Intervista all'autore:
"Tucidide direbbe: siamo in trappola"
Il rischio di un conflitto con la Cina è reale?
«La Storia dice di sì. Ed è perché conosciamo la Storia che dobbiamo lavorare per evitarlo. Scopo del libro non è predire il futuro ma prevenirlo. Certo: se Tucidide osservasse oggi Stati Uniti e Cina non avrebbe dubbi. "Quello che rese inevitabile la guerra", scriveva, "fu la crescita di Atene. E la paura che creò a Sparta". Eccola la Trappola. E oggi le due potenze seguono proprio le tappe da lui indicate».
Cina-Atene contro Usa-Sparta. E una terza incognita chiamata Corea del Nord.
«L'America, potere dominante, ha la percezione che la Cina, potere emergente, sia in guerra con lei. E qui scatta la seconda fase della trappola: basta una provocazione a scatenare la guerra. In scena, d'altronde, ci sono i migliori attori del momento. Donald Trump il dominatore. Xi Jinping il rampante. E Kim Jong-un il provocatore».
Mike Pence parla già di guerra fredda.
«Quel discorso segna una svolta nella strategia americana.
Condanna l'operato dei predecessori. Bill Clinton, George Bush, Barack Obama avrebbero "frainteso" la Cina considerandola partner invece che rivale: l'integrazione l'avrebbe spinta verso economia di mercato e democrazia. Invece Trump, solleticato da Steve Bannon, è convinto che la Cina sfidi gli Usa da anni: ed è determinato a frenarla con ogni mezzo. Lettura non del tutto sbagliata: ma priva di strategia. La Cina non è l'Unione Sovietica di mezzo secolo fa».
È molto più ricca. E tecnologicamente sviluppata.
«È un pilastro dell'economia globale: l'Urss era un paese economicamente isolato. Difficile contenerne l'economia quando la Cina è il principale partner commerciale di alleati strategici degli Stati Uniti.
Vedi l'allegato 2587475
Dal libro una istantanea del Principe Rosso...ma rosso forte, restando un mistero neurologico del perche' piaccia tanto ai fasci...
ahahahah
Chi è Xi Jinping?
Xi era nato come uno dei principi della rivoluzione, poiché figlio di un fidato collaboratore di Mao, il vice primo ministro Xi Zhongxun, che aveva combattuto al suo fianco nella guerra civile. Destinato a crescere nella “culla dei leader” di Pechino, nel 1962, poco dopo il suo nono compleanno, si svegliò un mattino per scoprire che, in preda alla paranoia, Mao aveva fatto arrestare il padre. Nei giorni che seguirono, quest’ultimo fu umiliato e alla fine imprigionato per tutta la durata della rivoluzione culturale. Durante quello che Xi descrive come un periodo «distopico», le Guardie Rosse lo costrinsero ripetutamente a denunciare il padre. Quando la sua scuola venne chiusa, trascorse le giornate a difendersi nelle risse da strada e a rubare libri dalle biblioteche ormai sprangate, così da provare a darsi da solo un’istruzione
[SUP]375[/SUP]. Spedito in campagna da Mao per essere “rieducato”, Xi si ritrovò a vivere all’interno di una grotta, in un villaggio rurale nei pressi di Yan’an, a spalare sterco e come tutti gli altri contadini a scattare alle richieste del suo caposquadra. Fortemente provata dagli abusi e dalle privazioni, la sorellastra Xi Heping, più grande di lui, finì per impiccarsi nella doccia.
Anziché il suicidio, Xi scelse invece di calarsi nella realtà della giungla. E qui, per usare le sue parole quanto mai appropriate, si sentì come «rinato». Discorrendo con un diplomatico americano, uno dei suoi amici di lunga data disse che Xi aveva «scelto di sopravvivere diventando più rosso dei rossi»; e facendo tutto il necessario per riconquistare la vetta
[SUP]376[/SUP]. Xi non fece altro che persistere. E in effetti, il capo di 1,4 miliardi di persone e di un Partito Comunista con 89 milioni di membri fu, dapprincipio, respinto tutte e
nove le volte in cui cercò di entrare nel Partito, riuscendovi infine solo al decimo tentativo.
Grazie all’aiuto di alcuni vecchi amici del padre, Xi riuscì a tornare a Pechino e a diventare uno studente della prestigiosa Università Tsinghua. Dopo la laurea, ottenne un lavoro di primo livello nel personale della Commissione militare centrale. Al fine di avanzare nella propria carriera, tornò quindi in campagna per quella che Kerry Brown, il biografo di Xi, ha definito come «la dura e ben poco affascinante gavetta politica» di un funzionario di provincia
[SUP]377[/SUP]. Ciononostante, laggiù lavorò indefessamente alla propria ascesa lungo la gerarchia e nel 1997 vinse – giusto per un soffio – un seggio nel Comitato centrale del Partito (quando furono contate le schede per i 150 posti, Xi risultò essere il 151º. Tuttavia, riuscì lo stesso a rientrare nella rosa degli eletti solo perché il capo del Partito, Jiang Zemin, decise di fare un’eccezione, innalzando a 151 il numero dei membri)
[SUP]378[/SUP]. Quando nel 2002 fu inviato nella provincia di Zhejiang per essere il capo locale del Partito, Xi sovrintese a una crescita economica spettacolare: nei quattro anni del suo mandato, le esportazioni erano aumentate del 33 per cento annuo
[SUP]379[/SUP]. Si rivelò anche abile nell’individuare e sostenere gli imprenditori locali più promettenti, tra cui Jack Ma, la cui Alibaba è oramai un colosso mondiale che compete con Amazon.
