misure punitive imposte unilateralmente dagli Usa, i concorrenti europei assorbano la loro fetta di mercato. Così Obama si accontenta, a cavallo del referendum per l’indipendenza della Crimea, di approvare sanzioni largamente simboliche che colpiscono alcuni membri dell’entourage presidenziale, nonché Bank Rossija, l’istituto di San Pietroburgo legato a Gazprom, ma che non hanno alcun impatto concreto.
Le armi più efficaci in possesso degli Stati Uniti si rivelano l’aggressione mediatica e la speculazione finanziaria. La diffusione planetaria e il prestigio riconosciuto ai media d’Oltreoceano consentono alla Casa Bianca di respingere agevolmente le accuse di interferenza e di bollare come barbara e anacronistica la reazione russa, sebbene questa sia stata pressoché incruenta e possa essere considerata una declinazione della responsibility to protect. Contemporaneamente le manovre speculative infliggono danni ragguardevoli alla già fragile economia russa. Rispetto ai tempi della guerra fredda, oggi l’ex superpotenza comunista aderisce (suo malgrado) al Washington Consensus e il governo federale è doppiamente esposto all’umore dei mercati perché azionista di maggioranza delle principali aziende nazionali.
Agli Usa bastano gli strumenti convenzionali della politica monetaria e finanziaria – tapering, diffusione del panico fra gli investitori, valutazione della solvibilità – per colpire l’avversario. Non a caso il lunedì successivo all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della Borsa di Mosca scende di ben 12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s rivedono al ribasso l’outlook della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in buoni del Tesoro[SUP]15[/SUP], ma si tratta di una partita palesemente impari.
Anche per questo il bilancio della crisi arride agli Stati Uniti. La Germania non sembra intenzionata a stravolgere la propria strategia e l’Europa non dispone dei mezzi finanziari e della volontà politica necessari a mantenere stabilmente l’Ucraina nel campo occidentale. Inoltre la Russia ha riconquistato la Crimea, rettificando il torto perpetrato sessant’anni fa da Khruščëv e, toccata sul vivo, proverà adesso a ostacolare gli Stati Uniti su dossier internazionali di primaria importanza: dalla trattativa per il programma nucleare iraniano alla guerra civile siriana, fino al prossimo ritiro Nato dall’Afghanistan.
Tuttavia l’iniziativa americana, realizzata magistralmente, ha colto nel segno: Putin è impegnato in una battaglia di retroguardia, costretto a difendersi piuttosto che a inseguire traguardi di grande respiro; la Merkel ne ha inevitabilmente disapprovato l’operato e tra Mosca e Pechino c’è stato un animato confronto sul tema. Con il minimo sforzo politico, economico e di intelligence la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. «La Russia è soltanto una potenza regionale e non può rappresentare una minaccia globale»[SUP]16[/SUP], ha spiegato Obama il 25 marzo, quasi a illustrare la sua dottrina e a dichiarare compiuta la missione ucraina. In nome dell’equilibrio di potenza.
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Visto che non posso postarla in Arena Politica, posto qua un valido documento che chiarisce come si sono svolti i fatti che hanno reso necessario il repulisti attuale chiaramente evitabile se i soliti noti con noi al seguito, non avessimo sbeffeggiato Putin pensando che si potesse replicare il post implosione sovietica...buona lettura...:D

FOMENTA E DOMINA

Dietro la crisi ucraina c’è un preciso progetto statunitense: prendere Kiev per ridimensionare le ambizioni regionali e globali di Mosca. Storia di una rivolta pianificata e delle armi utilizzate da Obama per ribadire al mondo chi comanda davvero.
di Dario FABBRI APRILE 2014



