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[h=1]l capitalismo non funziona più[/h][h=2]Lo ha scritto il più importante commentatore del Financial Times, spiegando perché senza cambiamenti profondi la democrazia rischia di fare una brutta fine[/h]
di Davide Maria De Luca
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Un negozio bruciato durante le proteste dei gilet gialli a Parigi (AP Photo/Rafael Yaghobzadeh)



In una lettera pubblicata lo scorso agosto, i 180 più importanti amministratori delegati degli Stati Uniti, tra cui Jeff Bezos di Amazon e Tim Cook di Apple, hanno annunciato che d’ora in poi le loro società non perseguiranno più soltanto l’interesse dei manager e degli azionisti (cioè loro stessi), ma terranno conto anche del benessere di dipendenti, clienti e della società più in generale. Cook e Bezos si sono aggiunti all’elenco sempre più lungo di grandi capitalisti secondo i quali esiste un nesso tra l’aumento delle diseguaglianze economiche e la ribellione più o meno spontanea e indirizzata dei milioni di persone che del capitalismo hanno visto solo il volto più duro.
Pochi hanno sostenuto questa tesi con l’efficacia che ha dimostrato questa settimana Martin Wolf, uno dei più noti commentatori economici europei. La sua non è una critica da sinistra: Wolf è un convinto capitalista e il giornale per cui scrive, il Financial Times, è considerato la voce della City di Londra. L’articolo, intitolato “Perché un capitalismo truccato sta danneggiando la democrazia liberale”, è in realtà un’accorata difesa del capitalismo dai suoi stessi eccessi perversi.