Pur dimostrando le proprie doti di amministratore, Xi aveva comunque mantenuto un profilo basso, evitando gli eccessivi sfoggi di ricchezza davvero comuni tra molti suoi colleghi. Quando, nel 2005, iniziarono a circolare i nomi dei possibili futuri leader del Partito, il suo non era tra questi. Poi però, all’inizio del 2007, le alte sfere di Shanghai furono travolte da uno scandalo di corruzione. Il presidente cinese Hu Jintao e i suoi colleghi del Comitato permanente del Politburo si trovarono dunque nella necessità disperata di agire in modo rapido e incisivo. Conoscendo la sua reputazione di persona retta e disciplinata, scelsero Xi per domare l’incendio. E infatti, questi riuscì a farlo con una combinazione di fermezza e finezza, guadagnandosi l’ammirazione di tutti i suoi pari. Nell’estate del 2007 il suo nome era in cima a tutte le liste interne del Partito degli individui più capaci che avevano maggiori probabilità di entrare a far parte della prossima generazione di leader.
Xi venne ricompensato nell’ottobre del 2007, quando i quattrocento più alti capi del Partito, che componevano il Comitato centrale, e i loro sostituti si incontrarono per selezionare il Comitato permanente, composto di nove uomini, che avrebbe guidato la nazione per i cinque anni successivi. Egli spiccò non solo come membro del Comitato permanente, ma anche come successore incontestabile del presidente Hu. Tanto sobrio quanto ambizioso, Xi aveva costantemente tenuto la testa bassa durante la sua ascesa attraverso i ranghi del Partito, battendo di stretta misura il favorito Li Keqiang e arrivando così in cima alla lista per la carica più alta. Quando la stampa lo presentò per la prima volta come il probabile successore di Hu, Xi era talmente sconosciuto al di fuori delle cerchie interne del Partito che un po’ ovunque iniziò a circolare una battuta in cui si chiedeva: «Chi è Xi Jinping?». La risposta era: «Il marito di Peng Liyuan», ossia la famosa cantante di musica tradizionale con cui è sposato
[SUP]380[/SUP].
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, il Partito compì ogni sforzo per impedire che possibili autocrati salissero al potere. I criteri di selezione da esso adottati ponevano l’accento non solo sulle competenze, ma anche sul temperamento, andando in cerca di uomini giudiziosi, affidabili e preferibilmente non carismatici. Il capo divenne quindi semplicemente uno dei membri di una squadra di nove alti tecnocrati del Partito, i quali prendevano le decisioni politiche attraverso il consenso. Tradizionalmente, i membri del Comitato permanente sono tra loro dei sosia. Difatti nelle foto ufficiali, in cui sono vestiti con abiti, camicie e cravatte identici, per gli omologhi stranieri è spesso difficile distinguerli l’uno dall’altro. Hu Jintao incarnava talmente bene questo modello, che spesso leggeva su dei foglietti i punti da discutere, a volte perfino in un incontro a due. Si supponeva quindi che Xi fosse fatto della stessa pasta: un portavoce come si conviene per la dirigenza collettiva.
Lo conoscevano davvero ben poco. Alla fine del suo secondo anno da presidente, Xi aveva già concentrato così saldamente il potere nelle proprie mani, che spesso veniva definito il “presidente di tutto”. A differenza dei predecessori, che si erano adeguati per sopravvivere, Xi aveva messo fuori gioco ogni altra figura, al punto da non avere più alcun vice o chiaro successore. Sebbene sulla carta il suo vicepremier, Li Keqiang, continuasse a guidare il programma di riforme economiche, di fatto il processo decisionale su tutte le questioni più importanti era ormai finito nelle mani di un neonato Gruppo dirigente per gli affari economici e finanziari, alla cui guida c’era Liu He, un fidato collega di Xi che riferiva direttamente al presidente. Utilizzando con esiti magistrali una campagna anticorruzione di grandissimo impatto, Xi riuscì a epurare decine di potenti rivali fino ad allora ritenuti intoccabili, compreso l’ex capo del servizio di sicurezza interna della Cina, Zhou Yongkang, il primo membro del Comitato permanente mai perseguito per corruzione. Sulla via del consolidamento del proprio potere, Xi ha assunto più di una dozzina di titoli, tra cui quello di presidente di un nuovo Consiglio per la sicurezza nazionale e di comandante in capo dell’Esercito, un titolo mai concesso neppure a Mao. E si è fatto anche consacrare “leader supremo” della Cina, un termine che simboleggia la sua centralità rispetto allo Stato e che Hu aveva rimosso. E, cosa ancora più eloquente, mentre scrivo queste pagine sembra proprio che Xi stia preparando il terreno per sottrarsi ai tradizionali limiti di mandato e per rimanere al potere ben oltre il 2022
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il suo avversario yankee, implicato con mafie italo-americane e russe e' pero' molto meglio...
ahahahah