Con te partiro'...

Fu solo nel 2009, durante un viaggio con le sue due figlie gemelle, di fronte allo spettacolo delle cascate del Niagara, che Annie Leibovitz
riprese in mano la macchina fotografica... Era partita per fuggire, per reagire, per salvarsi da un periodo doloroso, difficile, in seguito
alla morte di suo padre e di Susan, oltre ad una situazione finanziaria disastrosa.
Del suo "Pilgrimage" Annie dice: "Dovevo salvarmi la vita".


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Fu solo nel 2009, durante un viaggio con le sue due figlie gemelle, di fronte allo spettacolo delle cascate del Niagara, che Annie Leibovitz
riprese in mano la macchina fotografica... Era partita per fuggire, per reagire, per salvarsi da un periodo doloroso, difficile, in seguito
alla morte di suo padre e di Susan, oltre ad una situazione finanziaria disastrosa.
Del suo "Pilgrimage" Annie dice: "Dovevo salvarmi la vita".


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Ottavio Missoni, per le sue creazioni di maglieria, dallo stile immediatamente riconoscibile, si è ispirato ai colori di Petra,
alle sfumature rosso mattone, blu notte, bianco alabastro e giallo ocra che stratificano le rocce arenare della “Città Rosa”,
come è chiamata in Giordania.
Petra, la città dei Nabatei, è un vero sogno ad occhi aperti, che trasporta in atmosfere magiche e non è un caso che sia
stata inserita tra le Meraviglie del Mondo.
Già il modo in cui si apre agli occhi dopo aver percorso uno stretto canyon ha dell’incredibile.
Il magnifico sito scolpito tra le rocce si presenta subito con l’elegante facciata del Khasneh al Faroun, il Tesoro del Faraone,
un biglietto da visita sorprendente.
Da qui inizia un’emozionante passeggiata che porta ad arrivare fino al Monastero in cima alla montagna passando per tutte
le altre attrazioni della città come il teatro romano, i sepolcri in pietra e le cavità dove abitavano le famiglie beduine.


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Dall'alto di Jebel Rum, la cima più alta del deserto, la Giordania pare solo una distesa di pietre e sabbia: imponente ma desolata.
Questa terra riarsa ha vissuto vicende che hanno cambiato i destini del mondo: di qui sono passati Mosè e la Regina di Saba,
le carovane dell'incenso e le armate di Lawrence d'Arabia.


Un Paese da scoprire: dalle rovine della Decapoli romana alle acque azzurre di Aqaba, dalla fossa irreale del Mar Morto ai roccioni
surreali di Wadi Rum.

Paese immortalato anche nel film di Indiana Jones, e il deserto del Wadi Rum, reso celebre da Lawrence d’Arabia.


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"La Roccia è Ayers Rock, Uluru. Il figlio di Mrs Porter, Donald, l'ha portata a vederla. Sono a colazione, il secondo giorno di un tour di tre giorni,
nella Desert Rose Room dello Yullara Sheraton. Mrs Porter, che aspira con voluttà, è alla terza sigaretta, mentre Donald, uno scrittore di
lettere fatto e finito, ben felice di passare una mezz'ora buona a plasmare e riplasmare nella mente una descrizione, o a dare una sfavillante
lucentezza a un'osservazione ironica, è alle prese con un razzo aereo, tutto brio e verve e allusioni recondite, che non vede l'ora, una volta
fuori città, di lanciare in direzione degli amici più sagaci."

Verso mezzanotte. David Malouf


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Uluru – Ayers Rock è il più imponente massiccio roccioso dell’Australia nonché il simbolo del Paese.
Quello che le migliaia di visitatori vedono ogni anno, però, è solo un ventesimo della roccia, la maggior parte della quale è nascosta sotto terra.
Uluru Ayers Rock, infatti, misura 380 metri di altezza, ma ben 7 chilometri sono sotto la superficie terrestre.
In pratica è come un gigantesco iceberg fatto di roccia arenaria anziché di ghiaccio.