1. L’equilibrio di potenza è la cifra della dottrina Obama. A dispetto della vulgata giornalistica che lo vuole restio a intervenire sulla scena internazionale, se non addirittura fautore di un isolazionismo mascherato, in realtà il presidente americano persegue i classici dettami della politica dell’equilibrio. Frenato dai postumi della crisi economica e dall’avversione dell’opinione pubblica per ogni avventurismo militare, Barack ha preferito accantonare l’eccezionalismo dei padri fondatori per adottare la strategia che fu per secoli della corona britannica: impedire l’emergere di una nazione in grado di dominare la propria regione di appartenenza e potenzialmente di insidiare il primato della superpotenza.
In quest’ottica la tattica più efficace, e meno dispendiosa, è acuire le tensioni tra i principali attori regionali, obbligandoli a concentrarsi sulle questioni continentali e ad abbandonare le ambizioni globali. Perfino nell’Asia-Pacifico, quadrante cruciale per le sorti del pianeta, dove Washington pratica il containment della Cina sostenendo la corsa agli armamenti di giapponesi, sudcoreani e australiani. In Europa è la Russia ad aver raggiunto una pericolosa posizione di forza. Grazie alla sua scaltrezza, unita alla compiacenza della Germania e alla distrazione degli Stati Uniti, nell’ultimo decennio Putin ha pressoché neutralizzato il cosiddetto «estero vicino» e legato al proprio benessere il Vecchio Continente dipendente dal gas siberiano. Libero di scrutare l’orizzonte, il capo del Cremlino ha potuto dedicarsi a questioni di planetaria rilevanza, provocando alla Casa Bianca più di un imbarazzo, in Siria come in Egitto, quanto con la concessione dell’asilo al fuggitivo Edward Snowden.
Matura così la necessità di scalfirne le certezze e provocare al contempo una spaccatura tra Mosca e Berlino. A metà 2013 gli analisti statunitensi individuano nell’embrionale crisi ucraina l’occasione per colpire Putin e costringere la Merkel a scegliere tra la fedeltà atlantica e la sua audace Ostpolitik. L’optimum si raggiungerebbe se l’Unione Europea cadesse nella trappola di integrare l’Ucraina – un fardello economico capace di sferrare il colpo di grazia alla già traballante architettura comunitaria – ma Obama si accontenta di sottrarre il paese all’influenza russa. Ne scaturisce uno scontro combattuto a colpi di operazioni coperte, propaganda mediatica e ritorsioni finanziarie che in poche settimane fa scendere sull’Europa un clima da guerra fredda e pone Russia e Germania sulla difensiva.
2. La scelta americana di passare al contrattacco in Ucraina è dettata da ragioni di carattere simbolico, strategico e congiunturale. Nell’immaginario russo «la nazione di confine» ricopre un ruolo eccezionale: è a Kiev che nel IX secolo nasce la Rus’, antesignana della Russia attuale, ed è con il battesimo nelle acque del fiume Dnepr che un secolo più tardi Vladimir il Grande impone il cristianesimo ai suoi sudditi. Sul piano strategico il controllo dell’Ucraina consente a Mosca di allontanare la prima linea di difesa dall’heartland nazionale, per conformazione orografica da sempre esposto alle invasioni straniere, e di mettere nel mirino l’Europa centrale. Inoltre, eredità della rivoluzione arancione del 2004, specie nelle regioni occidentali del paese Washington controlla un folto numero di organizzazioni non governative che, in caso di rivolta popolare, possono fungere da avanguardia per un’azione tesa a destabilizzare l’esecutivo ucraino.
Infine nel 2010 è stato eletto presidente Viktor Janukovyč, despota corrotto e maldestro che gioca su più tavoli nel tentativo di lucrare sulle scelte di politica estera e sul cui conto l’amministrazione Usa possiede informazioni esclusive. Nello specifico, a curare i suoi interessi americani è la società di lobbying di John Podesta[SUP]1[/SUP], attuale consigliere straordinario di Obama. E dal 2005 fino all’improvvida fuga dello scorso febbraio, il principale consulente politico di Janukovyč è stato lo statunitense Paul Manafort[SUP]2[/SUP], titolare di un’azienda di consulenza elettorale che gestisce assieme a Rick Davis, già spin doctor di John McCain, a sua volta destinato nella commedia ucraina al ruolo di novello Charlie Wilson.
L’antefatto risale all’estate del 2013. Il progetto obamiano di minare dall’interno la tenuta della Federazione Russa è naufragato: troppo risicate le risorse a disposizione della Cia e troppo complicato eludere il sofisticatissimo servizio di intelligence del Cremlino (Fsb). Snervato dalle continue intimidazioni, per la prima volta l’ambasciatore Michael McFaul comunica ai superiori l’intenzione di lasciare Mosca per far rientro in patria. Al contrario Putin, rincuorato dal consolidamento del fronte domestico, da alcune settimane è tornato a viaggiare all’estero. A fine luglio vola a Kiev per ribadire che non permetterà all’Ucraina di uscire dall’orbita russa e ai primi di settembre si serve dell’accordo relativo allo smaltimento delle armi chimiche per impedire il rovesciamento di al-Asad.
È in quei giorni che la Casa Bianca medita la svolta. Presto Janukovyč dovrà decidere se aderire all’Unione doganale oppure firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea e Barack è sicuro di poter beneficiare di un eventuale stallo.
Con una scelta assai rilevante, il 18 settembre nomina assistente segretario di Stato per gli Affari eurasiatici Victoria Nuland, diplomatico di professione influenzata dal pensiero neoconservatore, la cui carriera è segnata da frequenti avventure oltrecortina. Nei primi anni Ottanta trascorre otto mesi su un peschereccio sovietico al largo dell’Oceano Pacifico, sul quale sviluppa una passione per la storia e la lingua russa, oltre che per la vodka Stoličnaja. Nell’agosto del 1991 si mischia tra la folla moscovita durante le ore più concitate del golpe organizzato per deporre Gorbačëv e negli anni Novanta, nelle vesti di capo di gabinetto del vicesegretario di Stato Strobe Talbott, sovrintende all’allargamento della Nato verso est.
A lei Obama affida il compito di coordinare il lavoro delle numerose ong operanti in Ucraina, quinta colonna in grado di intercettare e indirizzare gli umori della popolazione filoccidentale. Anche le ong tedesche sono molto attive – in particolare la fondazione Konrad Adenauer che formando Vitalij Klyčko ha creato in laboratorio il suo candidato di riferimento – ma gli americani non si fidano di Berlino e preferiscono muoversi autonomamente. Come rivelato lo scorso dicembre dalla stessa Nuland, dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno speso oltre 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica»[SUP]3[/SUP] e secondo quanto riferito alla commissione Esteri del Senato dal vicesegretario di Stato per i Diritti umani, Tom Melia, di questi quasi un miliardo[SUP]4[/SUP] è finito nelle casse delle organizzazioni non governative. Soltanto nel 2012 il National Endowment for Democracy, l’ente collegato al Dipartimento di Stato incaricato di promuovere la democrazia a livello globale, ha finanziato in Ucraina ben 65 progetti[SUP]5[/SUP].
Tra le ong maggiormente presenti nell’ex paese sovietico figurano: Open Society Foundations del magnate George Soros, che nel 2012 ha speso da queste parti oltre 10 milioni di dollari[SUP]6[/SUP]; Freedom House, qui collegata all’Institute for Mass Information; il National Democratic Institute for International Affairs; la Millennium Challenge Corporation; l’International Center for Journalists, parzialmente sovvenzionato da Bill Gates e curatore del progetto YanukovichLeaks.
Allo stesso tempo l’amministrazione Usa mantiene contatti con gli oligarchi più influenti, soprattutto quelli che si oppongono all’orientamento filorusso del governo di Kiev. A settembre Bill e Hillary Clinton sono gli ospiti d’onore della conferenza organizzata annualmente a Jalta dal tycoon dell’acciaio Viktor Pinčuk per rinsaldare i legami tra Ucraina e Occidente. Nello stesso periodo emissari dell’ambasciata statunitense si incontrano con il re del cioccolato Petro Porošenko, i cui prodotti sono banditi nella Federazione Russa, e con i finanzieri Ihor Kolomojs’kyj e Kostjantin Ževago. Rimangono al fianco di Janukovyč i due uomini più ricchi della nazione, Rinat Akhmetov e Dmytro Firtaš, ma col tempo entrambi si arrenderanno al misto di lusinghe e minacce somministrato da Washington.
L’offensiva entra nel vivo a fine novembre, quando centinaia di persone iniziano a radunarsi in piazza Indipendenza a Kiev per protestare contro la decisione di Janukovyč di respingere l’offerta di Bruxelles. Le ong si adoperano per coinvolgere tutti gli strati della popolazione e tra l’11 e il 14 dicembre Nuland e i senatori John McCain e Chris Murphy giungono sul posto per manifestare la propria solidarietà al movimento di Jevromajdan. Seguendo l’esempio delle cosiddette donut dollies, le volontarie incaricate di tenere alto il morale delle truppe statunitensi impegnate nella seconda guerra mondiale, in Corea e in Vietnam, Nuland scende in piazza per regalare panini e biscotti ai manifestanti antigovernativi e ai poliziotti presenti. Al Cremlino non sfugge il valore simbolico dell’evento. «È stato un gesto umiliante: degli ucraini che mangiano da mani americane!»[SUP]7[/SUP], commenterà sdegnato l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitalij Čurkin.
