Marco Travaglio Direttore del Fatto Quotidiano Cosa ci dice Giovanni Falcone 22 MAGG

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Marco Travaglio
Direttore del
Fatto Quotidiano

Cosa ci dice Giovanni Falcone
22 MAGGIO 2022

A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’Utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’Antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili.

Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la memoria sia utile. Non per i piani alti del Potere, dediti alla più lurida restaurazione. Ma per quelli bassi: i cittadini che, non avendo nulla da chiedere, da guadagnare e da perdere dai poteri criminali, possono permettersi il lusso di conoscere e cercare la verità. La verità sulle stragi in parte la sappiamo e in parte la intuiamo da quello che non sappiamo. È una verità tridimensionale che si estende in profondità a uomini e apparati politico-istituzionali, anche se troppe sentenze e ricostruzioni la appiattiscono a storia di bassa macelleria criminale.

Chi convinse Riina a rimangiarsi il piano di uccidere Falcone per le vie di Roma e a progettare una strage molto più spettacolare, ma anche rischiosa, a Palermo in piena elezione del presidente della Repubblica? Chi fu il supervisore che partecipò ai sopralluoghi a Capaci, noto solo all’inner circle di Riina e non ad altri mafiosi sul posto? Chi indusse Riina ad anticipare in fretta e furia via D’Amelio prima che Borsellino verbalizzasse le sue ultime scoperte sul piano di destabilizzazione retrostante Capaci? Chi erano gli infiltrati della polizia complici di via D’Amelio che la moglie del pentito Di Matteo lo pregò di non indicare ai pm mentre il figlioletto Giuseppe era prigioniero? Chi è il tizio, sconosciuto ai mafiosi, che Spatuzza vide partecipare al caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 per la strage Borsellino? Chi erano i rappresentanti dello Stato che fecero sparire da via D’Amelio l’agenda rossa di Borsellino? Per rispondere, occorrerebbero magistrati specializzati e coraggiosi, ma i pochi che abbiamo sono quasi tutti in pensione. L’ultimo, Scarpinato, ha affidato ai colleghi rimasti un dossier con nuove piste: vigileremo perché non ammuffisca in un cassetto.

Le controriforme targate Cartabia chiudono la preziosa parentesi Bonafede proprio a questo scopo: una magistratura sempre più burocratica e verticalizzata, in cui basta controllare un pugno di capi per bloccare sul nascere qualunque pm “testa calda”. Come negli anni dei porti delle nebbie e delle sabbie. Nel 1982 il Pg di Palermo Giovanni Pizzillo accusò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione (il pool con Falcone e Borsellino), di “rovinare l’economia siciliana” indagando sulle banche e gli intimò di “caricare Falcone di processi semplici in modo che cerchi di scoprire nulla”. Ora, grazie alla Cartabia, i pm verranno giudicati dal numero di indagini: chi farà “processi semplici” (sui poveracci) sarà premiato e chi si avventurerà in quelli complessi (sui potenti) punito. In attesa di una nuova generazione di magistrati che ritrovi il coraggio e la memoria dei processi complessi contro la tentazione comodissima di archiviare i buchi neri alla voce “archeologia giudiziaria”, non resta che coltivare e pungolare l’opinione pubblica. In tempi di elezioni, ci resta l’arma del voto: noi continueremo a informare chi vuole sapere, nella speranza che poi tutti compiano il proprio dovere.
 
AHAHAHAHAH "la PREZIOSA PARENTESI BONAFEDE" AhAHAHAHHAhahhaha
 
trentanni....miiii trentanni passàro.............e ora la mafia ha solamente il colletto bianco
 
Marco Travaglio
Direttore del
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Cosa ci dice Giovanni Falcone
22 MAGGIO 2022

A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’Utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’Antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili.

Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la memoria sia utile. Non per i piani alti del Potere, dediti alla più lurida restaurazione. Ma per quelli bassi: i cittadini che, non avendo nulla da chiedere, da guadagnare e da perdere dai poteri criminali, possono permettersi il lusso di conoscere e cercare la verità. La verità sulle stragi in parte la sappiamo e in parte la intuiamo da quello che non sappiamo. È una verità tridimensionale che si estende in profondità a uomini e apparati politico-istituzionali, anche se troppe sentenze e ricostruzioni la appiattiscono a storia di bassa macelleria criminale.

Chi convinse Riina a rimangiarsi il piano di uccidere Falcone per le vie di Roma e a progettare una strage molto più spettacolare, ma anche rischiosa, a Palermo in piena elezione del presidente della Repubblica? Chi fu il supervisore che partecipò ai sopralluoghi a Capaci, noto solo all’inner circle di Riina e non ad altri mafiosi sul posto? Chi indusse Riina ad anticipare in fretta e furia via D’Amelio prima che Borsellino verbalizzasse le sue ultime scoperte sul piano di destabilizzazione retrostante Capaci? Chi erano gli infiltrati della polizia complici di via D’Amelio che la moglie del pentito Di Matteo lo pregò di non indicare ai pm mentre il figlioletto Giuseppe era prigioniero? Chi è il tizio, sconosciuto ai mafiosi, che Spatuzza vide partecipare al caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 per la strage Borsellino? Chi erano i rappresentanti dello Stato che fecero sparire da via D’Amelio l’agenda rossa di Borsellino? Per rispondere, occorrerebbero magistrati specializzati e coraggiosi, ma i pochi che abbiamo sono quasi tutti in pensione. L’ultimo, Scarpinato, ha affidato ai colleghi rimasti un dossier con nuove piste: vigileremo perché non ammuffisca in un cassetto.

Le controriforme targate Cartabia chiudono la preziosa parentesi Bonafede proprio a questo scopo: una magistratura sempre più burocratica e verticalizzata, in cui basta controllare un pugno di capi per bloccare sul nascere qualunque pm “testa calda”. Come negli anni dei porti delle nebbie e delle sabbie. Nel 1982 il Pg di Palermo Giovanni Pizzillo accusò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione (il pool con Falcone e Borsellino), di “rovinare l’economia siciliana” indagando sulle banche e gli intimò di “caricare Falcone di processi semplici in modo che cerchi di scoprire nulla”. Ora, grazie alla Cartabia, i pm verranno giudicati dal numero di indagini: chi farà “processi semplici” (sui poveracci) sarà premiato e chi si avventurerà in quelli complessi (sui potenti) punito. In attesa di una nuova generazione di magistrati che ritrovi il coraggio e la memoria dei processi complessi contro la tentazione comodissima di archiviare i buchi neri alla voce “archeologia giudiziaria”, non resta che coltivare e pungolare l’opinione pubblica. In tempi di elezioni, ci resta l’arma del voto: noi continueremo a informare chi vuole sapere, nella speranza che poi tutti compiano il proprio dovere.

per me peggio della mafia ci sono gli specialisti dell'antimafia. Con sta storia della mafia hanno reso la Sicilia radioattiva, quando sarebbe una perla del turismo mondiale.
 
Ma si può ancora perdere tempo a leggere robaccia come Travaglio?
 
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