Mauro Camisani Calzolari: Debito pubblico italiano.

  • Ecco la 60° Edizione del settimanale "Le opportunità di Borsa" dedicato ai consulenti finanziari ed esperti di borsa.

    Questa settimana abbiamo assistito a nuovi record assoluti in Europa e a Wall Street. Il tutto, dopo una ottava che ha visto il susseguirsi di riunioni di banche centrali. Lunedì la Bank of Japan (BoJ) ha alzato i tassi per la prima volta dal 2007, mettendo fine all’era del costo del denaro negativo e al controllo della curva dei rendimenti. Mercoledì la Federal Reserve (Fed) ha confermato i tassi nel range 5,25%-5,50%, mentre i “dots”, le proiezioni dei funzionari sul costo del denaro, indicano sempre tre tagli nel corso del 2024. Il Fomc ha anche discusso in merito ad un possibile rallentamento del ritmo di riduzione del portafoglio titoli. Ieri la Bank of England (BoE) ha lasciato i tassi di interesse invariati al 5,25%. Per continuare a leggere visita il link

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DEBITO PUBBLICO
Ogni italiano ha l’equivalente di 33.000 euro di debito pubblico. Ecco come ridurlo.
Il problema
L’Italia non è sempre stata un paese ad alto debito pubblico. Cattive politiche di bilancio hanno provocato un rapido aumento del debito pubblico dagli anni Settanta a oggi, portandolo a superare i 2000 miliardi di euro;
Rispetto al Pil, il debito pubblico italiano vale circa il 126%;
In termini pro capite, ciò significa che su ciascun cittadino italiano grava l’equivalente di circa 33.000 euro di debito.
Nel corso della sua storia, l’Italia non è sempre stata fiscalmente irresponsabile. La situazione delle sue finanze pubbliche ha attraversato periodi difficili, come le due guerre mondiali e il periodo fascista, e periodi più felici, come i primi anni del Novecento e il secondo dopoguerra. Da metà anni Sessanta, però, una reinterpretazione “lassista” dell’articolo 81 della Costituzione ha cambiato il sistema di vincoli che agivano sui politici ed ha permesso un’esplosione dell’indebitamento. Durante i decenni successivi, nessuno è mai davvero riuscito a invertire questo pericoloso trend.
Ci ritroviamo a iniziare il 2013 con oltre 2.000 miliardi di debito pubblico ufficiale, circa il 126% del PIL. Se aggiungiamo anche le stime dei debiti commerciali della PA, arriviamo al 131%, in continua crescita.
In termini di interessi, questi alti livelli di debito pubblico costano ai contribuenti italiani circa 80 miliardi di euro ogni anno: più del 5% del Pil e circa il 10% del totale della spesa pubblica. Inoltre, un elevato rapporto debito su PIL pone gravi rischi sistematici e ci rende “osservati speciali” sui mercati finanziari. Abbiamo già visto nell’estate 2011, con lo spread in continua crescita, quanto rapidamente la situazione possa sfuggirci di mano.
La soluzione:
Lo Stato dispone dispone di un patrimonio totale stimato in 1.815 miliardi di euro, la maggior parte del quale disperso tra Regioni, Province e Comuni;
Nell’arco di una legislatura è realistico immaginare di poter vendere asset per un totale di 250-300 miliardi di euro (di cui circa la metà da società e la restante parte da immobili), riducendo in misura corrispondente il rapporto debito/Pil;
La vendita di asset pubblici deve diventare anche un’occasione per fare un’intelligente politica economica, utilizzando l’uscita dello Stato dall’economia come strumento di concorrenza per stimolare la crescita economica.