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Uluru non è un solo monolite, ma è formato da altre due montagne: Kata Tjuta e il Monte Conner.
Infatti, la formazione rocciosa è composta da un enorme blocco di roccia arenaria molto ma molto più grande.
Kata Tjuta, letteralmente “molte teste”, conosciuto anche come Monte Olga, si trova a poca distanza da Uluru (25 km) e si estende per oltre 21 km quadrati.
La formazione rocciosa è diversa da quella di Uluru e comprende 36 cupole (oggi si sono ridotte a 28) costituite di un misto di tre distinti materiali:
granito, basalto e scisto. Insieme danno il nome al Parco nazionale Uluru-Kata Tjuta.


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Il Monte Conner dall’alto spesso viene confuso con Uluru, anche se la sua forma è molto più piatta sulla cima.
E’ la più distante delle tre alture (88 km da Uluru), ma la si scorge lungo la strada che conduce al parco, venendo da Alice Springs.

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I tre fanno parte di un immenso e unico monolite in gran parte sepolto nella sabbia di dimensioni asteroidali.
Secondo alcuni scienziati, questo immenso monolite potrebbe essere in realtà quel che resta di una luna terrestre, assai simile morfologicamente
alla marziana Phobos, caduta intorno a 3,5 miliardi di anni fa e conficcatasi nel nascente scudo continentale australiano.

Uluru è visibile da decine di chilometri di distanza ed è celebre per la sua intensa colorazione rossa, che muta in maniera spettacolare dall’ocra,
all’oro, al bronzo, al viola, in funzione dell’ora del giorno e della stagione.
Questi effetti di colore sono dovuti a minerali come i feldspati, che riflettono particolarmente la luce rossa. Il massiccio è costituito in larga
parte di ferro e il suo colore rosso è dovuto all’ossidazione.

La maggior parte dei miti su Uluru, sulle sue caverne, le sue pozze, le sue sorgenti o le caratteristiche del paesaggio circostante sono segrete
e non vengono rivelate ai piranypa (i non-aborigeni), ma solo la storia generale della sua formazione possono essere noti a noi.
Inoltre, solo alcune parti del monolite possono essere fotografate dai turisti, altre invece sono severamente vietate perché sono considerate sacre.


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Secondo il mito, Tatji, la Lucertola Rossa, che abitava nelle pianure, giunse a Uluru, lanciò il suo kali (boomerang) che si piantò nella roccia. Tatji scavò la terra alla ricerca del suo kali, lasciando numerosi buchi rotondi sulla superficie della roccia, tuttora visibili. Questa parte della storia è volta a spiegare alcuni insoliti fenomeni di corrosione sulla superficie del monolite.
Non essendo riuscito a trovare il suo kali, Tatji morì in una caverna; i grossi macigni che vi si trovano oggi sono i resti del suo corpo.

Un altro mito riguarda due fratelli bellbird, un uccello australiano della famiglia dei passeri, che cacciavano un emù. L’emù fuggì verso Uluru e due uomini lucertola dalla lingua blu, Mita e Lungkata, lo uccisero e lo macellarono. Alcuni grossi macigni nei pressi di Uluru sarebbero pezzi della carne dell’emù.
Quando i fratelli bellbird giunsero sul posto, gli uomini lucertola diedero loro un misero pezzetto di carne, sostenendo che non c’era altro. Per vendetta, i fratelli bellbird diedero fuoco al riparo degli uomini lucertola. Questi cercarono di fuggire scalando le pareti della roccia, ma caddero e arsero vivi. Questa storia spiega i licheni grigi sulla superficie della roccia nella zona dove si sarebbe tenuto il pasto (che sono considerati traccia del fumo dell’incendio) e due macigni semi-sepolti (i resti dei due uomini lucertola).

I miti e le leggende del dreamtime sono rappresentate da numerosi dipinti rupestri lungo la superficie di Uluru. Secondo la tradizione aborigena, questi dipinti vengono frequentemente rinnovati; fra gli innumerevoli strati di pittura, i più antichi risalgono a migliaia di anni fa. Diversi luoghi lungo il perimetro dell’Uluru hanno valenza religiosa particolarmente forte e i turisti che li visitano sono soggetti a diversi livelli di proibizione (per esempio di non avvicinarsi a determinati luoghi o non scattare fotografie


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Rosso Istanbul – Ferzan Ozpetek

"...So che mi accoglierà un vento fresco nella città che mi aspetta: Istanbul...Dove mi aspetta la mia vecchia casa...
Si lasciano mai le case dell'infanzia? Mai: rimangono sempre dentro di noi, anche quando non esistono più...
E dire che un tempo l'orizzonte del mio mondo era tutto chiuso dentro un giardino con due grandi tigli, che in primavera,
a Istanbul, quando sono in fiore, stordiscono, insieme alla brezza che arriva dal mare.

