Le Donne e l'Arte

  • Ecco la 60° Edizione del settimanale "Le opportunità di Borsa" dedicato ai consulenti finanziari ed esperti di borsa.

    Questa settimana abbiamo assistito a nuovi record assoluti in Europa e a Wall Street. Il tutto, dopo una ottava che ha visto il susseguirsi di riunioni di banche centrali. Lunedì la Bank of Japan (BoJ) ha alzato i tassi per la prima volta dal 2007, mettendo fine all’era del costo del denaro negativo e al controllo della curva dei rendimenti. Mercoledì la Federal Reserve (Fed) ha confermato i tassi nel range 5,25%-5,50%, mentre i “dots”, le proiezioni dei funzionari sul costo del denaro, indicano sempre tre tagli nel corso del 2024. Il Fomc ha anche discusso in merito ad un possibile rallentamento del ritmo di riduzione del portafoglio titoli. Ieri la Bank of England (BoE) ha lasciato i tassi di interesse invariati al 5,25%. Per continuare a leggere visita il link

Presente l'artista!


Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980 - Galleria Mascherino - Roma - MeloBox



Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980 – Galleria Mascherino – Roma

La Galleria Mascherino è lieta di annunciare l’inaugurazione sabato 29 febbraio 2020 della mostra antologica Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980.

Mascherino Arte Contemporanea

Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980

L’esposizione ripercorre l’attività dell’artista, performer e poetessa visiva Tomaso Binga e i suoi legami con il pensiero femminista attraverso una vasta selezione di opere appartenenti alle diverse serie da lei realizzate tra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli Ottanta: dai Polistirolo alla Scrittura desemantizzata, dalla Scrittura vivente alla Carta da Parato, dal Dattilocodice sino al ciclo di dipinti Biographic.

Nella sua ricerca Binga ha sfidato i limiti tra maschile e femminile, tra pratiche dominanti e subalterne, tra la convenzionalità della scrittura verbale e la soggettività del corpo, con l’obiettivo di trasformare le strutture simboliche e sociali della cultura patriarcale. Già nella scelta di adottare uno pseudonimo maschile, in occasione della sua prima mostra personale nel 1971, emerge la volontà dell’artista di denunciare le disparità tra uomo e donna presenti nel sistema dell’arte: “Il mio nome maschile”, scrive all’epoca Binga, “gioca sull’ironia e lo spiazzamento; vuole mettere allo scoperto il privilegio maschilista che impera anche nel campo dell’arte, è una convenzione per via di paradosso di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che come donne vogliamo distruggere”. Da questa consapevolezza Binga dà avvio a un lavoro di decostruzione delle rappresentazioni stereotipate del femminile, a partire dalla serie dei Polistirolo (dal 1971): piccole scatole da imballaggio di polistirolo bianco trasformate in teatrini entro cui l’artista incolla immagini trouveés tratte dal mondo della pubblicità e dei mass-media. Con un’attitudine da bricoleuse, in queste opere Binga demistifica con sguardo ironico la feticizzazione e l’erotizzazione del corpo delle donne, il rapporto tra cultura cattolica e società del consumo, l’interiorizzazione di modelli estetici imposti e omologanti.

A questa fase risale anche la ricerca sulla Scrittura desemantizzata, una scrittura “silenziosa” dove le parole vengono snervate sino a divenire segni grafici illeggibili, che conservano la memoria della scrittura, ma non significano più, evocando i tanti silenzi imposti storicamente alle donne: “La mia è una scrittura subliminale, nel senso che essa agisce (vorrei che agisse) dentro di noi senza essere distratti dal significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse: allora si può anche definire una scrittura silenziosa”. Con questa nuova grafia Binga testa il limite tra comunicazione verbale ed espressione gestuale, tra scrittura alfabetica e disegno, ideando una serie di opere tra le più significative del suo percorso, realizzate su carta, come Mettere bianco su nero (1972), Bianco nero con vista (1974), Lettera rossa (1974), Lettera strappata con ardore (1974), o nelle tre dimensioni, come nel caso dello Strigatoio (1974). Quest’ultimo è già all’epoca un oggetto desueto, tradizionalmente usato dalle donne per lavare i panni al fiume, scelto dall’artista sia come simbolo del lavoro domestico non retribuito delle donne, sia come simbolo del rapporto di sorellanza che si veniva a creare al di fuori dello spazio chiuso della casa.

A partire dal 1976 la Scrittura desemantizzata assume scala ambientale nell’installazione Carta da parato, in cui Binga traccia i suoi segni indecifrabili su rotoli di tappezzeria usati per ricoprire le pareti di spazi pubblici e privati: questa importante fase del suo lavoro è documentata in mostra dall’opera Guardo ma non scrivo (1977), dove con un processo di mise en abîme caratteristico delle ricerche di area concettuale del periodo, Binga incolla sulla carta da parati una fotografia a colori incorniciata che la ritrae, di spalle, davanti a un suo precedente lavoro della serie Carta da parato, nel quale, come in un gioco di scatole cinesi, è a sua volta visibile l’immagine dell’installazione da lei realizzata in occasione della mostra collettiva Distratti dall’ambiente (Riolo Terme, 1977).

