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Alessandro Borghese: «Non trovo personale, pochi vogliono ancora fare lo chef» | Cook
Borghese, fare lo chef non va più di moda?
«Non credo che la figura del cuoco sia in crisi, ma ci si è accorti che non è un lavoro tutto televisione e luccichii. Si è capito che è faticoso e logorante. E mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi, oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano».
È la pandemia ad aver segnato un prima e un dopo?
«Certo: con le chiusure tante persone hanno avuto la possibilità di stare in famiglia. E hanno cambiato mestiere per avere più tempo. Il tempo, oggi, è la vera moneta. La mia stessa brigata si è rivoluzionata radicalmente: sono andate via figure che stavano con me da più di dieci anni, sono tornate nelle loro regioni d’origine, dove hanno scelto un lavoro che richiedesse meno fatica psicologica, mentale e fisica».
Bisogna ripensare la professione?
«Sicuramente bisogna lavorare in modo diverso. Sta già succedendo: io ero aperto sette giorni su sette pre-pandemia, adesso cinque. Vorrei tornare a sei, ma comunque terrò chiuso un giorno. Il riposo e i turni sono fondamentali e noi chef, che siamo brand ambassador della cucina italiana, dobbiamo ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze che rendono possibile il nostro lavoro».
Quanto incide la carenza di personale sulla ripresa?
«Molto, perché non si riesce a lavorare come potremmo: finalmente c’è profumo di ripartenza, tornano le liste d’attesa nelle prenotazioni, questo ci fa ben sperare e ci inorgoglisce. Ma bisogna rinunciare a delle opportunità perché mancano le risorse. Prima del Covid c’era la fila di ragazzi fuori dai ristoranti, oggi non si vuole più fare questo lavoro. Io ho un ritmo di due-tre colloqui al giorno, ma poi non riesco ad assumere, perché tanti non stanno davvero cercando, si vede che non sono interessati. Altri approfittano della situazione: sanno che c’è tanta domanda perciò fanno richieste eccessive. Io cerco la misura: persone che magari non sanno cucinare benissimo, ma che siano educate e desiderose di imparare. La mia azienda saprà ricompensarle: noi ai dipendenti offriamo anche corsi di inglese e di sommelier, ma deve instaurarsi un rapporto di fiducia reciproco».
Come rendere di nuovo attrattivo il settore?
«Bisogna essere datori di lavoro seri, dare prospettive. Se vogliamo che questo settore sia centrale per l’Italia è l’unica strada. Senza personale qualificato non andiamo da nessuna parte, se si trovano male i clienti non tornano».
Borghese, fare lo chef non va più di moda?
«Non credo che la figura del cuoco sia in crisi, ma ci si è accorti che non è un lavoro tutto televisione e luccichii. Si è capito che è faticoso e logorante. E mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi, oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano».
È la pandemia ad aver segnato un prima e un dopo?
«Certo: con le chiusure tante persone hanno avuto la possibilità di stare in famiglia. E hanno cambiato mestiere per avere più tempo. Il tempo, oggi, è la vera moneta. La mia stessa brigata si è rivoluzionata radicalmente: sono andate via figure che stavano con me da più di dieci anni, sono tornate nelle loro regioni d’origine, dove hanno scelto un lavoro che richiedesse meno fatica psicologica, mentale e fisica».
Bisogna ripensare la professione?
«Sicuramente bisogna lavorare in modo diverso. Sta già succedendo: io ero aperto sette giorni su sette pre-pandemia, adesso cinque. Vorrei tornare a sei, ma comunque terrò chiuso un giorno. Il riposo e i turni sono fondamentali e noi chef, che siamo brand ambassador della cucina italiana, dobbiamo ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze che rendono possibile il nostro lavoro».
Quanto incide la carenza di personale sulla ripresa?
«Molto, perché non si riesce a lavorare come potremmo: finalmente c’è profumo di ripartenza, tornano le liste d’attesa nelle prenotazioni, questo ci fa ben sperare e ci inorgoglisce. Ma bisogna rinunciare a delle opportunità perché mancano le risorse. Prima del Covid c’era la fila di ragazzi fuori dai ristoranti, oggi non si vuole più fare questo lavoro. Io ho un ritmo di due-tre colloqui al giorno, ma poi non riesco ad assumere, perché tanti non stanno davvero cercando, si vede che non sono interessati. Altri approfittano della situazione: sanno che c’è tanta domanda perciò fanno richieste eccessive. Io cerco la misura: persone che magari non sanno cucinare benissimo, ma che siano educate e desiderose di imparare. La mia azienda saprà ricompensarle: noi ai dipendenti offriamo anche corsi di inglese e di sommelier, ma deve instaurarsi un rapporto di fiducia reciproco».
Come rendere di nuovo attrattivo il settore?
«Bisogna essere datori di lavoro seri, dare prospettive. Se vogliamo che questo settore sia centrale per l’Italia è l’unica strada. Senza personale qualificato non andiamo da nessuna parte, se si trovano male i clienti non tornano».