«Abbiamo bisogno di un’economia capitalista dinamica», scrive Wolf, «ma sempre più spesso ci troviamo di fronte a un capitalismo instabile che vive di rendita, alla mancanza di concorrenza, alla stagnazione della produttività, all’aumento delle diseguaglianze e, non a caso, a un crescente degrado nella qualità della democrazia». Il problema di fondo, scrive Wolf, è che l’attuale sistema economico da tempo abbia cessato di produrre risultati desiderabili per milioni di persone. Negli Stati Uniti, per esempio, il reddito delle famiglie è cresciuto a malapena nel corso degli ultimi 40 anni e i giovani non possono più sperare di avere una vita più agiata dei genitori: quasi un terzo di loro ha visto anzi le proprie condizioni di vita peggiorare. In Italia, dove la crisi economica è stata anche più lunga e profonda, il reddito disponibile per le famiglie è addirittura tornato indietro, ai livelli degli anni Ottanta.
Secondo Wolf la le ragioni che vengono spesso indicate per spiegare questo peggioramento nella qualità della vita non stanno in piedi: la colpa non è dell’immigrazione né della globalizzazione. La prima non sembra avere grandi effetti sull’occupazione, mentre la seconda, con la sua apertura alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, ha avuto effetti differenti. Alcuni paesi ne sono usciti scompaginati più di altri (l’Italia per esempio è stata particolarmente esposta, con le sue numerose produzioni manifatturiere a bassa qualificazione degli operai), ma tutti, indifferentemente, hanno assistito a una crescente precarizzazione, stagnazione e aumento delle diseguaglianze.
Per capire cosa è accaduto, secondo Wolf è molto più importante accorgersi di come in questi anni l’economia capitalista ha cessato di essere un’arena di scontro e continuo miglioramento, ma si sia invece trasformata in un luogo dove un gruppo di individui privilegiati – per connessioni politiche o posizioni di mercato – è in grado di accumulare rendite, estraendo valore per sé dal resto della società, senza essere esposto a una vera concorrenza e senza che nessuno lo costringa a restituire alla società una parte di ciò che prende.
Per Wolf il simbolo di questo sistema è la crescita smisurata del settore finanziario. La quantità di credito che le banche fanno all’economia è triplicata negli ultimi 50 anni, ma questo aumento ha prodotto ritorni sotto forma di crescita economica sempre più bassi. Perché, infatti, investire in una nuova e rischiosa tecnologia, come automobili che consumano meno, quando speculare sul mercato dei derivati offre ritorni dieci volte maggiori? E perché andare a lavorare per un governo o per un’azienda che produce qualcosa di utile, quando il settore finanziario offre stipendi imparagonabili con il resto della società? «Lo sviluppo finanziario è buono solo fino a un certo punto. Poi rappresenta un peso per la crescita», ricorda Wolf citando due economisti della Bank for International Settlements.
Quando il settore finanziario cresce troppo rapidamente rispetto al resto dell’economia, prosegue Wolf, risorse e abilità umane finiscono convogliate in direzioni oggettivamente «inutili» per il resto della società.
E a volte sono addirittura dannose. Un settore finanziario ipertrofico finisce inevitabilmente per incubare una crisi: la crescita abbassa i rendimenti degli investimenti, il che spinge i finanzieri a fare scommesse sempre più rischiose per assicurarsi un ritorno. Prima o poi una bolla inizia a gonfiarsi e finisce con l’esplodere, ma raramente è il settore finanziario a pagare il conto. Se una bolla diventa grande abbastanza (“too big to fail”, cioè abbastanza grande da minacciare il resto dell’economia in caso di fallimento), l’inevitabile crisi finisce poi con l’essere pagata dal resto della società. Gli stati si indebitano per salvare i loro settori finanziari, welfare e pensioni vengono tagliate, mentre manager e azionisti continuano a distribuire bonus e dividendi.
Gli stipendi dei manager sono un’altra delle ferite aperte individuate da Wolf. Le retribuzioni nell’industria, in quella finanziaria in particolare, sono cresciute moltissimo a partire dagli anni Ottanta, quando sulle due sponde dell’oceano Atlantico i governi introdussero massicce liberalizzazioni e privatizzazioni nel settore finanziario (compresa l’Italia, che fino a quel momento aveva avuto un settore bancario essenzialmente pubblico e altamente regolato). La ragione con cui vennero giustificate queste deregolamentazioni fu che quel che era un bene per le banche e i manager sarebbe stato un bene anche per il resto della società. Stipendi più alti significavano maggiori capacità di attrarre manager di talento, i quali a loro volta, grazie alle loro eccezionali abilità, avrebbero prodotto incrementi di benessere per tutti quanti.
Le cose però non sono andate così, scrive Wolf. La produttività è rimasta stagnante in tutto il mondo sviluppato, e il talento innovativo dei manager superpagati si è applicato soprattutto ai modi per gonfiare i loro portafogli. L’introduzione di stipendi e bonus legati al valore delle azioni, per esempio, ha creato un meccanismo perverso in cui i manager prendono soldi in prestito con cui comprare azioni della loro società e così facendo le fanno aumentare di valore. In cambio ricevono una pioggia di bonus, e gli azionisti sono contenti di vedere il loro capitale aumentare: ma nel frattempo il valore della società non è davvero aumentato, nessun nuovo prodotto è stato introdotto, nessuna maggior utilità per il resto della popolazione è stata creata.
Oramai, scrive Wolf, non è più nemmeno il “profitto dell’azienda” a dettare l’agenda. Visto che gli incentivi sono allineati in modo da massimizzare il profitto a breve termine di manager e azionisti a scapito delle prospettive di crescita sul lungo periodo, la stella polare dell’industria è divenuta il conto in banca degli individui che la gestiscono. I ricchi diventano così sempre più ricchi (anche in Italia) e lo fanno in maniera del tutto slegata dal loro talento: quella che ricevono, per Wolf, è una vera e propria rendita. A rimetterci sono tutti gli altri.
