Con te partiro'...

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“Possiedi solo ciò che puoi portare con te;
conosci le lingue, conosci i paesi, conosci la gente.
Lascia che la tua memoria sia la tua sacca da viaggio.”

Aleksandr Isaevic Solzhenitsyn


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„Il porto di Vanino” era uno dei canti più popolari tra i detenuti dei gulag.
E’ noto anche col nome di “Kolyma”, chiamata il “lager della morte”.
Non si conosce l’autore, forse il poeta Boris Ruč’jov (1913-1973), che nel 1937 fu arrestato e trascorse dieci anni nei lager staliniani, per essere
poi riabilitato nel 1956.
Il porto di Vanino, nella Siberia orientale, era il punto di transito per i detenuti diretti a Kolyma.


Il porto di Vanino

Ricordo il porto di Vanino,

E la cupa vista della nave,

E noi che scendevamo la scala

Nella stiva buia e glaciale.

Sull’acqua la nebbia scendeva,

Ruggiva la furia del mare,

Ruggiva di fronte a Magadan –

Di Kolyma la capitale.

Non un canto, ma un lamento

Da ogni petto si levava.

Addio per sempre terra natia” –

La nave struggente gracchiava.

Noi reclusi soffrivamo il rollio,

Come fratelli ci abbracciavamo,

E solo a volte dalle lingue

Sorde imprecazioni lanciavamo.

Maledetta sei tu Kolyma,

Chiamata pianeta – meraviglia.

Per la scala scendevi là,

Da dove ritorno non c’era.

Trecento miglia di taigà,

Dove vivono belve soltanto.

Dove i veicoli non vanno,

E si trascinano i cervi inciampando.

Io so che tu non mi aspetti,

Le mie lettere non leggi nemmeno.

Tu non verrai a incontrarmi,

O verrai senza riconoscermi,

Io temo.

(Versione di Paolo Statuti)
 

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Majakovskij e i suoi viaggi
Dopo un viaggio all’estero chiesero a Majakovskij:


-Vladimir Vladimirovic, com’è laggiù a Montecarlo, molto chic?

Rispose:
-Molto, come da noi nell’albergo “La grande Mosca”.

Allora gli chiesero:
-Voi avete viaggiato molto. Sarebbe interessante sapere: quale città ritenete la più bella del mondo?

La risposta fu:
-Vjatka.*

(ndt) Fino al 1934 nome della città di Kirov

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Il futurista Majakovskij era famoso per le sue uscite villane e per il suo non comune aspetto esteriore.
Una volta uscì sul palcoscenico a leggere i suoi versi ditirambici ad un pubblico che si era radunato per burlarsi di lui:
esce tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni, con la sigaretta serrata all’angolo della bocca sprezzantemente storta.
Era alto di statura, forte e ben proporzionato a vedersi, i tratti del suo viso erano penetranti e grandi.
Legge ora alzando la voce fino ad un ruggito ora borbottando svogliatamente sotto il suo naso: finito di leggere si rivolge
al pubblico già con linguaggio prosastico:
“… Quelli che desiderano un pugno sul grugno sono pregati di mettersi in fila”.
 

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“…Come vi ho già scritto ieri ho rivisto con molto piacere Monte Carlo; laggiù le grandi linee delle montagne e il mare
sono stupendi e, se non pensiamo alla vegetazione esotica che c’è qui, Monte Carlo è certamente il posto più bello di
tutta la costa: i motivi sono più completi, più quadro, e quindi più semplici da realizzare…”.

Claude Monet
 

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Mark Knopfler è un intellettuale prestato al rock che usa le Gibson Les Paul e le Fender Stratocaster per raccontare storie, creare atmosfere gli bastano due cascate di note pizzicate con l’antico stile “fingerpicking” dei bluesmen che lui ha mostrato al mondo.





E' una specie di Emilio Salgari che viaggia con la mente senza mai muoversi: prima è a Nashville o in una fiera di paese in Arizona, un attimo dopo in un pub di Belfast dopo l’orario di chiusura ad ascoltare vecchie ballad folk irlandesi, poi al Birdland di New York sulle note di un assolo di tromba.




