- Registrato
- 28/8/03
- Messaggi
- 544
- Punti reazioni
- 179
L’America scopre i piedi d’argilla di Ford e General Motors
NEW YORK
Dopo la bolla speculativa della new economy e quella del mattone, un altro "rigonfiamento gassoso" rischia di avere effetti disastrosi sulla economia americana e di turbare i sogni di gloria di George Bush. A Detroit la chiamano "auto bubble". Fino all'anno scorso, grazie ai ridotti costi energetici e ai bassi tassi, l'industria dell'auto ha continuato a crescere, a tirare, mantenendo alta la capacità produttiva. Così anche nel settore si è creata una bolla che adesso potrebbe scoppiare. La precipitosa (e costosa) fuga della Gm dalla Fiat aveva fatto pensare che Rick Wagoner, presidente della più grande industria automobilistica mondiale, avesse problemi specifici, legati a errori manageriali, al pessimo andamento europeo e a situazioni storiche, come l'alto costo della previdenza sanitaria concessa ai dipendenti e ai pensionati. La Gm è la più fragile tra i grandi protagonisti mondiali. Rischia il sorpasso da parte della Toyota e quest'anno brucerà 2 miliardi di dollari di cashflow in aggiunta ai 2 del salasso Fiat. Ma l'irrompere di problemi analoghi a casa Ford e persino nei gruppi stranieri con impianti negli Usa, ha fatto capire che il malessere è dell'intero settore.
Dal 1997 il valore del parcomacchine degli americani è cresciuto del 50%, un aumentorecord da quando Henry Ford dette il via alla produzione di massa di veicoli. Il boom non è dipeso né dalla crescita demografica né dalla lievitazione dei redditi della famiglie: nello stesso periodo, infatti, il numero dei nuclei familiari è aumentato solo del 12 per cento e il reddito, al netto dell'inflazione, appena del 3 per cento. Dietro all'assalto dei concessionari c'erano invece altre ragioni congiunturali.
La politica dei bassi tassi di interesse ha permesso alla Gm e alla Ford di moltiplicare le offerte di leasing e di mutui, drogando le vendite. I prezzi contenuti del barile hanno spinto molti americani a inseguire il mito del gippone, del fuoristrada, della Suv (sport utility vehicle). Di qui gli anni d'oro per Detroit, che è riuscita a cavallo del millennio a differenziarsi rispetto all'andamento molto meno brillante di altri settori industriali. Oggi l'occupazione nell'auto rappresenta una percentuale più alta, sull'insieme dell'industria manifatturiera, rispetto agli anni novanta. E la produzione di veicoli e di componentistica auto è aumentata dal 1997 del 33 per cento, rispetto al 3 per cento di crescita del resto dell'industria (a eccezione dell'alta tecnologia). Nello stesso periodo la capacità produttiva è salita del 20%. Ma i tempi delle vacche grasse sembrano finiti, con ripercussioni generalizzate sull'economia e sulla società, visto che l'auto incide per il 5 per cento sul pil (prodotto interno lordo) degli Stati Uniti e dà impiego, direttamente e in via indiretta, a un lavoratore americano su sette.
Aziendasimbolo della potenza economica americana e della "cultura" dell'automobile, la General motors rischia di trasformarsi in un caso emblematico di declino industriale.
A metà marzo il presidente Wagoner ha diffuso un "profit warning", un allarme sull'andamento degli utili, che ha avuto pesanti ripercussioni a Wall Street. Il comunicato ufficiale preannunciava un bilancio 2005 peggiore delle aspettative, con una perdita di 1,5 dollari per azione nel primo trimestre e un guadagno di appena 12 dollari a titolo, rispetto ai 45 dollari delle previsioni.
Dietro all'improvviso cedimento c'è soprattutto il calo delle vendite di Suv. Sono vetture che consumano molto, e diventano problemariche anche in un paese in cui la benzina costa ancora meno di mezzo euro al litro. La quota della Gm nel mercato nordamericano, che mezzo secolo fa superava il 50 per cento e l'anno scorso era al 27,5 per cento, ora è scesa al di sotto del fatidico 25 per cento.
"Le operazioni nordamericane sono come il nostro gorilla da 400 chili, cioè sono il nostro punto di forza", ha commentato Wagoner. "Ecco perché è così importante rimetterle in sesto". Non sarà un obiettivo facile:
innanzitutto il petrolio continua a salire, ormai si avvicina ai 60 dollari al barile. La Gm ha poi costi di produzione più alti delle case concorrenti, specie di quelle asiatiche, soprattutto per effetto delle spese previdenziali.
Si calcola che nell'anno in corso l'azienda di Detroit, che è la maggiore fornitrice privata di assistenza sanitaria, spenderà 5,6 miliardi di dollari per gli impegni assunti con un milione di dipendenti e pensionati. Vi è poi la questione dei prezzi delle auto, del 1015 per cento superiori a quelli delle auto giapponesi.