In seguito Nuland si incontra con Akhmetov, al quale paventa l’intenzione di sanzionare gli interessi degli oligarchi collusi con il governo nel caso in cui la protesta fosse sedata nel sangue. McCain invece prima arringa la folla, annunciando che «l’America è dalla parte degli ucraini che vogliono il cambiamento»[SUP]8[/SUP], quindi va a cena con il fondatore della formazione ultranazionalista di Svoboda, Oleh Tjahnybok. L’inettitudine di Janukovyč, in bilico tra repressione e compromesso, favorisce il perdurare della protesta, mentre sul terreno si intensificano la presenza dell’intelligence americana e la competizione tra Stati Uniti e Germania che sostengono rispettivamente il principale esponente dell’Unione panucraina Bat’kivščyna (Patria), Arsenij Jacenjuk, e il capo del partito Udar (Colpo), Vitalij Klyčko. Obama è convinto che la Merkel non abbia intenzione di rompere con Putin, ma che piuttosto stia sfruttando gli eventi ucraini per bilanciare a suo favore l’intesa bilaterale e proporsi come leader indiscusso dell’Europa orientale.
Così ai primi di febbraio Nuland alza il telefono per recapitare un chiaro avvertimento al governo tedesco e arrogare agli Usa il ruolo di riferimento esterno della protesta. In barba a ogni precauzione tecnica, in una nazione monitorata capillarmente dallo spionaggio russo, il diplomatico utilizza una comune linea cellulare per chiamare a Kiev l’ambasciatore Geoffrey Pyatt e parlare apertamente della posizione americana. «Non credo che Klyčko debba entrare nel governo. (…) Solo l’Onu può sistemare le cose, che l’Ue si fotta»[SUP]9[/SUP], dice Nuland con ostentato candore, apostrofando con un nomignolo (Jac) Jacenjuk e servendosi dello slang per spiegare che il vicepresidente Biden è pronto a complimentarsi con Janukovyč se collaborerà con l’opposizione (he’s willing for an attaboy). Come ampiamente previsto, in poco tempo la conversazione finisce prima su YouTube e poi sull’account Twitter di Dmitrij Loskutov, un collaboratore del vice premier russo. Il Dipartimento di Stato accusa Mosca d’aver giocato sporco[SUP]10[/SUP], ma in privato si rallegra per un piano ben riuscito. Si tratta della prima operazione di false flag in una vicenda disseminata di manovre coperte.
Intanto l’entrata in scena di gruppi paramilitari collegati ai servizi occidentali, come Pravyj Sektor (Settore di destra) e l’Assemblea nazionale ucraina Samooborona (Autodifesa), pareggia la ferocia dei berkut, i reparti antiterrorismo del ministero dell’Interno, e determina il definitivo precipitare della situazione. Il 20 febbraio cecchini non identificati sparano sulla folla, mettendo in fuga le forze di polizia e provocando la morte di decine di persone. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, all’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Catherine Ashton[SUP]11[/SUP], ad aprire il fuoco sarebbero stati elementi legati ai manifestanti con l’obiettivo di far ricadere la colpa sull’esecutivo.
Nelle stesse ore i canali televisivi Ukrajina e Inter, appartenenti rispettivamente ad Akhmetov e Firtaš, iniziano a trasmettere reportage favorevoli a Jevromajdan. È il segnale della fine. Il 21 febbraio Janukovyč sottoscrive con gli esponenti dell’opposizione un accordo che prevede elezioni anticipate, un esecutivo di solidarietà nazionale e il ripristino della costituzione in vigore nel 2004. La piazza però respinge il compromesso e profittando del caos e della complicità degli oligarchi il parlamento nomina Arsenij Jacenjuk primo ministro ad interim e vota all’unanimità la procedura di impeachment nei confronti di Janukovyč, che fugge in Russia.
3. A rivoluzione compiuta gli sforzi americani si concentrano sull’inevitabile risposta russa, potenzialmente in grado di annullare il vantaggio acquisito. Già il 21 febbraio la Casa Bianca si serve del New York Times per comunicare con il Cremlino. Dalle colonne del quotidiano «anonimi funzionari dell’amministrazione federale» invitano Putin ad accettare il fait accompli, in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali e di un improbabile accordo commerciale[SUP]12[/SUP]. A destare preoccupazione è la possibilità che la Russia – impegnata con oltre 150 mila uomini in un’esercitazione militare oltreconfine – invada l’Ucraina e comprometta la fiducia che le nazioni dell’Europa orientale ripongono nella deterrenza garantita dagli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 27 febbraio rapporti riservati della Cia, della Defense Intelligence Agency (Dia), l’organo di spionaggio estero del Pentagono, e dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (Odni) definiscono imminente «un’azione» realizzata da reggimenti «speciali»: citano i mercenari della Vnevedomstvennaja Okhrana e gli specnaz, ma ammettono di non sapere quali regioni ne saranno interessate. A differenza del resto d’Europa, la Russia sfugge al controllo dell’Nsa e nonostante i 300 mila dollari spesi dal leggendario Office of Net Assessment del Pentagono per studiare il linguaggio del corpo di Putin[SUP]13[/SUP], nessuno sa prevedere con certezza le sue mosse. Nemmeno Silvio Berlusconi, il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman o il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, contattati nel frattempo dal Dipartimento di Stato per avere impressioni su cosa stia per accadere. In piena nebbia di guerra Obama si convince che «il bullo» stia per invadere l’Ucraina orientale e la sera del 28 febbraio si presenta davanti alle telecamere per minacciarlo «di gravi ritorsioni»[SUP]14[/SUP].
Tuttavia il giorno seguente l’occupazione russa della Crimea gli permette di tirare un (parziale) respiro di sollievo. Al netto delle rimostranze ufficiali, Barack considera un sacrificio tollerabile barattare la penisola abitata in maggioranza da russi con il nuovo status quo imposto al resto del paese. Peraltro la patente violazione della sovranità ucraina pone adesso tedeschi e cinesi in una posizione di notevole imbarazzo, costringendoli a scegliere tra la volontà di preservare un’alleanza strategica e la necessità di condannare un atto che almeno formalmente lede i princìpi della loro politica estera.
Il punto è impedire a Putin di inghiottire il resto dell’Ucraina. Inizialmente la Casa Bianca pensa di inibirne le intenzioni attraverso l’imposizione di sanzioni economiche concertate con l’Unione Europea. L’illusione svanisce in seguito alle telefonate avute con i leader del Vecchio Continente e agli incontri con i rappresentanti delle associazioni industriali d’America. La Germania è pronta a censurare verbalmente l’accaduto e a raffreddare la cooperazione militare, ma non vuole scatenare la rappresaglia energetica del Cremlino e perfino il fido alleato Cameron si rifiuta di privare la City londinese degli ingenti capitali russi.
Dal canto loro le multinazionali statunitensi operanti in Russia – su tutte ExxonMobil, Boeing, Ford – vogliono impedire che, in caso di misure punitive imposte unilateralmente dagli Usa, i concorrenti europei assorbano la loro fetta di mercato. Così Obama si accontenta, a cavallo del referendum per l’indipendenza della Crimea, di approvare sanzioni largamente simboliche che colpiscono alcuni membri dell’entourage presidenziale, nonché Bank Rossija, l’istituto di San Pietroburgo legato a Gazprom, ma che non hanno alcun impatto concreto.
Le armi più efficaci in possesso degli Stati Uniti si rivelano l’aggressione mediatica e la speculazione finanziaria. La diffusione planetaria e il prestigio riconosciuto ai media d’Oltreoceano consentono alla Casa Bianca di respingere agevolmente le accuse di interferenza e di bollare come barbara e anacronistica la reazione russa, sebbene questa sia stata pressoché incruenta e possa essere considerata una declinazione della responsibility to protect. Contemporaneamente le manovre speculative infliggono danni ragguardevoli alla già fragile economia russa. Rispetto ai tempi della guerra fredda, oggi l’ex superpotenza comunista aderisce (suo malgrado) al Washington Consensus e il governo federale è doppiamente esposto all’umore dei mercati perché azionista di maggioranza delle principali aziende nazionali.
Agli Usa bastano gli strumenti convenzionali della politica monetaria e finanziaria – tapering, diffusione del panico fra gli investitori, valutazione della solvibilità – per colpire l’avversario. Non a caso il lunedì successivo all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della Borsa di Mosca scende di ben 12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s rivedono al ribasso l’outlook della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in buoni del Tesoro[SUP]15[/SUP], ma si tratta di una partita palesemente impari.
Anche per questo il bilancio della crisi arride agli Stati Uniti. La Germania non sembra intenzionata a stravolgere la propria strategia e l’Europa non dispone dei mezzi finanziari e della volontà politica necessari a mantenere stabilmente l’Ucraina nel campo occidentale. Inoltre la Russia ha riconquistato la Crimea, rettificando il torto perpetrato sessant’anni fa da Khruščëv e, toccata sul vivo, proverà adesso a ostacolare gli Stati Uniti su dossier internazionali di primaria importanza: dalla trattativa per il programma nucleare iraniano alla guerra civile siriana, fino al prossimo ritiro Nato dall’Afghanistan.
Tuttavia l’iniziativa americana, realizzata magistralmente, ha colto nel segno: Putin è impegnato in una battaglia di retroguardia, costretto a difendersi piuttosto che a inseguire traguardi di grande respiro; la Merkel ne ha inevitabilmente disapprovato l’operato e tra Mosca e Pechino c’è stato un animato confronto sul tema. Con il minimo sforzo politico, economico e di intelligence la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. «La Russia è soltanto una potenza regionale e non può rappresentare una minaccia globale»[SUP]16[/SUP], ha spiegato Obama il 25 marzo, quasi a illustrare la sua dottrina e a dichiarare compiuta la missione ucraina. In nome dell’equilibrio di potenza.
[SUP]1[/SUP]