(...)Che cosa ho imparato sull’amore? Quello che ho imparato sull’amore è che l’amore esiste. O forse, più semplicemente,
quello che ho imparato e imparo sull’amore è quello che racconto nei miei film, in tutti i miei film.
E cioè che non dimentichiamo mai le persone che abbiamo amato, perchè rimangono sempre con noi; qualcosa le lega a
noi in modo indissolubile anche se non ci sono più.
Ho imparato che ci sono amori impossibili, amori incompiuti, amori che potevano essere e che non sono stati.
Ho imparato che è meglio una scia bruciante, anche se lascia una cicatrice: meglio l’incendio che un cuore d’inverno.

Ho imparato, e in questo ha ragione mia madre, che è possibile amare due persone contemporaneamente.
A volte succede: ed è inutile resistere, negare, o combattere.
Ho imparato che l’amore non è solo sesso: è molto, molto di più. Ho imparato che l’amore non sa nè leggere nè scrivere.
Che nei sentimenti siamo guidati da leggi misteriose, forse il destino o forse un miraggio, comunque qualcosa di imperscrutabile
e inspiegabile. Perchè, in fondo, non esiste mai un motivo per cui ti innamori. Succede e basta. E’ un entrare nel mistero: bisogna
superare il confine, varcare la soglia. E cercare di rimanerci in questo mistero, il più a lungo possibile.


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Kashmir è una celebre canzone del gruppo hard rock inglese Led Zeppelin.
Compare nell'album Physical Graffiti (1975). In un'intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone nel 1988,
Plant affermò che Kashmir era "la canzone dei Led Zeppelin per eccellenza.
Plant scrisse il testo nel 1973 mentre stava guidando attraverso il deserto del Sahara in Marocco,
nonostante la canzone parli di una regione montuosa (Kashmir, appunto) tra il Pakistan settentrionale, l'India e la Cina.
Il titolo originale era Driving to Kashmir.


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Led Zeppelin - Going To California (1975)
Andando in California


Ho trascorso i miei giorni con una donna scortese
Ha fumato la mia roba e bevuto tutto il mio vino.
Ho deciso di ricominciare
Andando in California con un dolore nel cuore.

Qualcuno mi ha detto che c’è una ragazza laggiù
Con amore negli occhi e fiori nei capelli.
Ho corso il rischio su un grande jet
Non lasciare che ti dicano che sono tutti uguali.

Il mare era rosso e il cielo era grigio
Mi meravigliavo di come il domani potesse mai seguire l’oggi.
Le montagne e i canyon iniziarono a tremare e a scuotersi
Come i bambini del sole cominciarono a svegliarsi.

Sembra che l’ira degli Dei
Si sia presa un pugno nel naso e iniziò a sanguinare
Penso che potrei annegare.
Gettami una fune se la raggiungo in tempo*
Ci incontreremo lì dove il percorso
Scorre dritto e alto.

Per trovare una regina senza un re
Dicono suoni la chitarra e grida e canta.
La la la la

Accanto a una cavalla nelle orme dell’alba
Cercando di trovare una donna che non sia mai, mai, mai nata.

In piedi nella mia collina dei sogni
Dicendo a me stesso che non è così dura, dura, dura come sembra.