Un fenomeno che secondo Wolf è ancora più problematico è l’attenuarsi della concorrenza tra grandi aziende e il sorgere di monopoli sempre più potenti. Facebook, Google, Amazon e Alibaba sono solo gli esempi più noti di un tipo di azienda sempre più diffuso, che non deve più temere la concorrenza e, in molti casi, nemmeno il potere degli Stati. Grazie a questi monopoli, le grandi aziende possono estrarre enormi rendite dal resto della società. I loro dipendenti partecipano a questo processo: il fatto che a parità di mansioni e competenze il dipendente di Google guadagni più di quello di un concorrente più piccolo è un altro esempio di rendita sempre più diffusa.
Accanto a questo fenomeno, Wolf ne individua un altro particolarmente visibile: la maggiore capacità di attrarre talenti ed energie dei grandi agglomerati urbani. Londra, New York e San Francisco hanno beneficiato in maniera crescente di un circolo virtuoso per loro e vizioso per il resto della società. Attirando individui di talento e capitali dal resto delle loro nazioni, e remunerandoli più di quanto chiunque altro potesse fare, queste città hanno finito con il lasciarsi sempre più indietro le aree meno sviluppate dei loro paesi. È un fenomeno che esiste da più di un secolo, ma che ha accelerato negli ultimi anni con la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia e la rendite sempre più alte estratte dai grandi monopolisti, basati quasi sempre nel centro di una grande metropoli.
Se Londra e San Francisco sono esempi eclatanti di questo fenomeno, non c’è economia avanzata che non ne presenti traccia: compresa l’Italia, con il boom di Milano e, in second’ordine, di Roma. Basta un’occhiata alle recenti cronache cittadine per accorgersi che la concentrazione di alti stipendi, il forte aumento nel valore degli immobili e le rendite che si possono estrarre da questi fenomeni sono comuni, in vari gradi, alle grandi metropoli italiane, così come a quelle di Francia, Stati Uniti e Germania.
Questa distorsione potrebbe in qualche misura essere compensata dall’intervento dello Stato, tassando le rendite e usando quei soldi per aiutare chi è rimasto indietro. Ma far pagare ciò che è giusto a chi vive di rendita, siano essi grandi manager o grandi società multinazionali, è divenuto sempre più complicato grazie all’uso aggressivo di strumenti di elusione fiscale, di scappatoie e di truffe, spesso compiute con la complicità di altri Stati disposti quasi a tutto pur di avere qualche beneficio marginale dalla presenza sul loro territorio di individui molto ricchi o della sede di qualche multinazionale. Così individui e aziende approfittano dei beni pubblici messi a disposizione dalla collettività, scuole e università, strade e infrastrutture, polizia e tribunali, benessere e stabilità politica, ma si rifiutano di finanziarle, lasciandone il peso crescente sulle spalle di coloro che non sono abbastanza ricchi da sfuggire alle maglie del fisco.
È un fenomeno che ha dimensioni gigantesche. Secondo il Fondo monetario internazionale, grazie a pratiche di elusione fiscale ogni anno svaniscono oltre 450 miliardi di dollari dovuti dai ricchi e dalle grandi società ai governi del mondo sviluppato. È un tipo di attività che riesce particolarmente bene a quei gruppi che possono mascherare il luogo dove realizzano i loro prodotti e la loro innovazione. Apple da sola ha portato più di duecento miliardi di dollari nei paradisi fiscali senza pagarci sopra nulla, in modo legale. Per Wolf è «semplicemente ridicolo» che le aziende statunitensi registrino sette volte più profitti nei paradisi fiscali (come Singapore e le Isole Bermuda) che nelle sei più grandi economie mondiali messe insieme.
Invece di far fronte comune contro questi monopolisti, gli Stati si sono messi in concorrenza tra di loro, e cercano di superarsi nell’offrire sconti ed esenzioni alle aziende, sperando nei benefici marginali che possono ottenere ospitando sul loro territorio una sede secondaria di questi colossi. Non è insomma una situazione creata per caso, ma il frutto di richieste e di pressioni da parte delle grandi aziende e delle loro società di lobby.
In questa situazione è inevitabile che si diffonda il sospetto che l’interesse dei cittadini non conti «quasi per nulla», scrive Wolf. Quindi è inevitabile che ne nascano conseguenze politiche: gruppi e movimenti che spesso con toni populisti chiedono un cambio totale dell’attuale paradigma. Alcuni tra loro chiedono di raddrizzare i torti di un sistema corrotto, di ripristinare la concorrenza, di eliminare le rendite, di riformare la tassazione, ma molti altri utilizzano xenofobia e razzismo per distrarre l’attenzione dei propri elettori e usare la loro rabbia per perpetuare così l’attuale sistema. È facile prevedere che se questi movimenti avranno ancora successo, scrive Wolf, il risultato più probabile sarà «la morte della democrazia liberale». In alcuni paesi sta già accadendo.
Per quanto significativo, l’articolo di Wolf sul Financial Times non dice cose particolarmente nuove: le sue tesi circolano da tempo. Il Foglio, che in un editoriale pubblicato questa settimana continua a sostenere che l’allarme lanciato da Wolf non valga per paesi come l’Italia, ricorda che oltre 15 anni fa gli economisti Luigi Zingales e Raghuram Rajan, entrambi formati alla liberista “scuola di Chicago”, avevano pubblicato il libro “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, che conteneva sostanzialmente lo stesso allarme e proponeva la stessa cura: più concorrenza, più mercato e meno monopoli.
Oggi però il clima è cambiato. Viviamo in uno “zeitgeist” differente, come ha detto Nancy Koehn, storica della Harvard Business School. Sono gli stessi capitalisti a chiedere quella che un tempo era un’eresia, la riforma dei principi del capitalismo stesso, mentre nel dibattito politico statunitense, la patria mondiale del capitale, si affrontano candidati apertamente socialisti e anti-capitalisti. In questo nuovo mondo descritto da Wolf, la scelta appare sempre più tra unire le forze di chi vuole una riforma del capitalismo, che molti accusano comunque di essere moderata e insufficiente, oppure allearsi a chi preferisce trovare un facile colpevole, sia esso la concorrenza dei migranti o della Cina. Se i populisti autoritari che abbiamo visto negli ultimi anni devono insegnarci qualcosa, questo percorso sembra portare prima o poi fine della democrazia liberale per come siamo abituati a conoscerla.