«Quando ero giovane attraversavo l’Europa in autostop, sono andato fino in Grecia passando da Brindisi.
Ma una volta mi sono ritrovato nel sud dell’Inghilterra a fare autostop per tornare a casa a Newcastle la notte di Natale.
Un camionista mi ha lasciato a una rotonda in mezzo alla neve, non c’era nessuno e avevo solo la mia chitarra da quattro soldi.
In quel momento ho capito che quello che volevo fare era scrivere canzoni».
 


Mark Knopfler, Seattle

Sopra il bar la tv sta mostrando la partita
ma non la guardiamo, a malapena ci concentriamo
attraverso le finestre, nel giorno che svanisce
la 1st Avenue diventa grigia
mi guardi mai e vedi un altro uomo
prendiamoci altre due birre e facciamo un altro progetto
qualche volta mi sembra di avere la chiave
ma ogni volta che ci provo non funziona per me
Seattle - devi amare la pioggia
ed entrambi amiamo la pioggia
entrambi amiamo la pioggia

guardavamo il panorama della città dal molo del traghetto
e hai messo le tue braccia attorno al mio collo
parlavamo di guardare fuori dalla città
ora sembra che il sogno sia svanito
credo ancora che ci sia un posto per noi da qualche parte
ma è qualcosa di cui non parliamo
e sei il meglio che abbia mai conosciuto
stai con me, baby, e ce la faremo
ce la faremo
Seattle - devi amare la pioggia
ed entrambi amiamo la pioggia
entrambi amiamo la pioggia
Seattle - ti voglio ancora allo stesso modo
ed entrambi amiamo la pioggia
entrambi amiamo la pioggia



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Mark Knopfler nel suo album “Tracker” ha dedicato una canzone alla Sicilia ed in particolare a Taormina.
L’ex Dire Straits è rimasto colpito dall’atmosfera del Teatro Antico nel corso del suo concerto del 16 luglio 2013 e,
tornato in albergo, ha messo su carta le sue emozioni.
Questi appunti sono diventati “Light of Taormina”.
Nel testo Knopfler parla della storia d’amore di due ragazzi: “guardando dall’alto in basso le luci di Taormina
l’amore arde sotto il vulcano / lui poteva sentire i suoi baci dolci come il vino rosso di Messina”.

Non è la prima volta che Taormina entra nella storia della musica.



“Guardando dall’alto in basso le luci di Taormina
l’amore arde sotto il vulcano
lui poteva sentire i suoi baci dolci come il vino rosso di Messina

(...)Guardando dall’alto in basso le luci di Taormina
i rintocchi della storia
Miti di dei e uomini
antichi sogni in tutto il loro mistero
Le guerre per la Sicilia e le donne spartane
Nelle nebbie dell’antichità
Le navi da guerra, imbarcatesi a Cartagine”


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Rosso Istanbul – Ferzan Ozpetek

"...So che mi accoglierà un vento fresco nella città che mi aspetta: Istanbul...Dove mi aspetta la mia vecchia casa...
Si lasciano mai le case dell'infanzia? Mai: rimangono sempre dentro di noi, anche quando non esistono più...
E dire che un tempo l'orizzonte del mio mondo era tutto chiuso dentro un giardino con due grandi tigli, che in primavera,
a Istanbul, quando sono in fiore, stordiscono, insieme alla brezza che arriva dal mare.

(...)Che cosa ho imparato sull’amore? Quello che ho imparato sull’amore è che l’amore esiste. O forse, più semplicemente,
quello che ho imparato e imparo sull’amore è quello che racconto nei miei film, in tutti i miei film.
E cioè che non dimentichiamo mai le persone che abbiamo amato, perchè rimangono sempre con noi; qualcosa le lega a
noi in modo indissolubile anche se non ci sono più.
Ho imparato che ci sono amori impossibili, amori incompiuti, amori che potevano essere e che non sono stati.
Ho imparato che è meglio una scia bruciante, anche se lascia una cicatrice: meglio l’incendio che un cuore d’inverno.