La Scrittura desemantizzata di Binga, nelle sue varie declinazioni, non agisce soltanto sui limiti tra segno verbale e segno grafico, ma anche sul limite tra la convenzionalità della parola e il suo valore soggettivo, tra il carattere universale e quello personale del linguaggio. Per tale ragione, benché diversa sul piano formale, essa può essere considerata il diretto antecedente delle Scritture viventi, realizzate da Binga a partire dal 1976, in cui l’artista si fa ritrarre ****, dalla sua amica fotografa Verita Monselles, mentre assume con il proprio corpo la forma delle lettere alfabetiche, lavorando anche in questo caso sulla soglia tra segno linguistico e immagine, tra l’universalità del linguaggio verbale e la singolarità del corpo che, fotografato, conserva i tratti unici della persona. A questa serie appartiene l’opera in mostra intitolata Lettera N come NO (1977), che da un lato richiama il celebre dipinto dei primi anni Sessanta di Mario Schifano e la recente lotta per il referendum abrogativo sulla legge sul divorzio, che nel 1974 aveva visto schierati in prima linea, insieme al Partito radicale, la gran parte dei gruppi femministi italiani, dall’altro, può essere letto come una dichiarazione di rifiuto radicale della cultura patriarcale.

Più vicina alle soluzioni iconico-verbali della Poesia Concreta è l’opera appartenente alla serie Dattilocodice, presentata nell’ambito della Biennale di Venezia del 1978 nell’ormai storica mostra di sole donne Materializzazione del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio, che all’epoca interpreta gli “ideogrammi miniaturizzati” di Binga, creati con la macchina da scrivere sovrapponendo due diversi segni alfabetici, come una forma di “recupero invenzione dell’archetipo linguistico attraverso la tecnologia”. Alla ricerca di un linguaggio più autentico e primigenio, Binga nel Dattilocodice mette in scena un nuovo alfabeto in cui simbolo grafico e icona si mescolano, e che pur realizzato con i mezzi dell’occidente moderno, chiama in causa la qualità originaria e arcaica del geroglifico.
Immagine e scrittura tornano a fondersi, con effetti squisitamente pittorici, nella serie Biographic, realizzata a partire dal 1984 ed esposta nel 1985 alla Quadriennale di Roma: in questi quadri di grandi dimensioni Binga si confronta con la pittura, che viene assorbita e si espande sulla trama grossa della tela formando immagini in cui, scrive Binga, “l’archetipo e il futuribile, l’arazzo e il computer, il passato e il presente si mescolano in una sorta di ballata senza fine”. Anche in questo caso, il richiamo alla biografia presente nel titolo serve a creare un ponte tra l’universalità del linguaggio verbale e la soggettività della vita, perché se il personale è politico anche il linguaggio lo è.

In occasione dell’inaugurazione Tomaso Binga terrà una performance fonetica.
 
fra le donne artista di oggi segnalerei una grande Aleksandra Mir ...
 
Roma Galleria Nazionale

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Io dico Io – I say I è il titolo della mostra che inaugura il 23 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna e Contemporanea, a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini.


Liberamente tratto da Carla Lonzi, Io dico Io – I say I nasce dalla necessità di prendere la parola
e parlare in prima persona, per affermare la propria soggettività, componendo una sola moltitudine,
una molteplicità di io che risuona di consonanze e dissonanze.
Concepita come un’indagine aperta sul presente, Io dico Io – I say I polverizza schematismi e statuti
preordinati, tracciando un percorso non lineare: una narrazione che sedimenta storie, sguardi,
immaginari. Un selfie, un autoritratto, un’avventura.
La mostra riunisce artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali
hanno raccontato la propria avventura alla ricerca dell’autenticità, restituendo attraverso una
costellazione di visioni il proprio modo di abitare il mondo.
L’auto-rappresentazione, lo sguardo che mette in discussione i ruoli, la scrittura come pratica
e racconto di sé, il corpo come misura, limite, sconfinamento, la resistenza all’omologazione sono
solo alcuni dei temi attorno ai quali la mostra costruisce un percorso stratificato, ribaltando punti di
vista, creando nuove visioni e narrazioni.
Io dico Io – I say I sfugge a qualsiasi sguardo retrospettivo e sta nel presente; non inventa nuove
parole, ma guarda a fondo in quella che abbiamo – femminismo – presentando modi differenti
e singolari di darle corpo.
Dal Salone Centrale, nucleo propulsore e di irradiazione, la mostra si ramifica nel percorso di Time is
Out of Joint, intessendo altre storie sulla sua trama. Occupa le sale e le zone liminali del museo e si
allaccia al percorso che, dal 23 aprile, presenta per la prima volta al pubblico i materiali dell’Archivio
Carla Lonzi. Qui, la mostra attiva il lascito di Lonzi, figura cruciale della critica d’arte e del
femminismo italiano e invita a riflettere anche sulla trasmissione del suo pensiero radicale.

Conferenza stampa
lunedì 23 marzo 2020
ore 12.00
Opening
lunedì 23 marzo 2020
ore 19.00
Apertura al pubblico
24 marzo — 21 giugno 2020
Galleria Nazionale d’Arte
Moderna e Contemporanea
Salone Centrale


Attraverso un programma pubblico di talk, cinema, laboratori e una call to action, Io dico Io – I say I
mette in dialogo numerose figure del panorama culturale intorno ai temi che la narrazione porta con
sé, nell’intento di creare un terreno comune di confronto, un luogo di relazione e di tempo condiviso.