Per i nipotini di Henry Ford, che oggi sono al volante dell'altra big di Detroit, le cose non vanno molto meglio.
Le inquietudini sono soprattutto legate ai nuovi modelli.
Prodotte dallo stabilimento di Chicago, la Five Hundred, la Mercury Montego e la Freestyle crossover wagon dovevano servire a contrastare la concorrenza delle giapponesi e coreani. Ma i tre modelli vendono addirittura meno della vecchia Taurus. "La nostra sfida è di convincere i consumatori che non vendiamo solo camioncini e pickup", dice George Pipas, l'uomo che alla Ford macina cifre e scruta il mercato. "Disponiamo invece anche di ottime berline, capaci di attrarre l'attenzione, l'interesse, come la Five Hundred".
La crisi d'identità di Detroit ricorda quella del passato. Anche dieci anni fa la capitale americana dell'industria dell'auto era una metropoli in rapido disfacimento urbanistico. I managers delle "Big Three", le tre grandi case a stelle e strisce, presentavano bilanci sempre più in rosso. La Gm aveva un buco nel fondo previdenziale di 21 miliardi di dollari. Il regista Michael Moore, ancora alle prime armi, prendeva in giro il presidente del colosso nel film "Roger & me". E gli analisti di Wall Street parlavano del sorpasso delle giapponesi con lo stesso tono di una telecronaca da Indianapolis.
Poi le cose andarono diversamente. Le ristrutturazioni avviate negli anni di Bush senior misero mani ad alcuni problemi strutturali dell'industria dell'auto, la concorrenza giapponese fu arginata e le "Big Three" ricominciarono a macinare utili. Ma ora, dopo vari anni di relativa serenità, ci risiamo. Il pessimismo dilaga, i conti peggiorano, Detroit è in una crisi depressiva. E il fantasma della Toyota si aggira nelle freeways californiane e nei concessionari del midwest come se il sorpasso della numero uno americana fosse imminente.
Nel 1950 il "president" della Gm Harlow Curtice disse che non esistevano anni brutti per l'industria dell'auto: "Ci sono solo anni buoni e anni migliori". I tempi sono cambiati, specie per la Gm, che sta attraversando alcuni dei mesi più difficili della sua storia. E non è un caso che qualcuno usi, per la prima volta, e con una disinvoltura forse eccessiva,la "parolachecominciaconlaeffe". Cioè fallimento.
NEW YORK
Dopo la bolla speculativa della new economy e quella del mattone, un altro "rigonfiamento gassoso" rischia di avere effetti disastrosi sulla economia americana e di turbare i sogni di gloria di George Bush. A Detroit la chiamano "auto bubble". Fino all'anno scorso, grazie ai ridotti costi energetici e ai bassi tassi, l'industria dell'auto ha continuato a crescere, a tirare, mantenendo alta la capacità produttiva. Così anche nel settore si è creata una bolla che adesso potrebbe scoppiare. La precipitosa (e costosa) fuga della Gm dalla Fiat aveva fatto pensare che Rick Wagoner, presidente della più grande industria automobilistica mondiale, avesse problemi specifici, legati a errori manageriali, al pessimo andamento europeo e a situazioni storiche, come l'alto costo della previdenza sanitaria concessa ai dipendenti e ai pensionati. La Gm è la più fragile tra i grandi protagonisti mondiali. Rischia il sorpasso da parte della Toyota e quest'anno brucerà 2 miliardi di dollari di cashflow in aggiunta ai 2 del salasso Fiat. Ma l'irrompere di problemi analoghi a casa Ford e persino nei gruppi stranieri con impianti negli Usa, ha fatto capire che il malessere è dell'intero settore.
Dal 1997 il valore del parcomacchine degli americani è cresciuto del 50%, un aumentorecord da quando Henry Ford dette il via alla produzione di massa di veicoli. Il boom non è dipeso né dalla crescita demografica né dalla lievitazione dei redditi della famiglie: nello stesso periodo, infatti, il numero dei nuclei familiari è aumentato solo del 12 per cento e il reddito, al netto dell'inflazione, appena del 3 per cento. Dietro all'assalto dei concessionari c'erano invece altre ragioni congiunturali.