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«Avevo 19 anni ed ero innocente e naïf, certo che me lo ricordo! È passato molto tempo, oggi stiamo in albergo a leggere Nietzsche.
C’era da divertirsi molto e c’erano anche molte più persone con cui spassarsela. Gli Stati Uniti erano più divertenti e Los Angeles
era Los Angeles. La L.A. di adesso, infestata da 12enni sbandati, non è quella che piace a me.
È la prima città americana che ho visitato,
il primo posto in cui ho visto un poliziotto con la pistola e una macchina lunga sei metri.
Era pieno di gente divertente, ci hanno accolto tutti calorosamente, siamo partiti con una botta di divertimento ed energia positiva.
Ci tiravamo le uova da un piano all’altro dell’hotel, facevamo battaglie con i gavettoni, tutte quelle cose stupide che tutti i 19enni
dovrebbero fare. Sono stati i primi passi per imparare cosa vuol dire essere folli. Molte delle persone che abbiamo conosciuto al tempo
sono ancora con noi..." (Robert Plant)


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"Ho vissuto a Austin prima di tornare in Gran Bretagna, tre anni fa. In Texas ho vissuto
Meravigliosamente. La comunità mi ha adottato, avevo a che fare con grandi musicisti e ho fatto tanti concerti.
Con Patty Griffin ho creato una band chiamata Crown Vic. Ho comprato una vecchia auto della polizia e abbiamo
guidato fino a un festival a Marfa, ascoltando solo bella musica. Forse ero un po’ troppo vecchio per trasferirmi:
è stato con il cuore pesante che sono tornato in Galles. L’ho vissuta come una grave sconfitta.
...Mi mancava la mia famiglia, ed ero in cerca di pace. Mi mancavano le montagne e la nebbia, quel clima umido
da cui di solito la gente scappa, e che io amo." (Robert Plant)



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Marfa è una piccola ed eccentrica cittadina situata su un altopiano nel deserto del Chihuahua nel West Texas,
tra tortillas e teepees, Warhol e birrerie all’aperto, ampi spazi aperti e montagne che invitano a passeggiate rigeneranti.
Marfa è musica dal vivo, cieli stellati, film festival, eventi, gallerie ed installazioni d’arte.
Donald Judd, famoso artista minimalista di New York, all’inizio degli anni ’70 arrivò a Marfa e decise di trasferirvisi.
Gli sconfinati spazi del luogo gli permisero di creare installazioni permanenti in scala ben maggiore rispetto a quanto
consentivano gli spazi della Grande Mela. Acquistò terreni e strutture trasformandoli in luoghi d’arte, lasciandoli a disposizione
di artisti che a loro volta decisero di vivere e lavorare in questo luogo singolare.

Il Ballroom Marfa è un grande centro d’arte contemporanea, dove varie prospettive vengono esplorate e comunicate attraverso
arti visuali, film, musica, spettacoli ed esibizioni.
Prada Marfa è un'opera di nicchia a mito globale, nata nel 2005 dalle menti creative di Elmgreen e Dragset, un’installazione pop-art,
30 minuti ad ovest della città, che sembra in tutto e per tutto una vetrina di Prada, in mezzo al nulla, uno dei paradossi artistici più
affascinanti nell’era del consumismo, un negozio senza clienti, ma con migliaia di visitatori, nel bel mezzo del deserto del Texas.

“Non avremmo mai potuto immaginare che l’opera avrebbe ricevuto così tanta attenzione e significato così tanto per il nostro lavoro.
All’improvviso l’insegna con le miglia che separavano la strada da Prada Marfa comparve in Gossip Girl e Beyoncé si fece un selfie di
fronte alla struttura e poi tutto perse il controllo, diventando una meta ambita dalle persone” confessano i due creatori.


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È luminosa come il cielo di Dallas
Tiene sempre la testa alta
Ama la compagnia della sua famiglia
Lei ha fede nel più grande piano di Dio
Si fida che sono un brav'uomo
Ed è per questo che ci crederò sempre
È come il Texas e le piaccio

I suoi occhi sono verdi come gli alberi di Nacogdoches
I suoi denti sono bianchi come il cotone in autunno
E quando ride, te ne accorgi sempre
Perché il suo fascino del cuore brillerà proprio attraverso tutto questo ...


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La “Parigi d’Oriente”, così era nota Beirut nel mondo arabo, ora è più simile a una problematica banlieu della capitale francese.

A centinaia le giganti gru da cantiere, uccelli mostruosi, che dominano la città come una riserva naturale di mattoni.
Il traffico è impressionante ed endemico; tante automobili di grossa cilindrata, mercedes, jaguar, range rover si muovono a passo
d’uomo lasciandosi dietro strani manifesti pubblicitari sbiaditi dallo smog; immagini di coppie occidentali dei primi anni 2000,
ben vestite e sorridenti, si mescolano a poster di volti arabi su sfondo nero, corredati da copiose scritte orientali.
Ragazzi dai vestiti sporchi di polvere e terra, donne velate che tengono per mano bambini scapigliati, camminano davanti a negozi
di lusso dalle scritte dorate.