Artiste in mostra: Carla Accardi, Pippa Bacca, Elisabetta Benassi, Rossella Biscotti, Irma Blank,
Renata Boero, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Chiara Camoni, Ludovica Carbotta, Lisetta
Carmi, Monica Carocci, Gea Casolaro, Daniela De Lorenzo, Maria Adele Del Vecchio, Federica Di
Carlo, Rä di Martino, Bruna Esposito, Cleo Fariselli, Jacky Fleming, Linda Fregni Nagler, Silvia
Giambrone, Laura Grisi, Ketty La Rocca, Beatrice Meoni, Marisa Merz, Sabrina Mezzaqui, Marzia
Migliora, Maria Morganti, Liliana Moro, Alek O., Marinella Pirelli, Paola Pivi, Anna Raimondo,
Carol Rama, Marta Roberti, Suzanne Santoro, Marinella Senatore, Ivana Spinelli, Alessandra
Spranzi, Grazia Toderi, Tatiana Trouvé, Francesca Woodman.
 
Rebecca Horn ha installato il suo atelier e museo nell’ex fabbrica tessile di famiglia nel paesino di Bad König, a sud di Francoforte

Nel 1967, dopo appena un anno di formazione alla Scuola di Belle Arti di Amburgo, lavorando con dei materiali tossici senza né maschera né protezioni, contrae una malattia polmonare che la blocca 18 mesi in un sanatorio per curarsi.

Fingher Gloves. 1972.

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Da allora Rebecca Horn, dal suo atelier-museo nell’ex fabbrica tessile di famiglia nel paesino di Bad König a sud di Francoforte, utilizza le tecnicne del linguaggio filmico e indaga all'interno del suo corpo trasformando la sofferenza in uno strumento per riflettere sui paradossi fra corpo e macchina, uomo e animale, violenza e desiderio.

Vicina alle istanze poetiche di Man Ray, Duchamp, Meret Oppenheim e Brâncuşi, nelle sue opere filmiche sviluppa una serie di rimandi alla mitologia e all’alchimia al confine tra dimensione fantastica e realtà.

Mechanischer Körperfächer, 1974 – 75

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L'arte è donna?
Aneddoti vissuti sulle donne artiste.


Amarcord 37 di P0liti

Parte Prima.