La politica dei bassi tassi di interesse ha permesso alla Gm e alla Ford di moltiplicare le offerte di leasing e di mutui, drogando le vendite. I prezzi contenuti del barile hanno spinto molti americani a inseguire il mito del gippone, del fuoristrada, della Suv (sport utility vehicle). Di qui gli anni d'oro per Detroit, che è riuscita a cavallo del millennio a differenziarsi rispetto all'andamento molto meno brillante di altri settori industriali. Oggi l'occupazione nell'auto rappresenta una percentuale più alta, sull'insieme dell'industria manifatturiera, rispetto agli anni novanta. E la produzione di veicoli e di componentistica auto è aumentata dal 1997 del 33 per cento, rispetto al 3 per cento di crescita del resto dell'industria (a eccezione dell'alta tecnologia). Nello stesso periodo la capacità produttiva è salita del 20%. Ma i tempi delle vacche grasse sembrano finiti, con ripercussioni generalizzate sull'economia e sulla società, visto che l'auto incide per il 5 per cento sul pil (prodotto interno lordo) degli Stati Uniti e dà impiego, direttamente e in via indiretta, a un lavoratore americano su sette.
Aziendasimbolo della potenza economica americana e della "cultura" dell'automobile, la General motors rischia di trasformarsi in un caso emblematico di declino industriale.
A metà marzo il presidente Wagoner ha diffuso un "profit warning", un allarme sull'andamento degli utili, che ha avuto pesanti ripercussioni a Wall Street. Il comunicato ufficiale preannunciava un bilancio 2005 peggiore delle aspettative, con una perdita di 1,5 dollari per azione nel primo trimestre e un guadagno di appena 12 dollari a titolo, rispetto ai 45 dollari delle previsioni.
Dietro all'improvviso cedimento c'è soprattutto il calo delle vendite di Suv. Sono vetture che consumano molto, e diventano problemariche anche in un paese in cui la benzina costa ancora meno di mezzo euro al litro. La quota della Gm nel mercato nordamericano, che mezzo secolo fa superava il 50 per cento e l'anno scorso era al 27,5 per cento, ora è scesa al di sotto del fatidico 25 per cento.
"Le operazioni nordamericane sono come il nostro gorilla da 400 chili, cioè sono il nostro punto di forza", ha commentato Wagoner. "Ecco perché è così importante rimetterle in sesto". Non sarà un obiettivo facile:
innanzitutto il petrolio continua a salire, ormai si avvicina ai 60 dollari al barile. La Gm ha poi costi di produzione più alti delle case concorrenti, specie di quelle asiatiche, soprattutto per effetto delle spese previdenziali.
Si calcola che nell'anno in corso l'azienda di Detroit, che è la maggiore fornitrice privata di assistenza sanitaria, spenderà 5,6 miliardi di dollari per gli impegni assunti con un milione di dipendenti e pensionati. Vi è poi la questione dei prezzi delle auto, del 1015 per cento superiori a quelli delle auto giapponesi.
Per i nipotini di Henry Ford, che oggi sono al volante dell'altra big di Detroit, le cose non vanno molto meglio.
Le inquietudini sono soprattutto legate ai nuovi modelli.
Prodotte dallo stabilimento di Chicago, la Five Hundred, la Mercury Montego e la Freestyle crossover wagon dovevano servire a contrastare la concorrenza delle giapponesi e coreani. Ma i tre modelli vendono addirittura meno della vecchia Taurus. "La nostra sfida è di convincere i consumatori che non vendiamo solo camioncini e pickup", dice George Pipas, l'uomo che alla Ford macina cifre e scruta il mercato. "Disponiamo invece anche di ottime berline, capaci di attrarre l'attenzione, l'interesse, come la Five Hundred".
La crisi d'identità di Detroit ricorda quella del passato. Anche dieci anni fa la capitale americana dell'industria dell'auto era una metropoli in rapido disfacimento urbanistico. I managers delle "Big Three", le tre grandi case a stelle e strisce, presentavano bilanci sempre più in rosso. La Gm aveva un buco nel fondo previdenziale di 21 miliardi di dollari. Il regista Michael Moore, ancora alle prime armi, prendeva in giro il presidente del colosso nel film "Roger & me". E gli analisti di Wall Street parlavano del sorpasso delle giapponesi con lo stesso tono di una telecronaca da Indianapolis.
Poi le cose andarono diversamente. Le ristrutturazioni avviate negli anni di Bush senior misero mani ad alcuni problemi strutturali dell'industria dell'auto, la concorrenza giapponese fu arginata e le "Big Three" ricominciarono a macinare utili. Ma ora, dopo vari anni di relativa serenità, ci risiamo. Il pessimismo dilaga, i conti peggiorano, Detroit è in una crisi depressiva. E il fantasma della Toyota si aggira nelle freeways californiane e nei concessionari del midwest come se il sorpasso della numero uno americana fosse imminente.
Nel 1950 il "president" della Gm Harlow Curtice disse che non esistevano anni brutti per l'industria dell'auto: "Ci sono solo anni buoni e anni migliori". I tempi sono cambiati, specie per la Gm, che sta attraversando alcuni dei mesi più difficili della sua storia. E non è un caso che qualcuno usi, per la prima volta, e con una disinvoltura forse eccessiva,la "parolachecominciaconlaeffe". Cioè fallimento.