 
Il pensiero di Wolf mi piace.
Lo riassumo in questa sua frase: «Lo sviluppo finanziario è buono solo fino a un certo punto. Poi rappresenta un peso per la crescita»
 
Leggendolo mi sto rendendo conto che la finanziarizzazione della nostra societa' non puo' che esplodere presto o tardi .

Sara' per effetto di un evento traumatico perche' , per ora , va col pilota automatico e nessuno è in grado di fermarla malgrado le critiche continue che le vengono rivolte
 
Il riassunto del piddino medio è che bisogna mettere altre tasse e patrimoniali (tipo se hai il bilocale al mare o quattro risparmi in banca), Scommettiamo?

Cmq è un articolo che presenta qualche problema vero (come la perdita di potere d'acquisto piuttosto che la redistribuzione verso l'alto) e mischia qualche baggianata
 
Leggendolo mi sto rendendo conto che la finanziarizzazione della nostra societa' non puo' che esplodere presto o tardi .

Sara' per effetto di un evento traumatico perche' , per ora , va col pilota automatico e nessuno è in grado di fermarla malgrado le critiche continue che le vengono rivolte

La finanziarizzazione è servita per non far tracollare i paesi occidentali con l'apertura così veloce e senza veri paletti a paesi come la cina....

Dici di tornare a banche centrali che non lasciano i tassi d'interesse a zero che restringono i cordoni dell'offerta monetaria? Dici che l'economia non tracolla?
 
quindi si riforma il capitalismo mettendo patrimoniali, ovviamente per chi vive nelle grandi aree urbane, e si accusano al solito i populisti di essere xenofobi e manovrati.
Solita fuffa per giustificare nuove tasse :D
 
Il riassunto del piddino medio è che bisogna mettere altre tasse e patrimoniali (tipo se hai il bilocale al mare o quattro risparmi in banca), Scommettiamo?

Cmq è un articolo che presenta qualche problema vero (come la perdita di potere d'acquisto piuttosto che la redistribuzione verso l'alto) e mischia qualche baggianata

Riuscire a non mettere la parola piddino deve essere uno sforzo immane per alcuni.

Wolf piddino ??? Se lo dici tu


"Pochi hanno sostenuto questa tesi con l’efficacia che ha dimostrato questa settimana Martin Wolf, uno dei più noti commentatori economici europei. La sua non è una critica da sinistra: Wolf è un convinto capitalista e il giornale per cui scrive, il Financial Times, è considerato la voce della City di Londra. L’articolo, intitolato “Perché un capitalismo truccato sta danneggiando la democrazia liberale”, è in realtà un’accorata difesa del capitalismo dai suoi stessi eccessi perversi.
 
Riuscire a non mettere la parola piddino deve essere uno sforzo immane per alcuni.