Tutti i documenti che ho postato a suo tempo su AP, i quali comprovavano il coinvolgimento degli USA, di Obama e dell'UE, sin dal 2014, per destabilizzare il governo e il presidente filorusso ucraino e per cercare di distruggere la Russia e il Comunismo, imponendo un governo e un presidente fantoccio (Zelensky), nonchè finanziando un esercito di nazisti (battaglione Azov) condannato dall'OCSE e da Amnesty per crimini di guerra in Crimea, Donbass, ecc. mi sono costati insulti pesanti, accuse di filoputinismo e il ban da AP.

Questo per sottolineare "l'aria che tira" in AP.

https://www.businessinsider.com/john-mccain-meets-oleh-tyahnybok-in-ukraine-2013-12?r=US&IR=T

https://www.theguardian.com/world/2013/dec/15/john-mccain-ukraine-protests-support-just-cause

https://it.wikipedia.org/wiki/Collaborazione_ucraina_con_la_Germania_nazista

Reggimento Azov

Il Reggimento Azov (in ucraino: Полк "Азов"?; traslitterato: Polk "Azov"), dal 2014 al 2015 Battaglione Azov, denominazione con cui è tuttora comunemente conosciuto, è un'unità militare ucraina con compiti militari e di polizia. Fondato dal militare e politico suprematista bianco Andrіj Bіlec'kyj, che ne fu primo comandante, come gruppo paramilitare di orientamento neonazista nel febbraio 2014, durante le prime fasi della guerra del Donbass, in risposta ai guerriglieri secessionisti filo-russi e agli "omini verdi" (truppe della Federazione Russa prive di distintivi), fu inquadrato nella Guardia nazionale dell'Ucraina l'11 novembre 2014. È stato ufficialmente rinominato Distaccamento autonomo operazioni speciali "Azov" (in ucraino: Окремий загін спеціального призначення "Азов"?, ОЗСП "Азов"; traslitterato: Okremyj zahin special'noho pryznačennja "Azov", OZSP "Azov") nel gennaio del 2015.

L'unità militare fa aperto uso della simbologia della Germania nazista, come il Wolfsangel nello scudetto dell'unità. È stata inoltre accusata tra il 2014 e il 2016 di crimini di guerra e tortura, tra gli altri, dall'OSCE, dall'Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, e da Human Rights Watch.

(Fonte Wikipedia)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in...sa-dicevano-ad-azov-ne-armi-ne-aiuti/6576332/
 
Ciao OttoSettembre... quale buon vento...!!! :) Se non riesci a postare in AP hai la mia autorizzazione a postare in Arena Club ma a una condizione... si apre un solo thread generico... esempio tematica guerra Russia Ucraina VOL. 1... 2... 3... 4 e si posta SOLO lì dentro... uno soltanto usato da tutti gli esuli... chi sgarra viene segato col seghetto japponese che ho comprato e che fa tagli netti e precisissimi...!!! :D ;)
 
Ciao OttoSettembre... quale buon vento...!!! :) Se non riesci a postare in AP hai la mia autorizzazione a postare in Arena Club ma a una condizione... si apre un solo thread generico... esempio tematica guerra Russia Ucraina VOL. 1... 2... 3... 4 e si posta SOLO lì dentro... uno soltanto usato da tutti gli esuli... chi sgarra viene segato col seghetto japponese che ho comprato e che fa tagli netti e precisissimi...!!! :D ;)

Foto pliz... :eek:
 
Tutti i documenti che ho postato a suo tempo su AP, i quali comprovavano il coinvolgimento degli USA, di Obama e dell'UE, sin dal 2014, per destabilizzare il governo e il presidente filorusso ucraino e per cercare di distruggere la Russia e il Comunismo, imponendo un governo e un presidente fantoccio (Zelensky), nonchè finanziando un esercito di nazisti (battaglione Azov) condannato dall'OCSE e da Amnesty per crimini di guerra in Crimea, Donbass, ecc. mi sono costati insulti pesanti, accuse di filoputinismo e il ban da AP.

Questo per sottolineare "l'aria che tira" in AP.

https://www.businessinsider.com/john-mccain-meets-oleh-tyahnybok-in-ukraine-2013-12?r=US&IR=T

https://www.theguardian.com/world/2013/dec/15/john-mccain-ukraine-protests-support-just-cause

https://it.wikipedia.org/wiki/Collaborazione_ucraina_con_la_Germania_nazista

Reggimento Azov

Il Reggimento Azov (in ucraino: Полк "Азов"?; traslitterato: Polk "Azov"), dal 2014 al 2015 Battaglione Azov, denominazione con cui è tuttora comunemente conosciuto, è un'unità militare ucraina con compiti militari e di polizia. Fondato dal militare e politico suprematista bianco Andrіj Bіlec'kyj, che ne fu primo comandante, come gruppo paramilitare di orientamento neonazista nel febbraio 2014, durante le prime fasi della guerra del Donbass, in risposta ai guerriglieri secessionisti filo-russi e agli "omini verdi" (truppe della Federazione Russa prive di distintivi), fu inquadrato nella Guardia nazionale dell'Ucraina l'11 novembre 2014. È stato ufficialmente rinominato Distaccamento autonomo operazioni speciali "Azov" (in ucraino: Окремий загін спеціального призначення "Азов"?, ОЗСП "Азов"; traslitterato: Okremyj zahin special'noho pryznačennja "Azov", OZSP "Azov") nel gennaio del 2015.

L'unità militare fa aperto uso della simbologia della Germania nazista, come il Wolfsangel nello scudetto dell'unità. È stata inoltre accusata tra il 2014 e il 2016 di crimini di guerra e tortura, tra gli altri, dall'OSCE, dall'Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, e da Human Rights Watch.

(Fonte Wikipedia)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in...sa-dicevano-ad-azov-ne-armi-ne-aiuti/6576332/

:bow:;)
 

I jappo sono maestri nelle lame...!!! Tagliano per davvero...!!! :)

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Notevole la mannaia, mi devo decidere a dotarmene, in foto, a vederla sembra abbastanza robusta anche per essere lanciata.

Ma il Diego Fabbri dell'articolo è quello che veniva invitato da Mentana sulla 7?
 
Notevole la mannaia, mi devo decidere a dotarmene, in foto, a vederla sembra abbastanza robusta anche per essere lanciata.

Ma il Diego Fabbri dell'articolo è quello che veniva invitato da Mentana sulla 7?