Teoricamente esistono due modi per abbattere il debito pubblico. Il primo è ripagarlo man mano attraverso avanzi di bilancio maggiori del 4-5% all’anno. Questa strategia oggi in Italia non è praticabile perché rischia di forzare una stretta fiscale troppo pesante e per troppi anni. Il secondo modo è attraverso le dismissioni pubbliche. Lo Stato dispone di di un patrimonio totale stimato in 1.815 miliardi, di cui la maggior parte in immobili.
Escludendo opere d’arte e immobili effettivamente utilizzati dalla PA, otteniamo circa 400 miliardi di immobili effettivamente smobilizzabili dallo Stato.
Il primo problema da affrontare è che questi asset sono dispersi tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Esiste quindi innanzitutto un problema organizzativo e di attribuzione dei ricavi dalla vendita. Un secondo problema consiste nell’impossibilità di smobilizzare tutti gli asset in tempi ragionevoli, diciamo una legislatura. Per vendere molti di questi beni è necessario intervenire sulla loro destinazione d’uso, sul piano regolatore, etc. Questi problemi riducono l’ammontare effettivamente smobilizzabile a circa 136 miliardi.
Nella pratica, il Tesoro dovrà innanzitutto censire tutti i beni cedibili e creare un’inventario. Verranno poi organizzate delle vendite pubbliche o aste aperte al maggior numero di partecipanti possibili durante le quali verranno messi sul mercato singoli cespiti o interi lotti. Se, per la peculiarità di alcuni beni, non si dovessero trovare compratori durante le aste, si potrà procedere con vendite private.
Un’altra proposta della relazione prevede un ruolo più attivo della CDP. In particolare gli enti locali hanno in essere oltre 80 miliardi di euro di debiti nei confronti di Cassa Depositi e Prestiti, che valgono tra i 5 e i 6 punti di debito pubblico. Con un’operazione di debt-equity swap si potrebbe ridurre rapidamente questo debito, consentendo agli enti locali attraverso la cessione degli immobili non utilizzati per fini istituzionali alla CDP in cambio dell’annullamento del debito. CDP sostituirebbe i prestiti concessi nelle attività con le quote di un fondo immobiliare in cui conferire come equity gli immobili ricevuti da alienare in un secondo momento. In termini quantitativi l’operazione di equity-debt swap ridurrebbe il debito pubblico di quasi 6 punti di PIL ed è un’operazione dalle tempistiche piuttosto rapide. Una volta creati i fondi, CDP potrebbe affidarne la gestione a privati, selezionati tramite una gara informata a criteri di trasparenza e coinvolgendo acquirenti non solo italiani.
Vi è poi una vasta galassia di società controllate dal settore pubblico che potrebbero essere valorizzate attraverso una politica di privatizzazioni.
Circa 135 miliardi potrebbero poi arrivare dalla vendita delle partecipazioni statali. Alcune di queste partecipazioni sono quotate, molte non lo sono. Questi processi non devono essere interpretati solo come modi di “fare cassa” ma come occasioni per intraprendere una vera e propria politica industriale volta alla liberalizzazione e all’apertura alla concorrenza di settori precedentemente monopolizzati dallo Stato.
In totale, è realistico pensare di poter alienare circa 271 miliardi di euro nell’arco dei prossimi 5 anni. L’operazione aiuterebbe ad abbattere il debito pubblico e convincere i mercati della determinazione dell’Italia nel voler cambiare rotta. Potrebbe anche stimolare il PIL attraverso l’apertura alla concorrenza di interi settori e farebbe sicuramente risparmiare ai contribuenti miliardi di euro ogni anno in interessi sul debito pubblico.
 