Ho imparato, e in questo ha ragione mia madre, che è possibile amare due persone contemporaneamente.
A volte succede: ed è inutile resistere, negare, o combattere.
Ho imparato che l’amore non è solo sesso: è molto, molto di più. Ho imparato che l’amore non sa nè leggere nè scrivere.
Che nei sentimenti siamo guidati da leggi misteriose, forse il destino o forse un miraggio, comunque qualcosa di imperscrutabile
e inspiegabile. Perchè, in fondo, non esiste mai un motivo per cui ti innamori. Succede e basta. E’ un entrare nel mistero: bisogna
superare il confine, varcare la soglia. E cercare di rimanerci in questo mistero, il più a lungo possibile.


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:bow:OK!







Istanbul è una città straordinaria, raro esempio di stratificazione coesistente fra civiltà diverse. Prima, la romana. Partiamo :D da piazza sultan ahmet, il cuore turistico della città.

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Anzitutto i resti dell'Ippodromo. Costruito dall’imperatore Costantino dopo il trasferimento della capitale nel 330, in realtà espandendo quello già esistente di Settimio Severo (di un secolo prima): le tribune in origine erano in legno e solo successivamente vennero costruite in muratura, la lunghezza era di circa 450 metri. Si sfidavano in pista le 4 famose fazioni, che avevano un ruolo anche politico (soprattutto quando c’era da organizzare rivolte): i bianchi, i blu, i rossi, i verdi; l’imperatore presenziava spesso e volentieri. imangono pochi resti. In particolare, sono ancora visibili e rimasti al loro posto alcuni dei monumenti che decoravano la spina: l'obelisco di Teodosio, la colonna Serpentina in bronzo e l'obelisco di Costantino Porfirogenito. Rimangono, inoltre, le vestigia della curva a sud-est, ovvero le sottostrutture della Sphendoné, e qualche porzione delle gradinate orientali e occidentale.

.

Pochi passi a ovest, e scendiamo :D nella suggestiva Cisterna Basilica.

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Costruita nel 532, oggi si presenta come un enorme spazio sotterraneo di circa 140 metri per 70, in cui trovano spazio dodici file di 28 colonne alte 9 metri e distanziate l'una dall'altra di 4,90 m. I capitelli sono un misto tra gli stili ionico e corinzio, con alcune eccezioni di dorico o addirittura di colonne non decorate. La cisterna era alimentata dall'acquedotto di Valente, un acquedotto, tra i più lunghi della romanità, che portava acqua fin dalla foresta di Belgrado e poteva contenere fino ad 80 milioni di litri d'acqua

.

Risaliti in superficie, di fronte ammiriamo ed entriamo nella chiesa di Santa Sofia, edificata dall'imperatore Giustiniano.

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Poi adibita a moschea, ma conservando i meravigliosi mosaici

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Una visitina al Gran Bazar di Istanbul è d'obbligo

Sono circa 5.000 i negozietti del Gran Bazar, uno dei mercati coperti più grandi e antichi del mondo, rinomato soprattutto
per le sue ceramiche dipinte a mano, la bigiotteria, i tappeti, le spezie e gli oggetti d’antiquariato.
Il Gran Bazar attira ogni giorno tra i 250,000 e i 400,000 visitatori, tra cui locali e turisti, ma non è solamente un mercato.
Dal momento della sua costruzione, nel 1461, il Gran Bazar rappresenta infatti il cuore dell’attività commerciale di Istanbul
ed il luogo ideale per andare a caccia di ottimi affari!