La mannaia da lancio deve avere un baricentro perfettamente calcolato... se noti ha anche il filo di lama frontale... appunto perchè se lanciata questa ruotando può tagliare anche di fronte...!!! ;)
 
A proposito di Holodomor, sono stati tutti spubblicati quelli che hanno costruito questo falso attribuendolo a Stalin dopo la sua morte per la destalinizzazione che attuo' Kruschov col suo rapporto falsissimo peggio di Giuda, perche' perfino il piu' antistalinista, Trotzsky, non l'ha mai menzionato, eppure era Ucraino e fino agli ultimi anni si e' sempre occupato di Ucraina....:D

Stalin invece era a favore degli ucraini e attuo' uno sviluppo in tutti i campi, dall'industriale alle arti... quelli che sterminava erano quei galantuomini di ucraini nazionalisti, quelli dell'eroe Bandera contro cui adesso s'e' intignato Putin...:D

qualche anno fa Domenico Losurdo ha pubblicato un libro su Stalin dove dimostrava la falsita' del rapporto Kruscov bollando come ******* e venduti agli yankee quelli di sinistra anche di casa nostra facendo scoppiare un putiferio con i trotzschisti rinnegati di Rifondazione Comunista....:D

uno stralcio sull'Holodomor&C:

L’olocausto ucraino quale bilanciamento dell’olocausto ebraico

Le due personalità criminali, reciprocamente legate da affinità elettive, producono due universi concentrazionari tra loro assai simili: così procede la costruzione della mitologia politica ai giorni nostri imperversante. Per la verità, pur inaugurando questa linea di pensiero, Arendt fa un discorso più problematico. Per un verso accenna, sia pure in modo assai sommario, ai «metodi totalitari» preannunciati dai campi di concentramento in cui l’Inghilterra liberale rinchiude i boeri ovvero agli elementi «totalitari» presenti nei campi di concentramento che la Francia della Terza Repubblica istituisce «dopo la guerra civile spagnola». Per un altro verso, nell’istituire il confronto tra urss staliniana e Germania hitleriana, Arendt fa valere alcune importanti distinzioni: solo a proposito del secondo paese parla di «campi di sterminio». C’è di più: «nell’URSS i sorveglianti non erano, come le ss, una speciale élite addestrata a commettere delitti». Com’è confermato dall’analisi di una testimone passata attraverso la tragica esperienza di entrambi gli universi concentrazionari: «I russi [...] non manifestarono mai il sadismo dei nazisti [...]. Le nostre guardie russe erano persone per bene, e non dei sadici, ma osservavano scrupolosamente le regole dell’inumano sistema» [SUP]59[/SUP]. Ai giorni nostri, invece, dileguati il sia pur sommario riferimento all’Occidente liberale e l’accenno alle diverse configurazioni dell’universo concentrazionario, tutto il discorso ruota attorno all’assimilazione di Gulag e Konzentrationslager.
Perché tale assimilazione sia persuasiva,, in primo luogo si dilatano le cifre del terrore staliniano. Di recente, una studiosa statunitense ha calcolato che le esecuzioni realmente avvenute ammontano a «un decimo» delle stime correnti [SUP]60[/SUP]. Resta fermo, ovviamente, l’orrore di questa repressione pur sempre su larga scala. E, tuttavia, è significativa la disinvoltura di certi storici e ideologi. Né essi si limitano a gonfiare i numeri. Nel vuoto della storia e della politica la costruzione del mito dei mostri gemelli può compiere un ulteriore passo avanti: all’olocausto consumato dalla Germania nazista a danno degli ebrei a partire soprattutto dall’impantanarsi della guerra a est corrisponderebbe l’olocausto già in precedenza (agli inizi degli anni trenta) inflitto dall’URSS staliniana agli ucraini (il cosiddetto Holodomor); in questo secondo caso si sarebbe trattato di una «carestia terroristica» e pianificata, alfine sfociata in un «immenso Bergen Belsen», e cioè in un immenso campo di sterminio [SUP]61[/SUP].
Nell’agitare questa tesi si è distinto in particolare Robert Conquest. I suoi critici l’accusano di aver a suo tempo lavorato in qualità di agente addetto alla disinformazione presso i servizi segreti britannici e di aver affrontato il dossier ucraino facendo tesoro di questa sua professione [SUP]62[/SUP]. Anche gli estimatori riconoscono un punto che non è privo di importanza: Conquest è «un veterano della Guerra fredda» e ha scritto il suo libro nell’ambito di un’«operazione politico-culturale», che è stata diretta in ultima analisi dal presidente statunitense Ronald Reagan e che ha conseguito «numerosi frutti: da un lato, incidendo in modo importante nel dibattito internazionale sul valore e i limiti delle riforme gorbacioviane, dall’altro, attraverso la presa di posizione del Congresso degli Stati Uniti, andando a influenzare potentemente la radicalizzazione delle spinte indipendentiste dell’Ucraina» [SUP]63[/SUP] . In altre parole, il libro è stato pubblicato nell’ambito di un’«operazione politico-culturale», mirante a dare l’ultima e decisiva spallata all’Unione Sovietica, screditandola in quanto responsabile di infamie del tutto simili a quelle commesse dal Terzo Reich e stimolando la sua disintegrazione grazie alla presa di coscienza del popolo vittima dell’«olocausto», ormai impossibilitato a coabitare coi suoi carnefici. Non bisogna perdere di vista il fatto che, nello stesso periodo di tempo, assieme al libro sull’Ucraina, Conquest ne pubblica un altro (in collaborazione con un certo J. M. White), in cui dà consigli ai suoi concittadini su come sopravvivere alla possibile (o incombente) invasione ad opera dell’Unione Sovietica (What to Do When the Russian Come: A Survivalist’s Handbook) [SUP]64[/SUP].
Certo, indipendentemente dalle motivazioni politiche a suo fondamento, una tesi dev’essere comunque analizzata in base agli argomenti che adduce. E quella della «carestia terroristica» pianificata da Stalin per sterminare il popolo ucraino potrebbe essere più attendibile della tesi del pericolo corso dagli Stati Uniti di Reagan di essere invasi dall’URSS di Gorbačev! E dunque concentriamo la nostra attenzione sull’Ucraina dei primi anni trenta. Nel 1934, di ritorno da un viaggio in Unione Sovietica che l’aveva portato anche in Ucraina, il primo ministro francese Edouard Herriot, nonché il carattere pianificato, nega anche l’ampiezza e la gravità della carestia [SUP]65[/SUP]. Rilasciate dal leader di un paese che l’anno dopo avrebbe stipulato un trattato di alleanza con l’URSS, queste dichiarazioni sono in genere considerate scarsamente attendibili. Insospettabile è però la testimonianza contenuta nei rapporti dei diplomatici dell’Italia fascista. Anche nel periodo in cui più spietata è la repressione dei “controrivoluzionari”, essa s’intreccia con iniziative che vanno in direzione diversa e contrapposta: ecco i soldati «inviati in campagna per collaborare ai lavori rurali» o gli operai che accorrono per riparare le macchine; assieme all’«azione di distruzione di ogni velleità separatista ucraina» assistiamo ad una «politica di valorizzazione dei caratteri nazionali ucraini», che cerca di attrarre «gli ucraini della Polonia verso una possibile e sperabile unione con quelli dell’URSS»; e questo obiettivo viene perseguito favorendo la libera espressione della lingua, della cultura, del costume ucraino [SUP]66[/SUP]. Stalin si proponeva di attrarre «gli ucraini della Polonia» verso gli ucraini sovietici, sterminando questi ultimi mediante l’inedia? A quanto pare, le truppe sovietiche che, subito dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, irrompono nei territori ucraini sino a quel momento occupati dalla Polonia, sono salutate favorevolmente dalla popolazione locale [SUP]67[/SUP].
Vediamo ora il quadro che emerge dalle prese di posizione di altri nemici di Stalin, questa volta collocati all’interno del movimento comunista. Trockij che, com’è noto, è nato in Ucraina, e che negli ultimi anni della sua vita si occupa ripetutamente della sua terra natia, prende posizione a favore del movimento indipendentista: egli condanna la ferocia della repressione ma, pur non risparmiando nessuna accusa a Stalin (in più occasioni paragonato a Hitler), non fa alcun cenno al cosiddetto “olocausto della fame” pianificato a Mosca [SUP]68[/SUP]. Trockij sottolinea che «le masse ucraine sono animate da inconciliabile ostilità nei confronti della burocrazia sovietica», ma individua la ragione di tale ostilità nella «repressione dell’indipendenza ucraina». A giudicare dalla tesi oggi corrente, l’Holodomor si sarebbe verificato nei primi anni trenta; ma secondo Trockij «il problema ucraino si è acutizzato agli inizi di quest’anno», e cioè del 1939 [SUP]69[/SUP]. Come Stalin, anche il leader dell’opposizione antistaliniana vorrebbe unificare tutti gli ucraini, anche se questa volta all’interno non più dell’URSS, bensì di uno Stato indipendente: ma sarebbe stato sensato formulare questo progetto, tacendo del tutto sul genocidio già consumato? Agli occhi di Trockij, la perfidia della burocrazia sovietica consiste in ciò: essa erige sì monumenti al grande poeta nazionale ucraino (Taras Sevčenko), ma solo per costringere il popolo ucraino a rendere omaggio agli oppressori moscoviti nella lingua del suo poeta nazionale [SUP]70[/SUP]. Come si vede, nonché di genocidio, non si parla neppure di etnocidio; per dura che sia la condanna del regime staliniano, ad esso non viene addebitata nonché la distruzione fisica, neppure quella culturale del popolo ucraino. Collocati che siano all’esterno ovvero all’interno del movimento comunista, i nemici di Stalin finiscono col convergere in questo essenziale riconoscimento.
Cominciano a essere chiare la fragilità e la strumentalità della corrispondenza istituita tra Holodomor e «soluzione finale». Hitler e gli altri caporioni nazisti proclamano in modo esplicito e ripetuto che occorre procedere all’annientamento degli ebrei, paragonati ad un bacillo, ad un virus, ad un agente patogeno, il cui sterminio consentirebbe alla società di recuperare la salute. Sarebbe vano ricercare dichiarazioni simili nei dirigenti sovietici a proposito del popolo ucraino (o ebraico). Potrebbe essere più interessante mettere a confronto la politica dell’URSS staliniana e quella della Germania hitleriana in relazione in entrambi i casi all’Ucraina. Hitler proclama in più occasioni che gli ucraini, come tutti i «popoli assoggettati», devono essere tenuti a debita distanza dalla cultura e dall’istruzione; occorre distruggere anche la loro memoria storica; è bene che non sappiano neppure «leggere e scrivere» [SUP]71[/SUP]. E non è tutto: si può «benissimo fare a meno» dell’80-90 per cento della popolazione locale [SUP]72[/SUP]. Soprattutto si può e si deve fare a meno, in modo totale, dei ceti intellettuali. La loro liquidazione è la condizione per poter trasformare il popolo assoggettato in una casta ereditaria di schiavi o semischiavi, destinati a lavorare e a morire di lavoro al servizio della razza dei signori. Il programma nazista è ulteriormente chiarito da Himmler. Si tratta di eliminare immediatamente gli ebrei (la cui presenza è rilevante nell’ambito dei ceti intellettuali) e ridurre al «minimo» la popolazione ucraina complessiva in modo da spianare la strada alla «futura colonizzazione germanica». È così che — commenta lo storico qui citato — anche in Ucraina vanno di pari passo «costruzione dell’Impero nazista» e «olocausto»; ad esso danno il loro contributo i nazionalisti ucraini che costituiscono la fonte principale e i principali propagandisti del libro di Conquest [SUP]73[/SUP].
Rispetto al Terzo Reich il potere sovietico si muove in direzione esattamente contrapposta. Conosciamo la politica di affirmative action promossa dal potere sovietico nei confronti delle minoranze nazionali e dei «fratelli e compagni» ucraini, per riprendere le parole utilizzate da Stalin subito dopo la Rivoluzione d’ottobre [SUP]74[/SUP]. In effetti, a promuovere con più decisione l'«azione affermativa» a favore del popolo ucraino è proprio colui che oggi è considerato il responsabile dell'Holodomor. Nel 1921 egli respinge la tesi di coloro secondo i quali «la Repubblica ucraina e la nazione ucraina erano un’invenzione dei tedeschi»: no, «è chiaro che la nazione ucraina esiste e che i comunisti devono svilupparne la cultura» [SUP]75[/SUP]. A partire da tali presupposti si sviluppa l’“ ucrainizzazione” della cultura, della scuola, della stampa, dell’editoria, dei quadri di partito e dell’apparato statale. All’attuazione di tale politica dà particolare impulso Lazar’ Kaganovič, che è un collaboratore fidato di Stalin e che nel marzo 1925 diviene segretario del partito in Ucraina [SUP]76[/SUP]. I risultati non si fanno attendere: nel 1931 la pubblicazione di libri in ucraino «raggiunse il suo culmine con 6.218 titoli su 8.086, quasi il 77%», mentre «la percentuale dei russi nel partito, pari nel 1922 al 72%, era scesa al 52%». Occorre altresì tener presente lo sviluppo dell’apparato industriale ucraino, sulla cui necessità insiste ancora una volta Stalin [SUP]77[/SUP].
Si può cercare di minimizzare tutto ciò rinviando al persistente monopolio del potere esercitato a Mosca dal partito comunista dell’Unione Sovietica. E, tuttavia, questa politica di “ucrainizzazione” ha un impatto così forte che essa è costretta ad affrontare la resistenza dei russi:
Questi ultimi restarono comunque delusi dalla soluzione data alla questione nazionale in Urss. Bruciava la parificazione della Russia alle altre repubbliche federali, irritavano i diritti concessi alle minoranze all'interno della Repubblica russa, infastidiva la retorica antirussa del regime [...] e pesava il fatto che i russi, unica nazionalità della federazione, non avevano né un loro partito né una loro accademia delle scienze [SUP]78[/SUP].​
Non solo non ha senso paragonare alla politica nazista quella sovietica, ma quest’ultima si rivela in realtà nettamente superiore anche alla politica dei Bianchi (appoggiati dall’Occidente liberale). Finisce suo malgrado col riconoscerlo lo stesso Conquest. Collocandosi su una linea di continuità rispetto all’autocrazia zarista, Denikin «rifiutava di ammettere l’esistenza degli ucraini». Esattamente contrapposto è l’atteggiamento di Stalin, che saluta l’«ucrainizzazione delle città ucraine». In seguito al successo di questa politica si apre una pagina nuova e altamente positiva:
Nell’aprile 1923, al XII Congresso del partito [comunista], la politica di “ucrainizzazione” trovò pieno riconoscimento legale: per la prima volta fin dal Diciottesimo secolo, un solido governo ucraino includeva nel proprio programma la difesa e lo sviluppo della lingua e della cultura ucraine [...]. Le personalità culturali ucraine che tornavano nel loro paese, lo fecero con la reale speranza che anche un’Ucraina sovietica avrebbe potuto dar vita alla rinascita nazionale. E in gran parte essi ebbero, per alcuni anni, ragione. Poesia e narrativa, opere linguistiche e storiche si diffusero ampiamente e con stimolante intensità tra tutte le classi, mentre tutta la letteratura precedente venne ristampata su ampia scala [SUP]79[/SUP].​
Abbiamo visto che questa politica è in vigore, anzi è in pieno sviluppo in Ucraina ancora agli inizi degli anni trenta. Certo, in seguito intervengono un terribile conflitto e la carestia e, tuttavia, come nel giro di pochissimo tempo si possa passare da una radicale affirmative action a favore degli ucraini alla pianificazione del loro sterminio resta un mistero. È bene non dimenticare che nella elaborazione e diffusione della tesi Holodomor hanno svolto un ruolo importante i circoli nazionalisti ucraini che, dopo aver scatenato «molti pogrom» antiebraici negli anni della guerra civile [SUP]80[/SUP], hanno spesso collaborato con gli invasori nazisti impegnati a promuovere la «soluzione finale»: dopo aver funzionato come strumento al tempo stesso di demonizzazione del nemico e di confortevole autoassoluzione, la tesi dell’Holodomor diviene poi una formidabile arma ideologica nel periodo conclusivo della Guerra fredda e nella politica di smembramento dell’Unione Sovietica.
Un’ultima considerazione. Nel corso del Novecento l’accusa di “genocidio” e la denuncia di “olocausto” sono state declinate nei modi più diversi. Abbiamo già visto diversi esempi. Conviene aggiungerne un altro. Il 20 ottobre 1941 il “Chicago Tribune” informa dell’appassionato appello rivolto da Herbert Hoover perché sia posta fine al blocco imposto dalla Gran Bretagna alla Germania. È già da alcuni mesi iniziata la guerra di sterminio scatenata dal Terzo Reich contro l’Unione Sovietica, ma su ciò l’ex presidente statunitense non spende una parola. Si concentra sulle terribili condizioni della popolazione civile dei paesi occupati (a Varsavia «il tasso di mortalità dei bambini è dieci volte più elevato del tasso di natalità») e chiama a porre fine a «questo olocausto», peraltro inutile, dato che non riesce a bloccare la marcia della Wehrmacht [SUP]81[/SUP]. È chiaro che Hoover si preoccupa di screditare il paese o i paesi, a fianco dei quali F. D. Roosevelt si appresta a intervenire, ed è appena il caso di dire che del presunto “olocausto” dal campione dell’isolazionismo messo sul conto di Londra e in parte di Washington si è persa la memoria.