Bice Lazzari e Fiamma Vigo: il fuoco interno dell'arte

Il mio primo incontro con una donna artista risale alla metà degli anni '50. Si chiamava Antonietta Innocenti, di Foligno ed era una ragazza che a me sembrava bellissima (e forse lo era). E fui talmente intimidito dall'incontro e dalla sensualità che sprigionava con la sua abbronzatura integrale (almeno per me allora spaventato dalle donne) che guardai molto lei e poco le sue opere: eppure riuscii a scrivere un articolo per Il Messaggero dell'Umbria. A lei mi aveva indirizzato Carlo Ruffinelli, pittore locale gentile e modesto, scomparso senza lasciare traccia come i più. Io fui molto sorpreso perché sino ad allora, nella mia breve esperienza, a Foligno avevo incontrato solo pittori uomini. Ma poco più tardi, forse nel 1957 o '58, a Roma, presentatami da Achille Pace o forse da Guido Montana allora direttore di Arte Oggi, incontrai una vera professionista: Bice Lazzari, una donna minuta, apparentemente delicata, ma di una forza incredibile. E bravissima pittrice. Da bambina era stata colpita dalla poliomelite e lei camminava speditamente ma zoppicando. Abitava in un bell'appartamento in via del Babuino, molto vicino alla Rai di Piazza del Popolo, dove suo marito, Diego Rosa, architetto e persona squisita, lavorava come tecnico o forse regista. Diego si occupava di Bice con dedizione totale, affetto e sensibilità. Entrambi erano molto disponibili con me, io ero diventato il figlio che non avevano avuto e praticamente tutte le sere mi invitavano a cena, per farmi dimenticare i panini con mortadella o le ambitissime crocchette di riso che acquistavo per pranzo in un baracchino accanto a Il Messaggero, vicino a Fontana di Trevi. Più tardi, dopo averle conosciute entrambe, associai la Lazzari alla più grande eroina e pioniera dell'arte italiana, oggi dai più ignorata, Fiamma Vigo, perché anche lei colpita dalla poliomelite da bambina ma che, malgrado la sua menomazione, a quei tempi gestiva cinque gallerie: a Firenze, a Prato, a Roma, Venezia e Milano. Oltre alla rivista Numero, la prima rivista italiana che si occupò anche dell'avanguardia in quegli anni. Un vero miracolo, anche di organizzazione, coordinamento e determinazione. Mi raccontava Fiamma che una o due volte la settimana trascorreva le notti sui sedili di legno dei treni, in terza classe, da Roma a Venezia o Milano. E da lei, nella sua galleria fiorentina sono passati tutti gli artisti italiani e non (ne ha esposti oltre 2.000) tra cui Fontana, Burri, Rauschenberg, Capogrossi, Arnaldo Pomodoro. E molte donne, come Adriana Pincherle (sorella di Moravia), Dafne Casorati, Paola Levi Montalcini, Giulia Napoleone, Carla Accardi, ma anche molte altre, di cui ora mi sfuggono i nomi (purtroppo non posseggo una documentazione attendibile su di lei e che invece, se esistesse, mi piacerebbe avere). Ma allora erano molto rare le donne artiste, però lei espose tutte quelle con cui entrò in contatto. E per far sopravvivere le sue gallerie, sempre in posizioni strategiche nelle città, si ridusse in miseria, dopo aver venduto tutti gli immobili di prestigio di Parigi e di Firenze, ricevuti in eredità da sua madre benestante e che dedicò tutta la vita a questa sua figlia molto dotata per l'arte ma sfortunata nella vita. Il suo contributo all'arte contemporanea in Italia e in una Firenze molto consevatrice e chiacchierona, è incalcolabile. Me ne parlava con amorevole simpatia anche Alberto Burri, che era molto parco di complimenti, specialmente nei confronti delle donne artiste. E Fiamma Vigo spendeva la sua vita viaggiando in treno per assistere alle inaugurazioni delle sue cinque gallerie. E morì a Venezia nel 1981, sola, poverissima e abbandonata, all'Ospedale Fatebenefratelli. Nessuna pietà da parte degli artisti che agli inizi cercarono aiuti e visibilità dalle sue gallerie, né dallo Stato o Comune. Eppure molta storia dell'arte italiana e soprattutto fiorentina è passata attraverso lei. Peccato che ogni volta che si è parlato di femminismo, il suo nome non è mai affiorato (o mi è sfuggito?). Eppure è un rarissimo vero grande esempio di donna coraggiosa ed emarginata (ma per fortuna non repressa) per le sue idee sempre propositive e perché era donna, per il suo coraggio e per la grande dedizione all'arte: Firenze non l'amò e cercò sempre di isolarla e ostacolarla. Ma credo che Fiamma Vigo e Irene Brin (altro personaggio ignorato dalle cronache del femminismo) furono le due figure femminili preminenti nell'arte degli anni '50. Credo che nel dopoguerra il femminismo in arte, storicamente iniziò con loro, anche se Carla Lonzi, il simbolo e la teorica del femminismo dell'arte in Italia non mi sembra che ne abbia mai tenuto conto. Altre bravissime galleriste donne di riferimento e con più fortuna anche se non femministe, furono a Milano, Beatrice Monti con la sua mitica galleria l'Ariete, Carla Pellegrini con la Galleria Milano e, a Firenze, Matilde Giorgini con Il Quadrante. Tutte donne di grande classe e gusto raffinato. E forse con buone disponibilità familiari. Anche se forse non furono molto attente al lavoro delle donne artiste. Ma le cito per indicare il fortissimo contributo delle donne alla storia dell'arte italiana. Dunque a pensarci bene, numerose donne erano già protagoniste della vita artistica e culturale italiana negli anni '50 e '60. A volte benestanti, altre volte solo disperatamente appassionate e che hanno dedicato tutta la propria vita all'arte. Beatrice Monti, donna còlta e di grande classe, figlia di un italiano e di madre armena, dominava la scena dell'arte milanese con le sue mostre anche oggi mitiche: Fontana, Manzoni, Castellani, Schifano, Pistoletto. Ma già prima con mostre di Jasper Johns e Robert Rauschenberg, già tre anni prima della loro partecipazione trionfale alla Biennale di Venezia del 1964. E mostre di Pollock, Twombly, Rothko, Franz Kline, De Kooning, Barnett Newman, Morris Louis, Noland. Ma prima degli americani presenta gli inglesi: Francis Bacon, David Hockney, Hamish Fulton. Cosa volere di più in quell'Italia del dopoguerra, depressa e culturalmente smarrita in cui dominavano Guttuso e l'informale lombardo, bolognese e di Spoleto?