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Dalla cucina arrivano senza sosta varie pietanze in scodelle di argilla fumanti.
– Questo, – dice Andi con orgoglio, – è il piatto piú famoso di Tirana. Si chiama fergese e tirone e appartiene
alla cucina tradizionale a base di carne, ricotta, fegato, cipolle, aglio, peperoni e tanti odori. Si cucina
direttamente qui, – Andi indica le scodelle di argilla, – e si cuoce nel forno. È l’unico piatto tradizionale
sopravvissuto alla parentesi comunista, – e spiega a Rebecca che i piatti tradizionali venivano rivisitati per
risparmiare sugli ingredienti. Dovevano mangiare tutti, no? Sua madre racconta di quell’operaio che alla mensa
della fabbrica chiede un jahni, altro piatto della cucina locale, una zuppa densa fatta di pezzi di carne, cipolla e
farina. L’operaio cerca dei pezzi di carne ma in quel liquido torbido non trova nulla.
Torna risentito dall’addetta dietro al banco, dice che senz’altro hanno sbagliato piatto, voleva un jahni e non un
brodo vegetale. «Sei già stato fortunato, – dice l’addetta, – che sei riuscito a prendere il brodo, dimentica la
carne, compagno! Dobbiamo mangiare tutti, no?» E gli aveva girato le spalle.

Il tuo nome è una promessa di Anilda Ibrahimi


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Una visitina al Gran Bazar di Istanbul è d'obbligo

Sono circa 5.000 i negozietti del Gran Bazar, uno dei mercati coperti più grandi e antichi del mondo, rinomato soprattutto
per le sue ceramiche dipinte a mano, la bigiotteria, i tappeti, le spezie e gli oggetti d’antiquariato.
Il Gran Bazar attira ogni giorno tra i 250,000 e i 400,000 visitatori, tra cui locali e turisti, ma non è solamente un mercato.
Dal momento della sua costruzione, nel 1461, il Gran Bazar rappresenta infatti il cuore dell’attività commerciale di Istanbul
ed il luogo ideale per andare a caccia di ottimi affari!



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per te , che hai anche il 3ad della salute, scendendo verso il mare a sinistra alcune centinaia di metri, c'è inoltre il Bazar delle spezie detto egiziano



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.

gradisci un dolcetto ? :D

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eccolo, direttamente a domicilio

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E come dimenticare l'odore di spezie, di stoffe, di pellame, un odore penetrante che impregna l'aria del Gran Bazar mentre i commercianti
"barattano" le loro mercanzie e noi dobbiamo essere abili nel contrattare i prezzi...
I dolci preferisco quelli nostri esposti dietro belle vetrine..
.:p:D



Come mi vuoi…
cosa mi dai,
dove mi porti tu…?…
mi piacerai…
mi capirai…
sai come prendermi?…?…?…

Dammi un sandwich e un po’d’indecenza
e una musica turca anche lei
metti forte che riempia la stanza
d’incantesimi e spari e petardi

Eh… come mi vuoi?…
…che si senta anche il pullman perduto
una volta lontana da qui
e l’odore di spezie che ha il buio
con noi due dentro al buio abbracciati
 

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Il paese si trovava nascosto tra alte montagne. Sembrava non essere in contatto con niente e nessuno, tranne che con il tempo.
Se non ti si fermava il cuore passando per la gola di quelle montagne eri fortunato, o almeno cosí diceva una vecchia canzone.
Ma questo pericolo non esisteva perché raramente capitava che qualcuno passasse per Kaltra.
Kaltra: azzurra. Azzurra come l’acqua che sgorgava dalle viscere della terra al centro del paese. Kaltra era anche il nome del
fiume che scendeva dalla montagna e correva verso il mare. Correva sotto i ponti arcuati fatti di sassi bianchi, correva lungo il
destino fermo dei fieri montanari.