La carestia terroristica nella storia dell’Occidente liberale

Peraltro, ancora più delle forzature, sono i silenzi ad inficiare in blocco il discorso del «veterano della Guerra fredda». Si potrebbe cominciare con un dibattito che si svolge alla Camera dei Comuni il 28 ottobre 1948: Churchill denuncia il dilagare del conflitto tra indù e musulmani e l' «orribile olocausto» che si sta consumando in India in seguito all’indipendenza concessa dal governo laburista e allo smantellamento dell’Impero inglese. Ed ecco che un deputato laburista interrompe l’oratore: «Perché non parli della fame in India?». L’ex primo ministro cerca di svicolare, ma l’altro incalza: «Perché non parli della fame in India, di cui è stato responsabile il precedente governo conservatore?» [SUP]82[/SUP] . Il riferimento è alla carestia, ostinatamente negata da Churchill, che nel 1943-44 provoca nel Bengala tre milioni di morti. Nessuna delle due parti evoca invece la carestia verificatasi alcuni decenni prima, sempre nell’India coloniale: in questo caso, a perdere la vita erano state due o tre decine di milioni di indiani, spesso costretti a erogare «duro lavoro» con una dieta inferiore a quella garantita ai detenuti del «tristemente noto Lager di Buchenwald». In questa occasione, la componente razzista era stata esplicita e dichiarata. I burocrati britannici ritenevano che fosse «un errore spendere tanti soldi solo per salvare un sacco di neri». D’altro canto, secondo il viceré, sir Richard Temple, a perdere la vita erano stati soprattutto mendicanti senza alcuna reale intenzione di lavorare: «Non saranno molti a piangere la sorte che si sono procurati e che ha posto termine a vite oziose e troppo spesso criminali» [SUP]83[/SUP].
A conclusione della Seconda guerra mondiale, sir Victor Gollancz, un ebreo approdato in Inghilterra in seguito alla fuga dalla persecuzione antisemita in Germania, pubblica nel 1946 The Ethics of Starvation e l’anno dopo In Darkest Germany. L’autore denuncia la politica di affamamento che, dopo la disfatta del Terzo Reich, infuria sui prigionieri e sul popolo tedesco, continuamente esposti alla condanna a morte per inedia: sì la mortalità infantile era dieci volte più elevata che nel 1944, un anno che pure era stato particolarmente tragico; le razioni a disposizione dei tedeschi sono pericolosamente vicine a quelle in vigore a «Bergen Belsen». [SUP]84[/SUP]
Nei due casi appena citati, ad essere paragonati ad un campo di concentramento nazista sono non l’Ucraina sovietica bensì i campi di lavoro dell’India assoggettata dall’Inghilterra e il regime di occupazione imposto agli sconfìtti dall’Occidente liberale. Almeno l’ultima accusa sembra essere più persuasiva, com’è confermato dal libro più recente e più esaustivo pubblicato sull’argomento: «I tedeschi erano nutriti meglio nella Zona sovietica». Ad essere più generoso era il paese che aveva subito la politica genocida del Terzo Reich e che a causa di tale politica continuava a soffrire la penuria. In effetti, a spingere l’Occidente liberale ad infliggere agli sconfitti la morte per inedia non era la scarsità di risorse bensì l’ideologia: «Politici e militari - come sir Bernard Montgomery -insistevano che nessun alimento doveva essere inviato dalla Gran Bretagna. La morte per l’inedia era la punizione. Montgomery affermava che i tre quarti di tutti i tedeschi erano ancora nazisti». Proprio per questo, era vietata la «fraternizzazione»: non bisognava rivolgere la parola e tanto meno sorridere ai membri di un popolo perverso in modo così totale e irrimediabile. Il soldato statunitense era messo in guardia: «nel cuore, nel corpo e nello spirito ogni tedesco è un Hitler». Anche una ragazza poteva risultare micidiale: «Non fare come Sansone con Dalila; lei amerà tagliarti i capelli e poi la gola». Questa campagna d’odio mirava esplicitamente a mettere fuori gioco il sentimento della compassione, e quindi a garantire il successo dell’«etica della condanna all’inedia». No, i soldati statunitensi erano chiamati ad essere impassibili anche dinanzi a bambini affamati: «in un bambino tedesco dai capelli gialli [...] è in agguato il nazista» [SUP]85[/SUP].
Se le tragedie del Bengala e dell’Ucraina si spiegano con la scala di priorità dettata dall’approssimarsi o dall’infuriare della Seconda guerra mondiale, che impone la concentrazione delle scarse risorse nella lotta contro un nemico mortale [SUP]86[/SUP], di carestia pianificata e terroristica si può ben parlare a proposito della Germania immediatamente successiva alla disfatta del Terzo Reich, dove la scarsità delle risorse non gioca alcun ruolo, mentre influisce in misura considerevole la razzizzazione di un popolo, che lo stesso F. D. Roosevelt ha la tentazione per qualche tempo di cancellare dalla faccia della terra mediante la «castrazione» (supra, p. 40). Si potrebbe dire che a salvare i tedeschi (e i giapponesi) o ad accorciare sensibilmente le loro sofferenze è stato lo scoppio della Guerra fredda: nella lotta contro il nuovo nemico, potrebbero risultare utili e preziose la carne da cannone e l’esperienza messe a disposizione dall’ex nemico.
Ma è inutile cercare cenni alla carestia nell’India coloniale e britannica o alla Bergen Belsen occidentale in Germania nel «veterano della Guerra fredda», impegnato a far valere lo schema costruito a priori dal revisionismo storico: tutte le infamie naziste sono solo la replica delle infamie comuniste; e dunque anche la Bergen Belsen hitleriana riproduce la Bergen Belsen ante litteram di cui è responsabile Stalin.
In piena coerenza con tale schema Conquest ignora del tutto il fatto che il ricorso all’affamamento e alla minaccia della morte per inedia costituiscono una costante nel rapporto istituito dall’Occidente coi barbari e coi nemici di volta in volta assimilati a barbari. Dopo la Rivoluzione nera di Santo Domingo, temendo l’effetto di contagio del primo paese che sul continente americano ha abolito la schiavitù, Jefferson si dichiara pronto a «ridurre Toussaint alla morte per inedia». A metà dell’Ottocento Tocqueville chiama a bruciare i raccolti e a svuotare i silos degli arabi che in Algeria osano resistere alla conquista francese (infra, p. 305). Cinque decenni dopo, con questa medesima tattica di guerra, che condanna un intero popolo alla fame o alla morte per inedia, gli Stati Uniti soffocano la resistenza nelle Filippine. Anche quando non è intenzionalmente pianificata, la carestia può comunque costituire un’occasione da non perdere. Nello stesso periodo in cui Tocqueville chiama a fare il deserto attorno agli arabi ribelli, una devastante malattia distrugge in Irlanda il raccolto di patate e decima la popolazione già duramente provata dal saccheggio e dall’oppressione dei colonizzatori inglesi. La nuova tragedia appare agli occhi di sir Charles Edward Trevelyan (incaricato dal governo di Londra di seguire e fronteggiare la situazione) come l’espressione della «Provvidenza onnisciente», che così risolve il problema della sovrappopolazione (e anche dell’endemica ribellione di una popolazione barbara). In questo senso, il politico britannico è stato talvolta bollato come un «proto-Eichmann», protagonista di una tragedia da considerare il prototipo dei genocidi del xx secolo [SUP]87[/SUP].
Ma concentriamoci sul Novecento. I metodi tradizionalmente messi in atto a danno dei popoli coloniali possono risultare utili anche nel corso della lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Inghiltera sottopone la Germania a un micidiale blocco navale, il cui significato è così chiarito da Churchill: «Il blocco britannico trattò l’intera Germania come una fortezza assediata e cercò in modo esplicito di ridurre all’inedia, e costringerla così alla capitolazione, l’intera popolazione: uomini, donne e bambini, vecchi e giovani, feriti e sani». Il blocco continua a essere imposto anche dopo la fine dell’armistizio, per mesi, ed è sempre Churchill a spiegare la necessità, nonostante il silenzio delle armi, del perdurante ricorso a questa «arma di affamamento sino all’inedia, che colpisce soprattutto le donne e i bambini, i vecchi, i deboli e i poveri»: gli sconfitti devono accettare sino in fondo le condizioni di pace dei vincitori[SUP]88[/SUP].
Ma con l’emergere minaccioso della Russia sovietica, il nemico è ormai un altro. Se Jefferson temeva il contagio della Rivoluzione nera, Wilson si preoccupa di contenere la rivoluzione bolscevica. Restano immutati i metodi. Per impedire che possa seguire l’esempio della Russia sovietica, l’Austria viene messa dinanzi, per dirla con Gramsci, ad una «brigantesca intimazione»: «O l’ordine borghese o la fame!» [SUP]89[/SUP]. In effetti, qualche tempo dopo è Herbert Hoover, alto esponente dell’amministrazione Wilson e futuro presidente degli usa, ad ammonire le autorità austriache che «qualsiasi disturbo dell’ordine pubblico renderà impossibile la fornitura di generi alimentari e metterà Vienna faccia a faccia con la fame assoluta». E, più tardi, sarà sempre lo stesso uomo politico americano a tracciare questo bilancio, di cui mena esplicitamente vanto: «la paura della morte per inedia ha trattenuto il popolo austriaco dalla rivoluzione» [SUP]90[/SUP]. Come si vede, soprattutto in Jefferson e Hoover è esplicitamente teorizzata quella «carestia terroristica» che Conquest rimprovera a Stalin.
Siamo in presenza di una politica che continua ad imperversare ai giorni nostri. Nel giugno del 1996, un articolo-intervento del direttore del Center for Economic and Social Rights metteva in evidenza le terribili conseguenze della «punizione collettiva» inflitta mediante l’embargo al popolo iracheno: già «più di 500.000 bambini iracheni» erano «morti di fame e di malattie». Molti altri erano sul punto di subire la stessa sorte. Ad una considerazione di carattere più generale procede alcuni anni dopo una rivista ufficiosa del dipartimento di Stato qual è “Foreign Affairs”: dopo il crollo del “socialismo reale”, in un mondo unificato sotto l’egemonia usa, l’embargo costituisce l’arma di distruzione di massa per eccellenza; ufficialmente imposto per prevenire l’accesso di Saddam Hussein alle armi di distruzione di massa, l’embargo in Iraq, «negli anni successivi alla Guerra fredda, ha provocato più morti che tutte le armi di distruzione di massa nel corso della storia» messe assieme. Dunque, è come se il paese arabo avesse subito contemporaneamente il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, gli attacchi all’iprite dell’esercito di Guglielmo II e di Benito Mussolini, e altro ancora [SUP]91[/SUP]. In conclusione: la politica della «carestia terroristica» rimproverata a Stalin attraversa in profondità la storia dell’Occidente, è messa in atto nel Novecento in primo luogo contro il paese scaturito dalla Rivoluzione d’ottobre e conosce il suo trionfo dopo il crollo del’Unione Sovietica.

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Simmetrie perfette e autoassoluzioni: antisemitismo di Stalin?