Le nemiche delle donne artiste? Le donne di potere nell'arte

Ma torniamo a Roma, nella bella casa studio di Bice Lazzari, dove quasi ogni sera mi rifocillavo per il giorno dopo con il fegato alla veneziana cucinato dell'ottimo cuoco Diego. Bice aveva come studio una bella stanza, accanto alla cucina e lei dipingeva le sue opere, di non grandi dimensioni, su un tavolo. La ricordo assorta su un'alta sedia con cui dominava il tavolo e la sua tela piena di colori e di righe rosse o gialle orizzontali o verticali. Bice vantava (ma nascondeva gelosamente, erano tempi di terrorismo culturale nei confronti dell'immagine: solo Guttuso poteva) un ottimo trascorso di pittrice figurativa. La mia frequentazione con Bice Lazzari e suo marito durò a lungo, anche quando lasciai temporaneamente Roma per insegnare a Fano, Gubbio, Deruta, ma appena tornavo nella capitale, quasi tutti i week end, la mia prima tappa era presso gli amici Bice e Diego, per gustare, anzi no, abboffarmi (si può dire?) con la loro straordinaria cucina. Bice nel tempo mi regalò anche due o tre sue opere, molto belle, delicate e dedicate ma che nella mia vita di nomade di allora, si persero o si distrussero. Nel frattempo io avevo scritto qualcosa su di lei ne La Fiera Letteraria, cosa che le fece molto piacere. Bice e Diego erano due persone dinamiche, con molte conoscenze (Bice era anche la cognata di Carlo Scarpa, il noto architetto di Venezia e dispotico deus ex machina de La Biennale di Venezia) ma all'epoca la sua vita di artista era nell'ombra. Nessuna mostra significativa ma solo qualche vendita occasionale, oppure importanti opere pubbliche su commissione grazie al marito architetto e forse proprio a Carlo Scarpa, che la stimava molto. Nemmeno le gallerie dirette da donne si interessavano a lei. Anzi, credo che proprio le gallerie dirette da donne erano le più sospettose nei suoi confronti. E di tutte le donne in genere. E questo è un discorso che andrebbe approfondito perché io ritengo che nella storia dell'arte italiana del dopoguerra, le maggiori nemiche delle donne artiste, furono le donne di potere. Donne della mia età (a partire da Palma Bucarelli) alle generazioni successive. E lo dico a ragion veduta. E potrei fare nomi e cognomi di donne galleriste o importanti curatrici o direttrici dei maggiori musei italiani (questo più recentemente) accanite nemiche, per gelosia e bramosia di potere, delle donne. Chi è informato capirà. Avete mai visto uscire una brava curatrice e diventare autonoma, da un museo italiano diretto da una donna? E avete mai visto offrire visibilità e rilievo a qualche donna artista da parte delle più autorevoli donne critiche e curatrici italiane? (Con la sola eccezione di Laura Cherubini, sempre attenta a tutto e a tutte). Spero sia una mia sensazione e vorrei essere smentito. Sarei pronto a scusarmi apertamente, ma la mia sensazione è che le donne di successo in arte abbiano molto ostacolato le nuove generazioni. La sola galleria italiana, a mia memoria, che ha offerto, ma più recentemente, spazio, visibilità e amore a molte artiste donne è stata Raffaella Cortese a Milano, a partire dal 1995. Ma da quell'anno la sua attenzione alle donne artiste di qualità è stato unico.


Marisa Busanel, artista diversa nella scena romana

Negli stessi anni a Roma, frequentavo un'altra ottima artista, Marisa Busanel (Venezia 1933), allora compagna del mio conterraneo e amico, lo scultore Leoncillo Leonardi, che talvolta, insieme a Marisa, mi dava un passaggio sino a Spoleto, da dove lui proveniva e vicino alla mia Trevi dove tornavo ogni week end con la biancheria da lavare per mia madre (peraltro molto felice di aiutarmi). Marisa era una ragazza molto sexy e molto corteggiata. Ma poco socievole. Anzi, un po' selvatica. Si racconta che ad un party rifiutò le avances di Marlon Brando, che trattò anche molto male in pubblico. Il suo rapporto con Leoncillo fu molto tormentato per i reciproci caratteri inquieti. E forse anche per la differenza di età: Leoncillo aveva 18 anni più di lei. Il rapporto comunque continuò sino alla morte di Leoncillo, che avvenne nel 1968, per un infarto mentre faceva sesso con una donna in macchina. Non ho mai saputo se fosse Marisa Busanel. E Marisa non me ne parlò mai. Dopo la morte di Leoncillo, Marisa si tenne in disparte e io ne persi le tracce. So che poi visse una bella e lunga storia d'amore con il pittore Giancarlo Limoni, ma io ero già a Milano e non la vidi più.
Le opere di Marisa erano molto inquietanti e declinavano (come molta arte allora) l'Arte povera, ma con una bellissima sensibilità del tutto femminile (generalmente l'Arte povera è stata un laboratorio di maschilismo, nessuna donna potè avvicinarsi al gruppo. La sola grande artista, più brava del marito, Marisa Merz, costretta anche a prendere il nome del marito anziché mantenere il suo, fu sempre tenuta a debita distanza dalle grandi mostre del gruppo).
Le opere della Busanel, vestiti o stoffe intrisi di colore (forse sangue) e incollate su tavole, strappi ricuciti, pittura astratta violenta. Ma malgrado questa sua originalità e tipicità, il suo lavoro restò ai margini del contesto artistico romano, a parte qualche sparuta e qualificata presenza in alcune mostre collettive. Il maschilismo imperante, soprattutto di Plinio De Martiis e la distrazione di Fabio Sargentini e la misogenia di Liverani de La Salita, impedì a qualsiasi donna di avvicinarsi alle loro gallerie.
La Tartaruga, La Salita e L'Attico, furono off limits per le artiste italiane. E a Roma, molte promettentissime artiste donne cambiarono mestiere o si ritirarono in silenzio in se stesse in quegli anni. La sola donna accettata fu Giosetta Fioroni, perché brava artista ma soprattutto amica di Cy Twombly e compagna di Goffredo Parise. Giosetta Fioroni era molto attenta alle sue amicizie, sempre molto selezionate (e spesso sofisticate) quasi sempre con letterati (tra cui Arbasino, Lombardi, ecc.). In quei primi anni '60 non incrociai molte donne, seppure la mia curiosità mi portava ad interessarmi di loro. Un'artista promettente e mi sembrò anche brava, presentatami da Mario Ceroli, fu Cloti Ricciardi. Ragazza determinata, dapprima pittrice e poi anche lei attorno all'Arte povera, prima di diventare femminista militante. Comunque fu attivissima e partecipò a numerose mostre, alcune presentate da Achille Bonito Oliva e Bruno Corà. Ma malgrado una intensa attività, la sua fu una presenza effimera, ormai quasi cancellata dal tempo.