Le montagne si alzavano verso il cielo come coltelli ben affilati. Come se volessero tagliare fuori dal mondo queste esistenze.
Non è che il mondo avesse offerto loro granché, nemmeno le cose di cui avevano veramente bisogno. Eppure nessuno a Kaltra
si sentiva isolato. Si sentivano potenti come le pietre delle tombe che godono l’eternità inconsapevoli. Il passato era l’unica certezza
e aggrapparsi ad esso assicurava la sopravvivenza.
La gente di Kaltra viveva di pastorizia e di quelle poche terre che si stendevano ai piedi della montagna come una stretta coperta
su un letto grande. Terre prospere, ma non abbastanza per tutti.
Non si sapeva mai con precisione a quale distretto Kaltra appartenesse. I poveri montanari, scesi in città per le solite faccende
per le quali erano sempre scesi i loro nonni e bisnonni, una volta si erano sentiti dire che ormai facevano parte di un altro distretto.
Alla fine, Kaltra era solo una seccatura, per qualsiasi distretto.

Le case bianche erano nascoste da alberi e fitta vegetazione, ma erano vicine le une alle altre, contrariamente a quello che si può
immaginare di questi luoghi dispersi.
Al centro del paese, nella piazza, si trovava il busto di un grande guerriero. Grande per modo di dire, perché si erano perse del tutto
le tracce della sua identità. Non si sapeva piú a quale epoca e guerra appartenesse. In principio doveva aver avuto una spada in
mano, ma solo i piú vecchi ormai lo ricordavano. In compenso, i folti baffi avevano resistito al tempo.
Lo chiamavano tutti «il Baffetto», e spesso i ragazzi, quando scendeva il buio, cantavano le canzoni polifoniche della zona seduti proprio lí accanto.

Vicino al Baffetto c’era l’unico bar del paese. Solo per uomini. Si servivano le solite cose, il caffè turco e il raki. A volte per accompagnare
il raki il proprietario preparava in un piatto un po’ di feta, due cipollotti freschi e le immancabili interiora di pecora fritte al momento.
Per le feste invece metteva sulla brace capretti allo spiedo.

Anilda Ibrahimi - Rosso come una sposa

Anilda Ibrahimi è nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura a Tirana. Nel 1994 ha lasciato l’Albania,
trasferendosi prima in Svizzera e poi, dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa il suo secondo L’amore e gli stracci del tempo.

 

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Ksamil, piccola gemma nel sud dell’Albania, si trova di fronte all’isola di Corfù, ed è rinomata per la bellezza del mare, le coste frastagliate, gli isolotti, le acque cristalline e trasparenti.
Un posto semi sconosciuto al turismo, se paragonato alla vicina e molto più famosa Saranda o al vicino Parco archeologico di Butrinto.

Ksamil, il cui nome significa “sei miglia”, ad indicare la distanza che separa questa cittadina da Corfù, era fino a non molto tempo fa
un piccolo villaggio di pescatori.

Le tre belle isolette rocciose ricoperte da natura verde e selvaggia sono bagnate da acque limpide e poco profonde.
Si tratta di mete molto amate dai turisti, raggiungibili con pedalò e motoscafi, oppure a nuoto per i più avventurosi.
La prima tra tutte le isolette è facilmente raggiungibile a piedi, data l’acqua molto bassa


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Se per i buoni uffici del signor Nuri spedizioniere
la mia città, la mia Istanbul mi mandasse
un cassone di cipresso, un cassone di sposa
se io l'aprissi facendo risuonare
la serratura di metallo: dccinnn ...

due rotoli di tela finissima
due paia di camicie
dei fazzoletti bianchi ricamati d'argento
dei fiori di lavanda nei sacchetti di seta
e tu
e se tu uscissi da lì

ti farei sedere sull'orlo del letto
ti metterei sotto i piedi la mia pelle di lupo
con la testa chinata e le mani giunte starei davanti a te
ti guarderei, gioia, ti guarderei stupito
come sei bella, Dio mio, come sei bella
l'aria e l'acqua d'Istanbul nel tuo sorriso

la voluttà della mia città nel tuo sguardo
o mia sultana, o mia signora, se tu lo permettessi
e se il tuo schiavo Nazim Hikmet l'osasse
sarebbe come se respirasse e baciasse
Istanbul sulla tua guancia

ma sta' attenta
sta' attenta a non dirmi "avvicinati"
mi sembra che se la tua mano toccasse la mia
cadrei morto sul pavimento.