E, tuttavia, per sofisticato che sia il gioco delle analogie, la costruzione del mito dei mostri gemelli non sembra ancora giunta a compimento. Nonostante i tentativi di far corrispondere l’Holodomor ucraino all’olocausto ebraico, nella coscienza del nostro tempo il nome di Auschwitz suscita un orrore tutto particolare. Forse, si potrebbe considerare definitivamente compiuta l’assimilazione di Stalin a Hitler, se anche il primo risultasse affetto dalla follia sfociata nell’ebreicidio compiuto dal secondo.
Chruščëv ricorda che, nell’ultimo scorcio della sua vita, Stalin aveva sospettato i medici che curavano i dirigenti del paese di essere in realtà partecipi di un complotto imperialista mirante a decapitare l’Unione Sovietica. Il Rapporto segreto non lo dice, ma fra i medici investiti dal sospetto non pochi erano ebrei [SUP]92[/SUP]. Ed ecco che si può prendere le mosse di qui per arricchire il ritratto del mostro sovietico di un nuovo, decisivo particolare: «l’antisemitismo di fondo di Stalin e dei suoi seguaci», dichiara Medvedev, «non era un segreto per nessuno». Dell’«antisemitismo ufficiale dello Stato sovietico», precisa Hobsbawm, «esistono tracce innegabili sin dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948». Lo storico americano della pulizia etnica e dell’odio razziale che già conosciamo procede leggermente più a ritroso: «Alla fine della guerra Stalin condivideva molti aspetti dell’antisemitismo hitleriano». A rincarare ulteriormente la dose provvede Furet: «Dall’inizio dell’hitlerismo, Stalin non ha mai manifestato la minima compassione per gli ebrei» [SUP]93[/SUP]. Più radicale di tutti è naturalmente Conquest: «da sempre latente nello spirito di Stalin», l’antisemitismo cominciò in lui a manifestarsi con forza «a partire dal 1942-43» per diventare «onnipervasivo» nel 1948 [SUP]94[/SUP]. A questo punto si può considerare portata a termine la costruzione del mito dei due mostri gemelli.
Prima di analizzare l’estrema fragilità di tale costruzione, conviene notare che essa serve al tempo stesso a rimuovere le gravi responsabilità dell’Occidente nella tragedia che nel Novecento si abbatte sugli ebrei. È una tragedia in tre atti e con un prologo. Nel 1911 è tradotto in inglese il libro di Chamberlain (Ifondamenti del diciannovesimo secolo), tutto impegnato a leggere in chiave razziale (ariana e antisemita) la storia mondiale. Ben si comprende allora il ruolo di primo piano svolto dall’autore anglotedesco come maître à penser del nazismo. In modo particolarmente esaltato si esprime Goebbels che, nel vederlo a letto e ammalato, si scioglie in una sorta di preghiera: «Salute a te, padre del nostro spirito. Precursore, pioniere!» [SUP]95[/SUP]. In termini non meno ispirati, Chamberlain vede a sua volta in Hitler una sorta di salvatore e non solo della Germania [SUP]96[/SUP]. Ancora dopo la conquista del potere e mentre è febbrilmente impegnato nella guerra da lui scatenata, il Führer ricorda con gratitudine l’incoraggiamento da Chamberlain a lui fatto pervenire durante il periodo del carcere [SUP]97[/SUP].
Ebbene, come è accolto in Occidente questo testo-chiave della visione del mondo e dell’ideologia razziale proprie del nazismo? Entusiastica è in Inghilterra la reazione della stampa, a cominciare dal “Times”, che si spella le mani per applaudire il capolavoro e salutare «uno dei rari libri che abbiano una qualche importanza». Al di là dell’Atlantico largamente positivo è il giudizio di uno statista di primo piano qual è Theodore Roosevelt [SUP]98[/SUP]. Sul versante opposto, nel 1914 ad esprimere tutto il suo disprezzo per Chamberlain e i «teorici razziali» di ogni tipo è Kautsky, in quel momento (prima dello scoppio della guerra) venerato come un maestro dal movimento operaio e socialista nel suo complesso, compreso Stalin. Quest’ultimo, in particolare, nel 1907 definisce l’autore tedesco «un insigne teorico della socialdemocrazia», a causa anche del suo contributo all’analisi e alla denuncia dell’antisemitismo e dei «pogrom di ebrei» nella Russia zarista [SUP]99[/SUP].
Passiamo ora al primo atto della tragedia. Esso si svolge nella Russia pre-rivoluzionaria, nel corso della Prima guerra mondiale stretta alleata dell’Intesa. Discriminati e oppressi, gli ebrei sono sospettati di simpatizzare con il nemico e invasore tedesco. Lo stato maggiore russo mette in guardia contro la loro opera di spionaggio. Alcuni sono trattenuti quali ostaggi e minacciati di morte nel caso che la «comunità ebraica» dia prova di scarsa lealtà patriottica; presunte spie sono passate per le armi [SUP]100[/SUP]. Non è tutto; agli inizi del 1915, nelle aree investite dall’avanzata dell’esercito guglielmino viene decisa una deportazione di massa. Un deputato della Duma così descrive le modalità dell’operazione: a Radom, alle ore 23,
la popolazione viene informata che deve abbandonare la città, con la minaccia che chiunque verrà sorpreso all’alba sarà impiccato [...]. A causa della mancanza di mezzi di trasporto, vecchi, invalidi e paralitici devono essere trasportati a braccia. Polizia e gendarmi trattano gli ebrei come criminali. In un caso, un treno è completamente sigillato, e quando finalmente vien riaperto, la maggior parte di coloro che vi son dentro è moribonda.
Del mezzo milione di ebrei sottoposti alla misura di deportazione, centomila non sopravvivono [SUP]101[/SUP].​
Sull’onda della lotta contro la guerra e degli orrori che essa comporta scoppia poi la Rivoluzione d’ottobre. Essa si richiama a Marx e a Engels, il quale ultimo a metà dell’Ottocento aveva scritto: «Sono da un pezzo trascorsi i tempi di quella superstizione che riconduceva la rivoluzione alla malvagità di un pugno di agitatori» [SUP]102[/SUP]. Disgraziatamente, si trattava di una previsione errata in modo catastrofico. L’ascesa al potere in Russia di un movimento che si richiama all’“ebreo Marx” e vede una forte presenza ebraica nel suo gruppo dirigente inaugura l’epoca in cui la teoria del complotto celebra i suoi trionfi. Nella Russia dilaniata dalla guerra civile, pogrom e massacri contro gli ebrei, bollati in quanto burattinai del bolscevismo, sono all’ordine del giorno. Il nuovo potere sovietico s’impegna a bloccare questo orrore: sono emanate leggi severissime e Lenin chiama a liquidare «l’ostilità contro gli ebrei e l’odio contro le altre nazioni», nell’ambito di un discorso inciso anche su disco in modo da raggiungere i milioni di analfabeti [SUP]103[/SUP]. L’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti sono schierati dalla parte dei Bianchi e talvolta partecipano in modo attivo e diretto alla sanguinosa agitazione antisemita. Nell’estate del 1918 le forze britanniche sbarcate nel nord della Russia procedono ad una diffusione massiccia, lanciandoli dagli aerei, di volantini antisemiti [SUP]104[/SUP]. Qualche mese dopo si verificano pogrom di sconvolgenti proporzioni in cui perdono la vita circa sessantamila ebrei: «Si disse che gli Alleati, allora impegnati nella loro invasione della Russia, avevano segretamente appoggiato i pogrom» [SUP]105[/SUP]. È un «preludio», osservano autorevoli storici, dei «crimini nazisti», dello «sterminio della Seconda guerra mondiale» [SUP]106[/SUP], ed è un preludio che vede l’attiva partecipazione della Gran Bretagna, in quel momento alla testa della crociata antibolscevica.
Giungiamo così al terzo atto. Nonostante l’aiuto occidentale sconfitti dai bolscevichi, i Bianchi emigrano in Occidente, portandosi con sé la denuncia della Rivoluzione d’ottobre quale complotto ebraico-bolscevico e i Protocolli dei savi di Sion, che confermano in modo inconfutabile tale lettura.
Tutto ciò non resta senza conseguenze. In Inghilterra i «tipografi ufficiali di Sua Maestà» provvedono a stampare l’edizione inglese dei Protocolli, a breve distanza di tempo citati con grande evidenza dal “Times”, come prova o indizio della minacciosa trama segreta che andava avvolgendo l’Occidente [SUP]107[/SUP]. Si sviluppa così una campagna, alla quale non è estraneo Winston Churchill, il quale s’impegna a denunciare il ruolo dell’ebraismo non solo in Russia ma nell’intero ciclo della sovversione che a partire dal Settecento infuria in Occidente:
Questo movimento tra gli ebrei non è nuovo. Già dai giorni di Spartakus Weishaupt [gli Illuminati di Baviera] sino a quelli di Karl Marx e poi di Trockij (Russia), di Béla Kun (Ungheria), di Rosa Luxemburg (Germania) e di Emma Goldman (Stati Uniti) si espande questa cospirazione mondiale per il rovesciamento della civiltà e per la trasformazione della società sulla base di uno sviluppo bloccato, di una malevola invidia e di un’impossibile eguaglianza. Come ha sapientemente dimostrato un’autrice contemporanea, la signora Webster, [questo movimento] ha giocato un chiaro ruolo nella tragedia della Rivoluzione francese. Esso costituiva la molla alle spalle di ogni tendenza sovversiva nel xix secolo, e ora questa banda di straordinarie personalità provenienti dai bassifondi delle grandi città europee e americane ha preso per il collo il popolo russo ed è in pratica diventata il padrone incontrastato di uno Stato potente [SUP]108[/SUP].​
Ancora nel 1937, mentre esprime un giudizio positivo su Hitler, Churchill sottolinea insistentemente le origini ebraiche di un dirigente di primissimo piano della Rivoluzione bolscevica, e cioè «Lev Trockij, alias Bronstein». Sì, «egli era pur sempre un ebreo. Nulla poteva cancellare tale caratteristica» [SUP]109[/SUP].
Al di là dell’Atlantico, negli Stati Uniti a promuovere la diffusione dei Protocolli dei savi di Sion è Henry Ford, il quale così sentenzia: «La Rivoluzione russa è di origine razziale, non politica», ed essa, servendosi di parole d’ordine umanitarie e socialiste, esprime in realtà un’«aspirazione razziale al dominio mondiale» [SUP]110[/SUP]. Oltre al magnate dell’industria automobilistica americana, a distinguersi nella denuncia dell’occulta regia ebraica del movimento rivoluzionario che, dopo aver rovesciato il regime zarista, scuote l’Occidente, sono due campioni del regime di white supremacy, a mettere in guardia contro la «leadership semitica» del «bolscevismo» è Madison Grant, mentre a bollare come «largamente giudaico» il «regime bolscevico della Russia sovietica» è Lothrop Stoddard [SUP]111[/SUP], il quale ultimo diviene l’autore di riferimento di due presidenti statunitensi (infra, p. 297).
In questo clima, nella Repubblica nordamericana si alzano voci che invocano misure radicali al fine di fronteggiare l’«imperialismo giudaico, col suo obiettivo finale di stabilire un dominio ebraico su scala mondiale». Un duro destino - tuonano altre voci ancora più minacciose -attende il popolo responsabile di questo infame progetto: si profilano «massacri degli ebrei tali [...] da essere ritenuti sinora impossibili», e dunque «di una scala senza precedenti nei tempi moderni» [SUP]112[/SUP].
Leggendo questi motivi in Churchill, Ford e negli altri autori statunitensi precedentemente citati, siamo portati a pensare all’agitazione antisemita sviluppata con toni ancora più accesi dai nazisti. Questi dall’emigrazione antibolscevica attingono non solo idee, ma anche mezzi finanziari, nonché militanti e quadri in misura non trascurabile [SUP]113[/SUP]. Basti pensare in primo luogo a Rosenberg, uno dei più grandi interpreti della Rivoluzione d’ottobre quale complotto ebraico.
Come si vede, nel corso di tutto il suo svolgimento, la tragedia novecentesca del popolo ebraico vede l’attiva partecipazione, da un lato, dell’Occidente liberale, dall’altro, della Russia prerivoluzionaria e controrivoluzionaria. Tutto ciò è cancellato con un colpo di spugna dall’accusa di antisemitismo rivolta a colui che più a lungo di ogni altro ha diretto il paese scaturito dalla Rivoluzione d’ottobre ovvero dal “complotto ebraico-bolscevico”.

