Alessandro Celli
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Cresce nel Bronx, quando il Bronx è il Bronx nero e violento. A metà anni settanta lavora on the road. La sua formazione è letteraria, ma le parole stampate sono ferme e immobili e là fuori c’è la vita, la gente, il terreno, gli odori.
Vito non ama le gallerie. Non ama l’arte. Pensa di non aver nulla a che fare con l’arte ma con la strada che “è un posto speciale”. Aggiunge la lingua parlata alle sue opere che chiama “installazioni” anche quando riguardano semplicemente il suo passaggio. “C’era un uomo qui, ma è scomparso, c’era un cane qui ma si è vanificato, c’era una strada ma non è più qui…” recita il video di una sua performance urbana.
Il mondo per lui è il luogo del cambiamento. Anticipa i social filmando azioni minimali estreme di autolesionismo, il selfie, l’ozio, la provocazione. Si percepisce come un clown per il pubblico. E’ un perfezionista ma nessuno dei suoi progetti lo soddisfa, appena terminato lui è già altrove. Lo sguardo azzurro, slavato, è perso nel vuoto, nella percezione di una solitudine infinita, di una mancanza, di un balbettio o forse è perso in una premonizione.
Lo spazio pubblico che Acconci occupa, inseguendo clandestinamente le persone per stabilire un’invisibile e impossibile relazione, è il principio della sua futura ricerca architettonica.
Negli anni Ottanta non vuole più lavorare da solo perchè l’arte pubblica necessita di discussione e confronto e Acconci ambisce a fare architettura. Ha negato la propria appartenenza di genere, ha provocato vomito, risa e sgomento, ora è radicale anche nel progetto che mira a coinvolgere il pubblico in azioni concrete e vive e non solo voyeuristiche.
I muri della Steven Holl Gallery di NY, per esempio, sono mobili, si aprono in volumi pieni e vuoti e debordano all’esterno, sul marciapiede. Nella sua splendida e fantascientifica visione, la proprietà privata è un’illusione, roba preistorica.
Ma da sempre Vito si sente imprigionato.
e che il mercato lo lasci in pace
= di Manuela Gandini =
Viva Vito !!!!!!
Vito non ama le gallerie. Non ama l’arte. Pensa di non aver nulla a che fare con l’arte ma con la strada che “è un posto speciale”. Aggiunge la lingua parlata alle sue opere che chiama “installazioni” anche quando riguardano semplicemente il suo passaggio. “C’era un uomo qui, ma è scomparso, c’era un cane qui ma si è vanificato, c’era una strada ma non è più qui…” recita il video di una sua performance urbana.
Il mondo per lui è il luogo del cambiamento. Anticipa i social filmando azioni minimali estreme di autolesionismo, il selfie, l’ozio, la provocazione. Si percepisce come un clown per il pubblico. E’ un perfezionista ma nessuno dei suoi progetti lo soddisfa, appena terminato lui è già altrove. Lo sguardo azzurro, slavato, è perso nel vuoto, nella percezione di una solitudine infinita, di una mancanza, di un balbettio o forse è perso in una premonizione.
Lo spazio pubblico che Acconci occupa, inseguendo clandestinamente le persone per stabilire un’invisibile e impossibile relazione, è il principio della sua futura ricerca architettonica.
Negli anni Ottanta non vuole più lavorare da solo perchè l’arte pubblica necessita di discussione e confronto e Acconci ambisce a fare architettura. Ha negato la propria appartenenza di genere, ha provocato vomito, risa e sgomento, ora è radicale anche nel progetto che mira a coinvolgere il pubblico in azioni concrete e vive e non solo voyeuristiche.
I muri della Steven Holl Gallery di NY, per esempio, sono mobili, si aprono in volumi pieni e vuoti e debordano all’esterno, sul marciapiede. Nella sua splendida e fantascientifica visione, la proprietà privata è un’illusione, roba preistorica.
Ma da sempre Vito si sente imprigionato.
e che il mercato lo lasci in pace
= di Manuela Gandini =
Viva Vito !!!!!!