DEBITO PUBBLICO
Ogni italiano ha l’equivalente di 33.000 euro di debito pubblico. Ecco come ridurlo.
Il problema
L’Italia non è sempre stata un paese ad alto debito pubblico. Cattive politiche di bilancio hanno provocato un rapido aumento del debito pubblico dagli anni Settanta a oggi, portandolo a superare i 2000 miliardi di euro;
Rispetto al Pil, il debito pubblico italiano vale circa il 126%;
In termini pro capite, ciò significa che su ciascun cittadino italiano grava l’equivalente di circa 33.000 euro di debito.
Nel corso della sua storia, l’Italia non è sempre stata fiscalmente irresponsabile. La situazione delle sue finanze pubbliche ha attraversato periodi difficili, come le due guerre mondiali e il periodo fascista, e periodi più felici, come i primi anni del Novecento e il secondo dopoguerra. Da metà anni Sessanta, però, una reinterpretazione “lassista” dell’articolo 81 della Costituzione ha cambiato il sistema di vincoli che agivano sui politici ed ha permesso un’esplosione dell’indebitamento. Durante i decenni successivi, nessuno è mai davvero riuscito a invertire questo pericoloso trend.
Ci ritroviamo a iniziare il 2013 con oltre 2.000 miliardi di debito pubblico ufficiale, circa il 126% del PIL. Se aggiungiamo anche le stime dei debiti commerciali della PA, arriviamo al 131%, in continua crescita.
In termini di interessi, questi alti livelli di debito pubblico costano ai contribuenti italiani circa 80 miliardi di euro ogni anno: più del 5% del Pil e circa il 10% del totale della spesa pubblica. Inoltre, un elevato rapporto debito su PIL pone gravi rischi sistematici e ci rende “osservati speciali” sui mercati finanziari. Abbiamo già visto nell’estate 2011, con lo spread in continua crescita, quanto rapidamente la situazione possa sfuggirci di mano.
La soluzione:
Lo Stato dispone dispone di un patrimonio totale stimato in 1.815 miliardi di euro, la maggior parte del quale disperso tra Regioni, Province e Comuni;
Nell’arco di una legislatura è realistico immaginare di poter vendere asset per un totale di 250-300 miliardi di euro (di cui circa la metà da società e la restante parte da immobili), riducendo in misura corrispondente il rapporto debito/Pil;
La vendita di asset pubblici deve diventare anche un’occasione per fare un’intelligente politica economica, utilizzando l’uscita dello Stato dall’economia come strumento di concorrenza per stimolare la crescita economica.
Teoricamente esistono due modi per abbattere il debito pubblico. Il primo è ripagarlo man mano attraverso avanzi di bilancio maggiori del 4-5% all’anno. Questa strategia oggi in Italia non è praticabile perché rischia di forzare una stretta fiscale troppo pesante e per troppi anni. Il secondo modo è attraverso le dismissioni pubbliche. Lo Stato dispone di di un patrimonio totale stimato in 1.815 miliardi, di cui la maggior parte in immobili.
Escludendo opere d’arte e immobili effettivamente utilizzati dalla PA, otteniamo circa 400 miliardi di immobili effettivamente smobilizzabili dallo Stato.
Il primo problema da affrontare è che questi asset sono dispersi tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Esiste quindi innanzitutto un problema organizzativo e di attribuzione dei ricavi dalla vendita. Un secondo problema consiste nell’impossibilità di smobilizzare tutti gli asset in tempi ragionevoli, diciamo una legislatura. Per vendere molti di questi beni è necessario intervenire sulla loro destinazione d’uso, sul piano regolatore, etc. Questi problemi riducono l’ammontare effettivamente smobilizzabile a circa 136 miliardi.
Nella pratica, il Tesoro dovrà innanzitutto censire tutti i beni cedibili e creare un’inventario. Verranno poi organizzate delle vendite pubbliche o aste aperte al maggior numero di partecipanti possibili durante le quali verranno messi sul mercato singoli cespiti o interi lotti. Se, per la peculiarità di alcuni beni, non si dovessero trovare compratori durante le aste, si potrà procedere con vendite private.
Un’altra proposta della relazione prevede un ruolo più attivo della CDP. In particolare gli enti locali hanno in essere oltre 80 miliardi di euro di debiti nei confronti di Cassa Depositi e Prestiti, che valgono tra i 5 e i 6 punti di debito pubblico. Con un’operazione di debt-equity swap si potrebbe ridurre rapidamente questo debito, consentendo agli enti locali attraverso la cessione degli immobili non utilizzati per fini istituzionali alla CDP in cambio dell’annullamento del debito. CDP sostituirebbe i prestiti concessi nelle attività con le quote di un fondo immobiliare in cui conferire come equity gli immobili ricevuti da alienare in un secondo momento. In termini quantitativi l’operazione di equity-debt swap ridurrebbe il debito pubblico di quasi 6 punti di PIL ed è un’operazione dalle tempistiche piuttosto rapide. Una volta creati i fondi, CDP potrebbe affidarne la gestione a privati, selezionati tramite una gara informata a criteri di trasparenza e coinvolgendo acquirenti non solo italiani.
Vi è poi una vasta galassia di società controllate dal settore pubblico che potrebbero essere valorizzate attraverso una politica di privatizzazioni.
Circa 135 miliardi potrebbero poi arrivare dalla vendita delle partecipazioni statali. Alcune di queste partecipazioni sono quotate, molte non lo sono. Questi processi non devono essere interpretati solo come modi di “fare cassa” ma come occasioni per intraprendere una vera e propria politica industriale volta alla liberalizzazione e all’apertura alla concorrenza di settori precedentemente monopolizzati dallo Stato.
In totale, è realistico pensare di poter alienare circa 271 miliardi di euro nell’arco dei prossimi 5 anni. L’operazione aiuterebbe ad abbattere il debito pubblico e convincere i mercati della determinazione dell’Italia nel voler cambiare rotta. Potrebbe anche stimolare il PIL attraverso l’apertura alla concorrenza di interi settori e farebbe sicuramente risparmiare ai contribuenti miliardi di euro ogni anno in interessi sul debito pubblico.