Beirut è una grande città contraddittoria, chiusa da due guerre; a sud Hezbollah, impegnato in una lotta decennale con la vicina
Israele, a nord l’Isis che avanza dalla vicinissima Siria. Ed è una terra sospesa fra le dimensioni del “non più”, di un benessere diffuso
che si allontana a passi veloci, e del “non ancora”, di una guerra che si attende
e che, per fortuna, fa fatica ad attecchire.
L’atmosfera di sospensione permea ogni angolo del Paese, fino ad arrivare nel profondo sud nella valle della Beqaa, zona calda di
frontiera a una manciata di chilometri dalla Terra Santa e dalla Siria.

In Libano, Paese sospeso tra Hezbollah e le mire dell'Isis

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"Mi pongo sempre le domande sulle donne libanesi. Ossessionate dal loro aspetto, cercano la loro identità fra l'immagine
delle donne occidentali e quella delle donne orientali…

La donna libanese vive perennemente come se stesse rubando gli attimi di felicità. Deve usare tutti i generi di stratagemmi
per poter fare ciò che desidera e quando ci riesce, si sente colpevole.
Pensare che siano libere è un errore.
Personalmente, anche se sono una donna emancipata che fa il lavoro che desidera, che fa ciò che vuole, nell’intimo sono
ancora profondamente condizionata dalle tradizioni, dall’educazione e dalla religione.

Le giovani libanesi crescono con la parola araba “aayib„ che, accompagnata da un gesto poco ortodosso vuol dire, “svergognata”
e tutto può essere “vergognoso”.
Siamo continuamente intimorite da fare qualcosa che non dovremmo fare e con l'idea fissa di doverci sacrificare per i nostri genitori,
bambini, marito e famiglia. In ogni momento delle nostre vite, abbiamo un esempio da seguire che, naturalmente, non corrisponde
a ciò che desideriamo per noi.
La donna libanese, che sia musulmana o cristiana, vive una contraddizione fra che cosa è, che cosa desidera essere e cosa le è
permesso essere."

NADINE LABAKI - regista


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Amami... lontano dalla terra della repressione,
lontano dalla nostra città sazia di morte.
Aleppo assediata, ultimo giorno 15/12/2016”.

Fra i messaggi lasciati sui muri di Aleppo questi versi del poeta siriano Nizar Qabbani ci ricordano che dentro ogni guerra
si continua ad amare.
Qualcuno li ha scritti con una bomboletta rossa su un muro di Aleppo Est, prima di lasciare la città, alla fine dell’assedio.


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Amami senza preoccupazioni
e perditi nelle linee della mia mano.
Amami per una settimana, per qualche giorno
o solo per qualche ora… non mi interessa l’eternità.
Io sono come ottobre allora… abbattiti
come fulmine sul mio corpo.


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Nizar Qabbani è nato a Damasco, in Siria, nel 1923.
Comincia a scrivere poesie a 16 anni e nel 1945 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Damasco e inizia una carriera da diplomatico
che lo porta al Cairo, Beirut, Londra, Istanbul e Madrid e in Cina.
Nel 1966, dopo la presa del potere in Siria del partito Ba‘th, si ritira dalla vita pubblica e si trasferisce a Beirut per dedicarsi completamente
alla scrittura. Lì fonda la casa editrice Manšūrāt Nizār Qabbānī (Pubblicazioni di Nizar Qabbani).
I suoi libretti di poesia, tenuti nascosti dai ragazzini sotto i cuscini, per leggerli di nascosto la sera, e dalle loro madri nelle borsette,
contengono materia incandescente: donne che negli anni cinquanta rivendicano il diritto di interrompere la gravidanza (“Abortirò… / non voglio
per lui un padre così spregevole!”); rapporti lesbo (“È forse perversione, sorella, / se una mela vuol baciare un’altra mela?”);
inviti all’amore libero; prostitute che denunciano l’ipocrisia degli uomini (“giudici […] troppo codardi per essere giusti”).