Wolf piddino ??? Se lo dici tu

Io ho detto che quello che ne ricaverebbero leggendo questo articolo non lo scrittore

Cmq tu cosa faresti?
 
La finanziarizzazione è servita per non far tracollare i paesi occidentali con l'apertura così veloce e senza veri paletti a paesi come la cina....

Dici di tornare a banche centrali che non lasciano i tassi d'interesse a zero che restringono i cordoni dell'offerta monetaria? Dici che l'economia non tracolla?

Quindi tutto bene che i soldi si facciano coi soldi e che la gente e le nuove generazioni non abbiano lavoro e se ce l'hanno sia mal pagato e precario ???

Vorrei capire , una volta estinta la generazione anziana attuale e il suo patrimonio , di cosa vivra' la nostra societa' ??

Lo stesso meccanismo dei consumi verra' inesorabilmente tagliato perche' le prossime generazioni non avranno neanche i quattrini per farsi un caffe' al bar e quindi assisteremo a fallimenti su fallimenti delle aziende .
 
Io ho detto che quello che ne ricaverebbero leggendo questo articolo non lo scrittore

Cmq tu cosa faresti?

Non mi pare che Wolf suggerisca ricette e non chiederle a me , non siamo ridicoli.

Wolf pone un problema enorme . Come se ne verra' fuori non lo so e men che meno quando , speriamo non con una guerra anche se ritengo che presto o tardi....
 
....
ma molti altri utilizzano xenofobia e razzismo per distrarre l’attenzione dei propri elettori e usare la loro rabbia per perpetuare così l’attuale sistema. È facile prevedere che se questi movimenti avranno ancora successo, scrive Wolf, il risultato più probabile sarà «la morte della democrazia liberale». .....



i non populisti che non utilizzano xenofobia e razzismo
sono i più strenui difensori del capitalismo finanziario antidemocratico schiavista
 
Quindi tutto bene che i soldi si facciano coi soldi e che la gente e le nuove generazioni non abbiano lavoro e se ce l'hanno sia mal pagato e precario ???

Vorrei capire , una volta estinta la generazione anziana attuale e il suo patrimonio , di cosa vivra' la nostra societa' ??

Lo stesso meccanismo dei consumi verra' inesorabilmente tagliato perche' le prossime generazioni non avranno neanche i quattrini per farsi un caffe' al bar e quindi assisteremo a fallimenti su fallimenti delle aziende .

assolutamente no.ancoriamoli al valore dell'oro posseduto dalla banca di Italia e vediamo come va MA sopratutto tassiamo tutti gli assett allo stesso modo e non facciamo figli e figliastri che io pago il 26 sul gain di un azione(quando gain) e il felice possessore di BTP sta comodo seduto sui soldi sicuri tassato al 12

un po di etica per tutti no?
 
vediamo se salta fuori qualche commento un po' piu' elevato e che non sia il solito " dalli al PD " ??

Che c'entra come i cavoli a merenda ....oppure commenti del tipo : Wolf ... un piddino mascherato , anzi .. magari non esiste neanche questo Wolf , è un piddino che si spaccia per lui
 
Leggendolo mi sto rendendo conto che la finanziarizzazione della nostra societa' non puo' che esplodere presto o tardi .

Sara' per effetto di un evento traumatico perche' , per ora , va col pilota automatico e nessuno è in grado di fermarla malgrado le critiche continue che le vengono rivolte

Hai fatto bene a segnalarlo, è intelligente e da studiarsi. In giro per il mondo se ne è parlato un poco e ero da qualche giorno un poco incuriosito se qualcuno lo riprendesse anche qui.
A margine può servire osservare che il FT è oggi tra i grandi organi di informazione il principale se non l'unico che non riesca a definire organo di disinformazione per conservare intelligenza, acume e una sua serietà, senza accettare passivamente le false narrazioni dominanti.
Sui minibot è stato l'unico a presentarli in modo scientifico e a riconoscerne il ruolo.
 
While each of our individual companies serves its own corporate purpose, we share a fundamental commitment to all of our stakeholders.”

With this sentence, the US Business Roundtable, which represents the chief executives of 181 of the world’s largest companies, abandoned their longstanding view that “corporations exist principally to serve their shareholders”.