ma se invece la smettessimo di far passare l'idea del ripianamento progressivo del debito e ci limitassimo a rassicurare i mercati sulle ns possibilità di ripagare gli interessi con una buona dose di crescita incutendo fiducia nella sua costanza nel tempo no ehhh ???

Per il resto ti consiglio di studiare meglio l'andamento del ns debito pubblico nell'ultimo mezzo secolo e capirai molte cose sulla sua vera origine e non cadrai così nelle solite banalità
sulla teoria della società dei magnaccioni
 
Mauro Camisani Calzolari: L'Italia, uno dei Paesi che ha sofferto l'adesione all'EURO

L'Italia sicuramente è uno di quei Paesi che ne ha risentito di più, ha avuto una crescita bassissima, anche inferiore alla media degli altri Paesi dell'eurozona, ne paghiamo le conseguenze e ne vediamo gli effetti tuttora.

— Con l'adesione all'euro non c'è stata in realtà solo una perdita di sovranità monetaria, ma c'è stata una perdita di sovranità economica e politica. Privare un Paese della leva monetaria e dei tassi di cambio impedisce l'attuazione di determinate politiche economiche. Inoltre dal punto di vista fiscale siamo limitati dai parametri di Maastricht, quindi da tutti i vincoli imposti da Bruxelles.

Non c'è più margine di alcun tipo, perché non c'è la leva del tasso di cambio, non si può più ricorrere alla svalutazione, né alla possibilità di attuare una politica di spesa pubblica indipendente che possa riportare il Paese alla crescita. Questo perché bisogna rimanere dentro i parametri dettati da Bruxelles e perché si è aderito ad un piano folle e criminale del fiscal compact, il quale impedisce di attuare qualsiasi politica di ripresa economica.

Con la privazione di un'autonomia monetaria c'è l'impossibilità di creare credito da parte dello Stato, siamo finiti nella trappola del debito pubblico, da cui continuando con queste politiche e rimanendo nell'euro sarà impossibile venirne fuori.
Mi auguro che se ne venga fuori il prima possibile perché è un sistema insostenibile, come confermato da illustri economisti. In caso contrario significherebbe continuare in un'agonia che limita la crescita in gran parte dei Paesi, il beneficio è soltanto per la Germania, la cui crescita è comunque relativa. I parametri economici della Germania non sono eccellenti se escludiamo il grande surplus commerciale che crea grandi squilibri nell'area euro.
Non credo che durerà molto a lungo, perché la sua insostenibilità mette a repentaglio l'esistenza e la continuazione del progetto europeo stesso. Anche alcuni anni in più avrebbero degli effetti davvero deleteri per le nostre economie, ogni anno in più è un anno perso di crescita che porta a disastri economici e sociali.

Nel momento in cui non c'è crescita la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha raggiunto livelli record. Ci sono ripercussioni anche sociali, perché si privano le nuove generazioni di un futuro.

— Non credo si possa trattare di un'uscita unilaterale da parte dell'Italia. L'euro è un progetto infondato e insostenibile destinato a implodere, non ha le basi per continuare ad esistere. La moneta unica al mondo esiste solo con l'euro in Europa e con il Franco CFA in Africa. Potrebbe quindi esserci un crollo dell'euro e la fine di questo sistema.

— Come affermano diversi economisti, l'uscita dall'euro sarebbe facilitata se fosse un progetto condiviso da diversi Paesi europei e non un passo soltanto italiano. Che ne pensa?

— Gli stessi tedeschi e alcune correnti degli economisti tedeschi si rendono conto di quanto questo progetto sia insostenibile. Sicuramente un'uscita condivisa con altri Paesi potrebbe facilitare questo passaggio, dobbiamo però scrollarci di dosso queste false paure per cui uscire dall'euro creerebbe dei disastri. L'uscita dall'euro viene vista come una procedura inattuabile che spaventa l'opinione pubblica.

In realtà si è lavorato molto per creare questo spauracchio, si tratta di un sistema monetario con meno di 20 anni, è un esperimento fallito che quindi deve essere rivisto e eventualmente interrotto. Questo senza creare panico nella popolazione. Purtroppo ormai se ne parla sempre di meno per paura delle ripercussioni dei mercati e per non essere tacciati come eversivi e populisti. Si sta creando quasi un tabù dell'uscita dall'euro, un tabù infondato.
Si tratta di un'unione monetaria che nel resto del mondo non esiste, riconosciuta insostenibile. I danni sono provati dall'evidenza e dai parametri economici dei Paesi aderenti, l'euro ha aumentato il divario fra i Paesi anziché portare ad una convergenza. Servirebbe un'uscita ben gestita e addirittura, come ipotizza Stiglitz, un divorzio consensuale che porti alla fine a salvare l'Europa.
 
ma i lette tante cretinate tutte assieme...ancora con la scemenza che bisogna vendere la caserma rimasta vuota :sbonk:
 
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