Carmen Gloria Morales, una grande pittrice silenziosa

Altra artista di assoluta qualità, ma molto riservata, fervente femminista ma minimalista in pittura fu Carmen Gloria Morales. Arte e femminismo non erano coniugabili per lei. Ma anche lei ha vissuto (e vive) una sua vita solitaria, con buone relazioni personali, ma lontana dai palcoscenici glamour. Certamente l'artista astratta minimalista più brava in Italia, che avrebbe meritato una visibilità adeguata. Ma certamente verranno tempi migliori per lei, perché il suo lavoro è di livello molto elevato. Vidi due annni fa una sua bella mostra qui a Milano alla galleria Luca Tommasi ma non mi sembrò di averne constatato ulteriori sviluppi. Lei meriterebbe una bella galleria italiana con ambizioni e capacità internazionali.
Verso la fine degli anni '60, sempre a Roma, iniziò ad apparire alle inaugurazioni Laura Grisi che però incontrava notevoli difficoltà perché troppo bella e benestante. Il misogino (seppure intelligente e bravissimo) Plinio De Martiis mi diceva: nell'arte non c'è spazio per le donne belle e per gli uomini ricchi. L'arte deve essere sofferenza, deve nascere dalla fame, dalla disperazione. Credo che Plinio fosse un marito non facile, se sua moglie, Ninì Pirandello, figlia del famoso scrittore e drammaturgo, agli inizi degli anni '70, mi pare proprio nel 1971, diede una grande festa di capodanno, invitando tutto il mondo artistico e intellettuale di Roma a casa sua sopra il bar Rosati (da Cy Twombly al barone Giorgio Franchetti, a tutti gli artisti e collezionisti della galleria La Tartaruga; io mancai perché andai a trascorrere il capodanno a Trevi con i miei) ma a mezzonotte precisa si gettò dalla finestra del quarto piano. Proprio a Piazza del Popolo, davanti al Rosati, il cuore artistico e culturale di Roma. E fu a causa causa della mentalità imperante a Roma e in Italia, che, pur essendo brava, Laura Grisi non ebbe molto successo. Per questa ragione tentò la fortuna a New York, protetta da Leo Castelli (che le organizzò due mostre personali) e Jeffrey Deitch. Ricordo che nei tardi anni '70 Leo Castelli (su cui sto preparando un Amarcord), a New York mi chiese di aiutare, attraverso Flash Art, Laura ad affermarsi, perché, lui disse, "io ho realizzato due sue mostre, senza alcun risultato. Eppure è molto brava". Parole del più famoso e potente gallerista al mondo. Ma Leo, l'ultimo gallerista gentiluomo, non ha mai usato il suo potere, né per vendere né per affermare i suoi artisti. Lui semmai suggeriva gentilmente e intellettualmente a colleghi, collezionisti, musei. Oggi, per un importante gallerista il discorso sarebbe molto diverso. Gagosian oppure Hauser & Wirth, riuscirebbero ad imporre qualsiasi artista. Ma essendo molto intelligenti scelgono i migliori del panorama. Loro non vogliono scoprire gli artisti ma li vogliono già affermati.


Laura Grisi, vittima del maschilismo romano

Dunque con Laura Grisi Leo Castelli non ebbe fortuna. Lui con le donne usava la sua eleganza e il suo fascino: il nome e il sex appeal facevano il resto. Ma ricordo che io risposi pressappoco: caro Leo, ma se non riesci tu a far affermare una brava artista come Laura, come posso riuscire io con una rivista d'arte? Riporto questo aneddoto perché in quegli anni '80, anche galleristi come Leo Castelli erano convinti che Flash Art avesse un potere di convincimento molto forte. Un aneddoto personale ma curioso: proprio in quegli anni, incontrando Giuseppe Uncini a Roma, lui mi prese scherzosamente per il collo dicendo: "dovrei strozzarti, perché tu sei il responsabile di tutto questo caos nell'arte di oggi". Solo perché Flash Art pubblicava e rendeva visibili le proposte nuove: Minimal Art, Conceptual Art, Arte povera, Body Art, Transavanguardia, ecc. molti artisti pensavano che Flash Art fosse il cavallo di ***** che introduceva il diavolo in Italia destabilizzando il sistema dell'arte vigente. In parte era vero, ma nessuno si rendeva conto che si trattava solo di una accelerazione perché il grande tsunami del nuovo era in arrivo e sarebbe stato inarrestabile. Come è sempre avvenuto: il nuovo vince sempre, anche se non sempre è auspicabile che vinca e non sempre è nuovo. Pensate alla rivoluzione planetaria del '68: nulla è stato più come prima, nemmeno le poche cose belle che rendevano piacevole la vita. Eppure non è cambiato nulla. La rivoluzione del '68 è la testimonianza del fallimento delle rivoluzioni. Il capitalismo e la finanza internazionale si impossessarono ancor più autorevolmente dei centri di potere che detenevano. O si fa la rivoluzione russa o francese, cioè tabula rasa, oppure tutto resta come prima. Come asseriva il Gattopardo Tomasi di Lampedusa.
A proposito di Laura Grisi, ricordo che a Roma era supportata da Nello Ponente (innamoratissimo di Laura) che ai tempi era uno dei più autorevoli critici italiani. Ricordo una sua mostra a Il Segno, una sofisticata galleria dedicata alla grafica e al disegno, di Angelica Savinio (recentemente scomparsa), figlia dell'illustre padre. Ma Laura, moglie del regista Folco Quilici, donna moderna ed emancipata nonché benestante, non ebbe molta fortuna, perché era troppo bella: e lo dico perché ne sono certo. E forse lei se ne rese conto, ma non seppe gestirsi. Ma erano tempi veramente duri per le donne, a cui venivano chiuse molte porte per le ragioni più banali. O più semplicemente perché erano donne
 