This is certainly a moment. But what does — and should — that moment mean? The answer needs to start with acknowledgment of the fact that something has gone very wrong. Over the past four decades, and especially in the US, the most important country of all, we have observed an unholy trinity of slowing productivity growth, soaring inequality and huge financial shocks.

As Jason Furman of Harvard University and Peter Orszag of Lazard Frères noted in a paper last year: “From 1948 to 1973, real median family income in the US rose 3 per cent annually. At this rate . . . there was a 96 per cent chance that a child would have a higher income than his or her parents. Since 1973, the median family has seen its real income grow only 0.4 per cent annually . . . As a result, 28 per cent of children have lower income than their parents did.”

Chart showing the slowdown of US productivity growth
So why is the economy not delivering? The answer lies, in large part, with the rise of rentier capitalism. In this case “rent” means rewards over and above those required to induce the desired supply of goods, services, land or labour. “Rentier capitalism” means an economy in which market and political power allows privileged individuals and businesses to extract a great deal of such rent from everybody else.

That does not explain every disappointment. As Robert Gordon, professor of social sciences at Northwestern University, argues, fundamental innovation slowed after the mid-20th century. Technology has also created greater reliance on graduates and raised their relative wages, explaining part of the rise of inequality. But the share of the top 1 per cent of US earners in pre-tax income jumped from 11 per cent in 1980 to 20 per cent in 2014. This was not mainly the result of such skill-biased technological change.

If one listens to the political debates in many countries, notably the US and UK, one would conclude that the disappointment is mainly the fault of imports from China or low-wage immigrants, or both. Foreigners are ideal scapegoats. But the notion that rising inequality and slow productivity growth are due to foreigners is simply false.

HEMEL HEMPSTEAD, ENGLAND - DECEMBER 05: Parcels are prepared for dispatch at Amazon's warehouse on December 5, 2014 in Hemel Hempstead, England. In the lead up to Christmas, Amazon is experiencing the busiest time of the year. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)
An Amazon warehouse in the UK. The platform giants are the dominant examples of monopoly rentiers
Every western high-income country trades more with emerging and developing countries today than it did four decades ago. Yet increases in inequality have varied substantially. The outcome depended on how the institutions of the market economy behaved and on domestic policy choices.

Harvard economist Elhanan Helpman ends his overview of a huge academic literature on the topic with the conclusion that “globalisation in the form of foreign trade and offshoring has not been a large contributor to rising inequality. Multiple studies of different events around the world point to this conclusion.”

The shift in the location of much manufacturing, principally to China, may have lowered investment in high-income economies a little. But this effect cannot have been powerful enough to reduce productivity growth significantly. To the contrary, the shift in the global division of labour induced high-income economies to specialise in skill-intensive sectors, where there was more potential for fast productivity growth.

Donald Trump, a naive mercantilist, focuses, instead, on bilateral trade imbalances as a cause of job losses. These deficits reflect bad trade deals, the American president insists. It is true that the US has overall trade deficits, while the EU has surpluses. But their trade policies are quite similar. Trade policies do not explain bilateral balances. Bilateral balances, in turn, do not explain overall balances. The latter are macroeconomic phenomena. Both theory and evidence concur on this.

A graphic with no description
The economic impact of immigration has also been small, however big the political and cultural “shock of the foreigner” may be. Research strongly suggests that the effect of immigration on the real earnings of the native population and on receiving countries’ fiscal position has been small and frequently positive.

Far more productive than this politically rewarding, but mistaken, focus on the damage done by trade and migration is an examination of contemporary rentier capitalism itself.

Finance plays a key role, with several dimensions. Liberalised finance tends to metastasise, like a cancer. Thus, the financial sector’s ability to create credit and money finances its own activities, incomes and (often illusory) profits.

A 2015 study by Stephen Cecchetti and Enisse Kharroubi for the Bank for International Settlements said “the level of financial development is good only up to a point, after which it becomes a drag on growth, and that a fast-growing financial sector is detrimental to aggregate productivity growth”. When the financial sector grows quickly, they argue, it hires talented people. These then lend against property, because it generates collateral. This is a diversion of talented human resources in unproductive, useless directions.