Nazim Hikmet
 

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E come dimenticare l'odore di spezie, di stoffe, di pellame, un odore penetrante che impregna l'aria del Gran Bazar mentre i commercianti
"barattano" le loro mercanzie e noi dobbiamo essere abili nel contrattare i prezzi...
I dolci preferisco quelli nostri esposti dietro belle vetrine..
.:p:D



Come mi vuoi…
cosa mi dai,
dove mi porti tu…?…
mi piacerai…
mi capirai…
sai come prendermi?…?…?…

Dammi un sandwich e un po’d’indecenza
e una musica turca anche lei
metti forte che riempia la stanza
d’incantesimi e spari e petardi

Eh… come mi vuoi?…
…che si senta anche il pullman perduto
una volta lontana da qui
e l’odore di spezie che ha il buio
con noi due dentro al buio abbracciati

:censored::D


La parola safari, che in kiswahili significa viaggio, probabilmente è stata introdotta nelle lingue occidentali da E. Hemingway.

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Egli visitò il Kenya per due volte, a distanza di venti anni l’una dall’altra. Nel 1933 accompagnato dalla sua seconda moglie Pauline Pfeiffer, nel 1953 accompagnato da Mary Welsh, l’inviata del Time e di Life che aveva conosciuto quasi dieci anni prima. I due viaggi avevano uno scopo preciso: il suo era il Safari di caccia, è il senso e l’emozione di questa sfida che affascina lo scrittore, sentendo un urgente il bisogno di confrontarsi con la natura. Forse proprio Hemingway, più di chiunque altro, aveva intuito quell’istinto in cui si riconosceva: agire per superare sempre i propri limiti con la conseguenza di visitare e vivere i luoghi con sfacciata intensità.

(dal web)

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Tuttavia il suo soggiorno in Africa Nera ha ispirato anche diversi romanzi, in cui ci trasmette descrizioni ed emozioni dei luoghi, della persone che l'hanno colpito.

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Mount Kilimajaro dall' Amboseli national park



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Migrazione degli ungulati al Masai mara
 
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Hemingway riesce mirabilmente a raccontare una terra carica di quell’energia ancestrale che soddisfa tanto la curiosità dei lettori quanto il vitalismo dell’autore.

In Verdi colline d’Africa scrive: «Io sarei tornato in Africa, ma non per guadagnarmi la vita, per questo mi bastavano un paio di matite e poche centinaia di fogli di carta della meno cara. Ma sarei tornato là, dove mi piaceva vivere, vivere veramente, non puramente trascorrere i giorni».

A proposito dei nomadi guerrieri della savana, i Masai, aggiunge: «I bambini erano giovanissimi, uomini e donne sembravano tutti della stessa età. Non c’erano vecchi. Avevano tutti l’aria di essere i nostri più grandi amici […] grandi e dritti nelle loro pelli brune, con le loro massicce trecce pendenti, i visi tinti in rosso-mattone, appoggiati alle loro lance, seguendoci con gli sguardi e sorridendo».


(dal web)


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Hujambo? Habari za asubuhi Diago? (in swahili)
Ciao/come stai? Come va questa mattina Diago?




L’Africa è un pensiero, un’emozione, quasi una preghiera: lo sono i suoi silenzi infiniti;
i suoi tramonti; quel suo cielo che sembra molto più vicino del nostro, perché si vede di più,
perché le sue stelle e la sua luna sono più limpide, nitide, pulite: brillano di più.

(Claudia Cardinale)


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“La foresta africana è piena di mistero. Pare di addentrarsi nei meandri di un antico arazzo,
scolorito o annerito qua e là dal tempo, ma meravigliosamente ricco di sfumature verdi.
Il cielo non si scorge, là dentro, ma i raggi del sole, penetrando fra le foglie, accendono
strani giochi di luce. I rampicanti appesi dappertutto e i funghi grigi simili a barbe fluenti,
sugli alberi, le danno un’aria segreta."

 (Karen Blixen)


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