Notevole la nuova rubrica "Amarcord" di Giancarlo Politi.

Una pregevole e diretta cronaca di sessant'anni di arte in Italia.
 
"Mi è stato detto che ero una pioniera e mi sono impegnata in un metodo di lavoro incomprensibile."
Hilma af Klint, 1908.

Nata vicino Stoccolma nel 1862 immersa in atmosfere occultiste ed esoteriche, la af Klint avrebbe concepito le sue opere in trance o sotto l’influsso di uno “spirito guida”.

Nel 1906 realizza il primo gruppo di 26 opere astratte quattro anni la prima di Kandinskij.
Nello stesso anno incontrò l’austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia.
Egli le disse che le sue opere non potevano essere mostrare al pubblico prima di cinquant’anni.
Perché non le avrebbe capite.

No.17 The Swan. 1916.

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Nel 1912 dipinge una serie di tele poggiandole a terra, anticipando Pollock.

La sua opera viene riscoperta nel '86 dal Museo di Los Angeles in occasione della mostra “The Spiritual in Art – Abstract Paintings 1890-1985”.

The Swan, No. 17. 1914-15.

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Roma Galleria Nazionale

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Io dico Io – I say I è il titolo della mostra che inaugura il 23 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna e Contemporanea, a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini.


Liberamente tratto da Carla Lonzi, Io dico Io – I say I nasce dalla necessità di prendere la parola
e parlare in prima persona, per affermare la propria soggettività, componendo una sola moltitudine,
una molteplicità di io che risuona di consonanze e dissonanze.
Concepita come un’indagine aperta sul presente, Io dico Io – I say I polverizza schematismi e statuti
preordinati, tracciando un percorso non lineare: una narrazione che sedimenta storie, sguardi,
immaginari. Un selfie, un autoritratto, un’avventura.
La mostra riunisce artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali
hanno raccontato la propria avventura alla ricerca dell’autenticità, restituendo attraverso una
costellazione di visioni il proprio modo di abitare il mondo.
L’auto-rappresentazione, lo sguardo che mette in discussione i ruoli, la scrittura come pratica
e racconto di sé, il corpo come misura, limite, sconfinamento, la resistenza all’omologazione sono
solo alcuni dei temi attorno ai quali la mostra costruisce un percorso stratificato, ribaltando punti di
vista, creando nuove visioni e narrazioni.
Io dico Io – I say I sfugge a qualsiasi sguardo retrospettivo e sta nel presente; non inventa nuove
parole, ma guarda a fondo in quella che abbiamo – femminismo – presentando modi differenti
e singolari di darle corpo.
Dal Salone Centrale, nucleo propulsore e di irradiazione, la mostra si ramifica nel percorso di Time is
Out of Joint, intessendo altre storie sulla sua trama. Occupa le sale e le zone liminali del museo e si
allaccia al percorso che, dal 23 aprile, presenta per la prima volta al pubblico i materiali dell’Archivio
Carla Lonzi. Qui, la mostra attiva il lascito di Lonzi, figura cruciale della critica d’arte e del
femminismo italiano e invita a riflettere anche sulla trasmissione del suo pensiero radicale.

Conferenza stampa
lunedì 23 marzo 2020
ore 12.00
Opening
lunedì 23 marzo 2020
ore 19.00
Apertura al pubblico
24 marzo — 21 giugno 2020
Galleria Nazionale d’Arte
Moderna e Contemporanea
Salone Centrale


Attraverso un programma pubblico di talk, cinema, laboratori e una call to action, Io dico Io – I say I
mette in dialogo numerose figure del panorama culturale intorno ai temi che la narrazione porta con
sé, nell’intento di creare un terreno comune di confronto, un luogo di relazione e di tempo condiviso.