“L’amore nel mondo arabo è prigioniero e io voglio liberarlo.
Voglio liberare l’anima araba, i suoi sensi e il suo corpo con la mia poesia.
I rapporti tra uomini e donne nella nostra società non sono sani”.
Nizar Qabbani


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Soprattutto Nizar Qabbani è stato il poeta delle donne. Non solo ne ha cantato magnificamente la bellezza
(bellezza tutt’altro che idealizzata, fatta di carne, odori e gesti).
Probabilmente a segnare il poeta e fornirgli questa sensibilità è stato un evento drammatico, il suicidio
di sua sorella costretta a sposare un uomo che non amava.

Se sei mio amico…
aiutami a lasciarti.
Se sei il mio amante…
aiutami a guarire da te.
Se avessi saputo che l’amore era così pericoloso…
non avrei amato.
Se avessi saputo che il mare era così profondo…
non avrei navigato.
Se avessi saputo quale sarebbe stata la mia fine…
non avrei iniziato.
Ti desidero,
insegnami a non desiderare…
Insegnami
come sradicare dal più profondo le radici del tuo amore…
Insegnami
come le lacrime muoiono negli occhi…
Insegnami
come muore il cuore…e come si suicidano le passioni.
Se sei profeta,
liberami da questo incantesimo,
salvami da questa miscredenza.
Il tuo amore è blasfemia,
purificami…
Se sei forte…
portami via da questo mare in tempesta…
io non so nuotare
e le onde azzurre nei tuoi occhi…mi trascinano verso
l’abisso.
Io non ho esperienza nell’amore,
e non ho neanche un battello.
Se ti sono così cara, allora…prendimi la mano.
Io sono innamorata dalla testa ai piedi.
Io respiro sott’acqua…
Io annego…
annego…
annego


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"Ogni volta che cuciniamo insieme, mia madre mi racconta i suoi sogni. (...)
Il sogno piú emblematico, però, è un sogno di molto tempo fa, di cui ricordo tanti suoi racconti.
Eccola lí, magra magra, capelli corti, che entra in punta di piedi in camera mia mentre mi sveglio nel buio disperato di un inverno sovietico.
Siamo nel nostro minuscolo appartamento alla periferia di Mosca, in un anonimo e sporco prefabbricato di cemento dell’era Chruščëv.
È il 1968. Ho cinque anni. I carri armati sovietici sono appena entrati a Praga, mio padre ci ha da poco abbandonate e noi ci siamo trasferite
qui, fuggendo da un kafkiano alloggio in coabitazione nei pressi del Cremlino, dove dividevamo la cucina con altre diciassette famiglie.
Mamma, nella vestaglia a fiordalisi sbiaditi, si siede sul bordo del letto e mi rassicura con un bacio in fronte. Ma nei suoi occhi vedo una tale
toska (quel dolore dell’anima cosí tipicamente russo), uno struggimento cosí intenso, che capisco all’istante che quel sogno è tornato
ancora una volta ad assillarla."


Anya von Bremzen L’arte della cucina sovietica. Una storia di cibo e nostalgia

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«Stammi a sentire, Anjuta, stammi a sentire, – sussurra. – Mi sono di nuovo trasformata in lastočka (rondine)
Scappo dalla Russia passando a volo sul confine sovietico, senza che nessuno, chissà come, mi chieda i documenti.
E d’un tratto sono a Parigi! A Parigi! Volteggio sopra le strade giallo ocra, le riconosco, sono come nei quadri di Utrillo.
In una viuzza – Rue du Chat-qui-pêche, «Via del gatto che pesca», si chiama – scorgo un caffè incantevole.
Mi poso sul tendone a colori sgargianti. Il profumo delizioso del cibo mi dà il capogiro, ogni mia cellula muore dal
desiderio di assaggiare ogni cosa, di unirmi a chi sta dentro…»

A quel punto mamma si svegliava sempre. Sempre dalla parte sbagliata della porta d’ingresso. Sempre affamata,
sopraffatta dal desiderio di un mondo oltreconfine che non avrebbe mai visto.

Anya von Bremzen L’arte della cucina sovietica. Una storia di cibo e nostalgia


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