A graphic with no description
Again, excessive growth of credit almost always leads to crises, as Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff showed in This Time is Different. This is why no modern government dares let the supposedly market-driven financial sector operate unaided and unguided. But that in turn creates huge opportunities to gain from irresponsibility: heads, they win; tails, the rest of us lose. Further crises are guaranteed.

Finance also creates rising inequality. Thomas Philippon of the Stern School of Business and Ariell Reshef of the Paris School of Economics showed that the relative earnings of finance professionals exploded upwards in the 1980s with the deregulation of finance. They estimated that “rents” — earnings over and above those needed to attract people into the industry — accounted for 30-50 per cent of the pay differential between finance professionals and the rest of the private sector.

TOPSHOT - US President Donald Trump (C) addresses supporters during a campaign rally in Rio Rancho, New Mexico, on September 16, 2019. (Photo by Nicholas Kamm / AFP)NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images
US president Donald Trump, a naive mercantilist, focuses on bilateral trade imbalances as a cause of job losses © Getty Images
This explosion of financial activity since 1980 has not raised the growth of productivity. If anything, it has lowered it, especially since the crisis. The same is true of the explosion in pay of corporate management, yet another form of rent extraction. As Deborah Hargreaves, founder of the High Pay Centre, notes, in the UK the ratio of average chief executive pay to that of average workers rose from 48 to one in 1998 to 129 to one in 2016. In the US, the same ratio rose from 42 to one in 1980 to 347 to one in 2017.

As the US essayist HL Mencken wrote: “For every complex problem, there is an answer that is clear, simple and wrong.” Pay linked to the share price gave management a huge incentive to raise that price, by manipulating earnings or borrowing money to buy the shares. Neither adds value to the company. But they can add a great deal of wealth to management. A related problem with governance is conflicts of interest, notably over independence of auditors.

In sum, personal financial considerations permeate corporate decision-making. As the independent economist Andrew Smithers argues in Productivity and the Bonus Culture, this comes at the expense of corporate investment and so of long-run productivity growth.

A possibly still more fundamental issue is the decline of competition. Mr Furman and Mr Orszag say there is evidence of increased market concentration in the US, a lower rate of entry of new firms and a lower share of young firms in the economy compared with three or four decades ago. Work by the OECD and Oxford Martin School also notes widening gaps in productivity and profit mark-ups between the leading businesses and the rest. This suggests weakening competition and rising monopoly rent. Moreover, a great deal of the increase in inequality arises from radically different rewards for workers with similar skills in different firms: this, too, is a form of rent extraction.

A graphic with no description
A part of the explanation for weaker competition is “winner-takes-almost-all” markets: superstar individuals and their companies earn monopoly rents, because they can now serve global markets so cheaply. The network externalities — benefits of using a network that others are using — and zero marginal costs of platform monopolies (Facebook, Google, Amazon, Alibaba and Tencent) are the dominant examples.

Another such natural force is the network externalities of agglomerations, stressed by Paul Collier in The Future of Capitalism. Successful metropolitan areas — London, New York, the Bay Area in California — generate powerful feedback loops, attracting and rewarding talented people. This disadvantages businesses and people trapped in left-behind towns. Agglomerations, too, create rents, not just in property prices, but also in earnings.

Yet monopoly rent is not just the product of such natural — albeit worrying — economic forces. It is also the result of policy. In the US, Yale University law professor Robert Bork argued in the 1970s that “consumer welfare” should be the sole objective of antitrust policy. As with shareholder value maximisation, this oversimplified highly complex issues. In this case, it led to complacency about monopoly power, provided prices stayed low. Yet tall trees deprive saplings of the light they need to grow. So, too, may giant companies.

A graphic with no description
Some might argue, complacently, that the “monopoly rent” we now see in leading economies is largely a sign of the “creative destruction” lauded by the Austrian economist Joseph Schumpeter. In fact, we are not seeing enough creation, destruction or productivity growth to support that view convincingly.

A disreputable aspect of rent-seeking is radical tax avoidance. Corporations (and so also shareholders) benefit from the public goods — security, legal systems, infrastructure, educated workforces and sociopolitical stability — provided by the world’s most powerful liberal democracies. Yet they are also in a perfect position to exploit tax loopholes, especially those companies whose location of production or innovation is difficult to determine.