Artiste in mostra: Carla Accardi, Pippa Bacca, Elisabetta Benassi, Rossella Biscotti, Irma Blank,
Renata Boero, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Chiara Camoni, Ludovica Carbotta, Lisetta
Carmi, Monica Carocci, Gea Casolaro, Daniela De Lorenzo, Maria Adele Del Vecchio, Federica Di
Carlo, Rä di Martino, Bruna Esposito, Cleo Fariselli, Jacky Fleming, Linda Fregni Nagler, Silvia
Giambrone, Laura Grisi, Ketty La Rocca, Beatrice Meoni, Marisa Merz, Sabrina Mezzaqui, Marzia
Migliora, Maria Morganti, Liliana Moro, Alek O., Marinella Pirelli, Paola Pivi, Anna Raimondo,
Carol Rama, Marta Roberti, Suzanne Santoro, Marinella Senatore, Ivana Spinelli, Alessandra
Spranzi, Grazia Toderi, Tatiana Trouvé, Francesca Woodman.

Riprogrammata inizia il 1 marzo 2021
 
Segnalo quest'Artista a mio parere molto interessante:
Elisabetta Gut
 
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Elisabetta Gut

Interessante grazie.
Ad uso di tutti.

BIOGRAFIA
Elisabetta Gut nasce a Roma nel 1934. Durante la Seconda guerra mondiale si separa dai genitori e trascorre l’infanzia a Zurigo per poi tornare in Italia nel dopoguerra. Qui frequenta l’Istituto d’arte e la Scuola libera del nudo.

Dopo una prima esperienza pittorica negli anni Cinquanta con riferimenti al post-cubismo e, in seguito, all’informale, si dedica alla sperimentazione dei rapporti tra immagine, scrittura ed elementi naturali, elaborando collage e assemblage che si inseriscono in una ricerca poetico-visiva. Le sue opere hanno forme assai variegate: pagine manoscritte rilegate con foglie, spartiti musicali collocati all’interno di semi, libri- oggetto che danno voce alle sue emozioni più intime, agli stati d’animo fugaci e ad altre espressioni sensoriali.

Elementi costanti del suo lavoro sono la presenza di elementi naturali e pagine di libro. Quando nel 1964 Gut crea il suo primo libro- oggetto inizia ad esplorare quello che ben presto diventerà il focus del suo lavoro. Le sue opere sono state presentate in importanti rassegne; tra queste si ricordano Materializzazione del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio in occasione della Biennale di Venezia del 1978, Arte come scrittura alla Quadriennale di Roma del 1986; Fotoidea (Biennale di San Paolo, 1994); Post scriptum. Artiste in Italia tra linguaggio e immagine negli anni ’60 e ’70 alla Biennale Donna di Ferrara nel 1998. Elisabetta Gut ha ricevuto numerosi premi italiani e internazionali e le sue opere sono conservate in importanti musei, archivi e collezioni europee e americane.
 
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Elisabetta Gut

Anche a me piace la Gut. Tra l'altro ha valutazioni assai basse al momento.

Ho visto alcune sue opere alla Galleria dell'Incisione e da Repetto Gallery (Arte fiera di bologna 2020)
 
Anche a me piace la Gut. Tra l'altro ha valutazioni assai basse al momento.

Ho visto alcune sue opere alla Galleria dell'Incisione e da Repetto Gallery (Arte fiera di bologna 2020)
Gut e Binga sono un bel binomio da attenzionare
 
Più la seconda della prima che valuto un po' debole a livello istituzionale/museale

Ho messo diversi riferimenti a Toamso Binga in questo 3D.
Il valore delle opere è già più elevato, siciuramenete di nicchia.

Come gallerie di riferimento Tiziana di Caro, Frittelli e la Galleria Mascherino ha fatto recentemente una personale.

Vidi una sua performance all'ultima Artissima
 
Ho messo diversi riferimenti a Toamso Binga in questo 3D.
Il valore delle opere è già più elevato, siciuramenete di nicchia.

Come gallerie di riferimento Tiziana di Caro, Frittelli e la Galleria Mascherino ha fatto recentemente una personale.

Vidi una sua performance all'ultima Artissima

Avevo valutato l'acquisizione di una sua opera importante da Tiziana, ma poi ho desistito visto che con la mia collezione trova pochi, se non nessuno, compagni di viaggio/chiodo.
Comunque artista che merita tanto, veramente tanto.
Hai qualcosa di suo?
 
Avevo valutato l'acquisizione di una sua opera importante da Tiziana, ma poi ho desistito visto che con la mia collezione trova pochi, se non nessuno, compagni di viaggio/chiodo.
Comunque artista che merita tanto, veramente tanto.
Hai qualcosa di suo?

Ho una piccola carta da parato del 1976

Per chi non conosce:


Nel 1976 Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna, realizza in un’abitazione privata romana la performance Carta da parato (riproposta l’anno successivo a Riolo Terme e alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna): l’artista tappezza le pareti delle stanze con carte su cui sono tracciati a mano segni grafici che riempiono lo spazio per intero.

Indossando un abito realizzato con la stessa carta, l’artista si mimetizza nell’ambiente e declama a più riprese la poesia “Io sono una carta”.

L’azione dà corpo all’espressione gergale “fare carta da parati”, riferita a quelle donne, considerate poco avvenenti, che alle feste non venivano invitate a ballare e restavano in attesa incollate alle pareti.

L’opera denuncia le disparità di genere e pone l’accento sulla subalternità culturale e la violenza psicologica a cui è sottoposta la donna nella società contemporanea.
 
Tomaso Binga, figlia del critico Filiberto Menna, senza dubbio ha una marcia in più.
A me piace moltissimo.
 
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