Antisemitismo e razzismo coloniale: la polemica Churchill-Stalin

La leggenda nera che qui stiamo analizzando consente altresì di rimuovere anche il razzismo coloniale o di origine coloniale che infuria in Occidente ancora in pieno Novecento. A tale proposito il significato epocale della rottura rappresentata dal leninismo è stato così sintetizzato da Stalin:
Prima, la questione nazionale si riduceva di solito a un gruppo ristretto di problemi che riguardavano, per lo più, le nazioni “civili”. Irlandesi, ungheresi, polacchi, finlandesi, serbi e alcune altre nazionalità dell’Europa: questo era il gruppo di popoli, privati dell’eguaglianza di diritti, delle cui sorti s’interessavano gli eroi della II Internazionale. Decine e centiniaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli dell’Asia e dell’Africa, che subivano il giogo nazionale nelle sue forme più brutali e più feroci, di solito non venivano presi in considerazione. Non ci si decideva a mettere sullo stesso piano bianchi e neri, “civili” e “non civili” [...]. Il leninismo ha smascherato questa disparità scandalosa; ha abbattuto la barriera che separava bianchi e neri, europei e asiatici, schiavi dell’imperialismo “civili” e “non civili”, collegando, in questo modo, il problema nazionale al problema delle colonie [SUP]114[/SUP].​
Siamo nel 1924. Sono gli anni in cui gode di grande fortuna da una parte e dall’altra dell’Atlantico un autore quale lo statunitense Stoddard, impegnato a denunciare il pericolo mortale che per l’Occidente e la razza bianca rappresentano la crescente agitazione dei popoli coloniali (stimolata o incoraggiata dai bolscevichi) ovvero la «marea montante dei popoli di colore» [SUP]115[/SUP]. Questa tendenza alla celebrazione della white supremacy continua a mostrarsi ben vitale nei decenni successivi.
Se Stalin condanna i processi di razzizzazione messi in atto dall’Occidente a danno anche degli asiatici, è interessante analizzare l’ideologia che si manifesta negli usa in occasione della guerra contro il Giappone. La stampa e una diffusa pubblicistica mettono in guardia contro la «minaccia razziale»: siamo in presenza di «una guerra santa, un guerra razziale», di «una guerra perpetua tra ideali orientali e occidentali». Ricorrente è la de-umanizzazione dei nemici, ridotti a sub-umani o a vere e proprie bestie. Ed è un’ideologia che non è estranea neppure ai circoli dirigenti dell’amministrazione di Franklin D. Roosevelt [SUP]116[/SUP].
D’altro canto, il razzismo coloniale continua in qualche modo a manifestarsi nelle capitali occidentali anche successivamente al crollo dell’Impero del Sol Levante e del Terzo Reich. A Fulton, nel marzo del 1946, Churchill dà inizio sul piano propagandistico alla Guerra fredda, condannando non solo la «cortina di ferro» e il «controllo totalitario» imposti dall’Unione Sovietica in Europa orientale, ma celebrando anche in contrapposizione a tutto ciò, quali campioni della libertà e della «civiltà cristiana» e quali guida del mondo, «i popoli di lingua inglese» e il «mondo di lingua inglese» [SUP]117[/SUP]. Si comprende allora l'irata risposta di Stalin: lo statista inglese è accusato di aver formulato una «teoria razzista» non dissimile da quella cara a Hitler; «solo le nazioni di lingua inglese sono nazioni autentiche, chiamate a decidere le sorti di tutto il mondo» [SUP]118[/SUP]. In questa risposta sono evidenti le semplificazioni della Guerra fredda. E, tuttavia, non mancano le analogie tra celebrazione dei popoli di lingua inglese e mitologia ariana: a partire dalla comunità linguistica si desume l’unità della razza che la sottende; e a testimonianza dell’eccellenza di tale razza si adducono i prodotti culturali delle lingue ariane ovvero della lingua inglese. Nella sua corrispondenza con Eisenhower il linguaggio di Churchill è ancora più inquietante: il «mondo di lingua inglese» (English-Speaking world) è sinonimo di «popolo bianco di lingua inglese» (white English-Speaking people). La sua «unità» è assolutamente necessaria [SUP]119[/SUP]: sono da liquidare una volta per sempre i «contrasti tra le razze strettamente apparentate dell’Europa» che hanno provocato le due Guerre mondiali [SUP]120[/SUP]; solo così si potrà fronteggiare la minaccia proveniente dal mondo coloniale ed extraoccidentale. Si comprende allora l’appello nel 1953 lanciato da Churchill in primo luogo agli Stati Uniti: occorre sostenere l’Inghilterra nel suo conflitto con l’Egitto «al fine di prevenire un massacro a danno dei bianchi» (of white people) [SUP]121[/SUP].
Estranei all’Occidente e alla razza bianca non sono soltanto gli arabi. Il mondo comunista, che alimenta la rivolta dei popoli coloniali contro l’uomo bianco, è espressione di «un aggressivo totalitarismo semiasiatico» [SUP]122[/SUP]. Chiaramente, la Guerra fredda tende ad essere interpretata come uno scontro che vede da un lato Occidente, «civiltà cristiana» e razza bianca, guidati dal «mondo di lingua inglese» ovvero dal «popolo bianco di lingua inglese», e dall’altro la barbarie del mondo coloniale e comunista. In questo contesto ben si inserisce la celebrazione sia dell'«Impero britannico» sia della «razza britannica» [SUP]123[/SUP]. E come non c’è cenno al fatto che lo sterminio degli ebrei aveva avuto luogo nel cuore dell’Occidente e del mondo bianco, ed era stato perpetrato da una delle «razze strettamente apparentate dell’Europa», così non si fa parola della persistente oppressione subita dagli afroamericani negli Stati Uniti della white supremacy.
Anche in Eisenhower la celebrazione del «mondo occidentale» e della «morale occidentale» [SUP]124[/SUP] tende ad assumere talvolta connotazioni razziali: parlando con Hoover e Dulles, nel luglio del 1956 egli osserva che, con la nazionalizzazione del canale di Suez, Nasser mira a «disarcionare i bianchi» (the white man) [SUP]125[/SUP]. È ancora fresco il ricordo della Guerra di Corea, da Washington condotta - riconosce la storiografia americana - con un atteggiamento di «disprezzo» nei confronti di «una nazione inferiore» (quella cinese) [SUP]126[/SUP].
 
A proposito di menzogne:

https://www.ansa.it/nuova_europa/it...dum_d5cce2b2-00fb-4595-9ab5-b12550112f59.html

https://www.rainews.it/articoli/202...ale-5f98af29-52f1-48e0-b7af-dd621fc4b2ac.html

...ha fatto presto il presidente-attore, finanziato dagli oligarchi nazisti ucraini e servo degli USA a fottersene del referendum e della Sovranità Popolare in materia di adesione UE e decidere univocamente ed in modo autoritario, come se la sua volontà coincidesse perfettamente con quella di tutto il Popolo Ucraino.
 
Il Golodomor solita propaganda degli ucraini.
Cifre reali e non inventate dagli asserviti occidentali americanizzati !
6 milioni di morti
2 kazaki
2 Russi
2 ucraini che sono sempre persone di etnia Russa

Il popolo ucraino non esiste, lo volete capire una buona volta o no ?
 
Stalin era un ebreo bolscevico georgiano che odiava i Russi.
Punto.
 
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