The biggest challenges within the corporate tax system are tax competition and base erosion and profit shifting. We see the former in falling tax rates. We see the latter in the location of intellectual property in tax havens, in charging tax-deductible debt against profits accruing in higher-tax jurisdictions and in rigging transfer prices within firms.

A 2015 study by the IMF calculated that base erosion and profit shifting reduced long-run annual revenue in OECD countries by about $450bn (1 per cent of gross domestic product) and in non-OECD countries by slightly over $200bn (1.3 per cent of GDP). These are significant figures in the context of a tax that raised an average of only 2.9 per cent of GDP in 2016 in OECD countries and just 2 per cent in the US.

A graphic with no description
Brad Setser of the Council on Foreign Relations shows that US corporations report seven times as much profit in small tax havens (Bermuda, the British Caribbean, Ireland, Luxembourg, Netherlands, Singapore and Switzerland) as in six big economies (China, France, Germany, India, Italy and Japan). This is ludicrous. The tax reform under Mr Trump changed essentially nothing. Needless to say, not only US corporations benefit from such loopholes.

In such cases, rents are not merely being exploited. They are being created, through lobbying for distorting and unfair tax loopholes and against needed regulation of mergers, anti-competitive practices, financial misbehaviour, the environment and labour markets. Corporate lobbying overwhelms the interests of ordinary citizens. Indeed, some studies suggest that the wishes of ordinary people count for next to nothing in policymaking.

Not least, as some western economies have become more Latin American in their distribution of incomes, their politics have also become more Latin American. Some of the new populists are considering radical, but necessary, changes in competition, regulatory and tax policies. But others rely on xenophobic dog whistles while continuing to promote a capitalism rigged to favour a small elite. Such activities could well end up with the death of liberal democracy itself.

A graphic with no description
Members of the Business Roundtable and their peers have tough questions to ask themselves. They are right: seeking to maximise shareholder value has proved a doubtful guide to managing corporations. But that realisation is the beginning, not the end. They need to ask themselves what this understanding means for how they set their own pay and how they exploit — indeed actively create — tax and regulatory loopholes
 
E' davvero divertente leggere "la globalizzazione non c'entra" e poi elencare tutta una serie di problemi
che nascono proprio dalla globalizzazione. "Gli stati si fanno concorrenza fra loro" .... ma va? E viene presentata
come una scelta, non come un'ovvia conseguenza della liberta' di circolazione di merci e capitali.
"I manager inseguono solo i profitti di breve e i bonus": e cos'altro dovrebbero inseguire con capitali che possono spostarsi
in un lampo da una parte all'altra del globo con un click? Se non fai utili e non distribuisci dividendi (o fai salire il prezzo delle azioni)
la gente sposta i soldi dove rendono di piu'. E ci mancherebbe altro. Cosi' come la tendenza a formare oligopoli e monopoli ...
e' l'ovvia conseguenza di lungo periodo del capitalismo, niente di nuovo sotto il sole.
A me sembra un quasi-manifesto fuffa per convincere la gente che "siamo sensibili al problema, sicuramente ci impegneremo
per sistemare le cose ..... ma non votate il babau che vuole impedirci di continuare a fare come ca**o ci pare ... ci autoregolamenteremo,
fidati !!"

:asd:
 
Immondizia al solo fine di giustificare patrimoniali.
La democrazia liberale è a rischio?
Che crepi!
 
il capitalismo ha funzionato bene finchè c'erano i due blocchi, e il capitalismo si autocalmierava per far star meglio e quindi tenere il consenso della sua massa.
 
E' davvero divertente leggere "la globalizzazione non c'entra" e :

Si tratta pur sempre del FT e di MW.
La narrazione la presentano in modo palatabile per i loro padroni e clienti e non possono evadere una visione ideologica del capitalismo.

Ma rispetto alle idiozie in circolazione sui grandi organi di disinformazione è molto più che apprezzabile e è intelligente.
Se poi lo si compara ai cialtroneschi bollettini della disinformazipne nazionale uno si domanda come incontrino ancora dei babbei che li comperino.
 
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